LA SCUOLA

DEL RISENTIMENTO

L’idea di un atto suicida, sia pure destinato a sconfiggere gli infedeli,

non sembra appartenere all’islam, né nella sua variante sunnita, né in quella sciita.

Paradossalmente è in Occidente che dobbiamo rintracciare la radice di questo atteggiamento,

in particolare nella sua tradizione nichilista di origine ottocentesca.

 

Oddone Camerana

Il terrorismo islamico di questi ultimi tempi ha messo in luce il fenomeno dei suicidi appartenenti alle Brigate dei martiri di Al Aqsa. Si tratta, o si è trattato, di terroristi di religione sunnita, dalla cui tradizione il senso del martirio manca del tutto. La con­traddizione è emersa in occasione dell’omicidio di Massoud, l’uomo a capo del movimento antitalebano in Afghanistan, caduto nel 2001, subi­to dopo l’attacco al Trade World Center dell’11 settembre, in un im­boscata suicida tanto contraria, nel­le sue modalità, al codice di onore di quel popolo di religione sunnita, che non era stata presa alcuna misu­ra difensiva in tal senso. Della questione e degli interrogativi emersi si è occupato lo studioso ira­niano Navid Kerman, il quale, in un saggio comparso sul “Times Literary Supplernent” del 19 marzo 2002, mette a confronto la tradizione sun­nita e quella sciita in materia di mar­tirio. La religione sunnita a cui ap­partengono arabi, palestinesi, ira­cheni, egiziani, afghani, tra cui i ta­lebani, i Tornii Tigers e Bin Laden, non ha il sacrificio tra i suoi miti fon­datori. L’Islam sunnita è una fede vit­toriosa, senza l’idea di una colpa e di una redenzione. Diversa la situa­zione in campo sciita, braccio dell’I­slam a cui appartengono gli irania­ni, cioè i popoli persiani che in fatto di credenze religiose risalgono a Zoroastro, più vicino alla tradizione ebraico-cristiana. All’origine della scissione sciita vediamo infatti il martirio di Hussein bn Ali, avvenuto il 2 ottobre del 680, martirio com­memorato dagli sciiti nella ricorren­za di Muharram. Dunque la tradi­zione sciita iraniana ha tra i suoi riti fondatori una figura cristica, il senti­mento di una colpa origi­naria e il bisogno di puri­ficazione e redenzione, il che metterebbe questa tradizione in una posizione meno lontana dal senso del martirio di quella sunnita. Tuttavia, neanche questo importante fattore di differen­za è sufficiente a convincere che i fi­gli dell’islam siano disponibili ad atti suicidi destinati a sconfiggere gli in­fedeli. Né a questo scopo serve il caso della setta degli Assassini, che rimane un fatto isolato nell’ambito del conflitto storico tra sciiti e sunni­ti, dunque interno all’Islam. A parere di Navid Kerman, per ve­dere come sia stato possibile che il suicidio sacrificale sia penetrato in una tradizione da cui fino a ieri era stato respinto è necessario risalire alla scuola del risentimento che ha origine in Occidente. Per capire gli attacchi suicidi non si deve pertanto risalire al Corano, ma a Nietzsche. L’analisi dei testi teorici che hanno ispirato il recente terrorismo arabo, e l’esame del comportamento tenuto dai leader di questi estremisti, fa­rebbe dire che alla base di esso non vi sia una matrice religiosa, po­polare, di natura economico-socia­le, bensì una frustrazione borghese di natura radicalizzante, ideologi­ca, intellettuale, penetrata tra gli agitatori nichilisti arabi vissuti in Occidente, bisognosi di riscatto, do­minati da un senso molto vivo del loro fallimento vis-à-vis dei maestri occidentali presi ad esempio. E la cosa peggiore sarebbe che a pro­pria giustificazione essi abbiano sentito il bisogno di snaturare la tra­dizione sciita del martirio, storpian­do il messaggio del sopra citato Hussein ibn Ali. Non a caso Bin Laden, allo scopo di distogliere l’oc­chio dalle sue tradizioni borghesi e occidentalizzanti, nei riguardi delle quali, dopo essersi identificato in esse, ora ha voltato la faccia, nelle sue apparizioni televisive compare in una coreografia volutamente e retoricamente arcaica e rifondativa. D’altra parte per risalire a Nietz­sche, al nichilismo attivo, alla voca­zione del nulla, basta osservare co­me ciò che spinge al suicidio gli ap­partenenti palestinesi alle Brigate dei martiri di Al Aqsa sia il risenti­mento patologico ispirato dai mae­stri di questi ultimi, risentimento spe­culare a quello israeliano contro cui agisce. E quel che è peggio è la ri­mozione occidentale del fenomeno, nonché la sua attribuzione alla tradi­zione coranica. Sembrerebbe infatti che i belt-bombers palestinesi non siano un caso isolato, e che il loro risentimento non sia molto diverso da quello del cittadino svizzero di Zug che, nell’autunno scorso, uccise alcuni membri del parlamento regio­nale suicidandosi a sua volta. Le condizioni di isolamento, di separa­zione e di ritiro autistico per entrare nello spirito esplosivo sarebbero in­fatti molto simili. Altrettanto dicasi dell’elaborazione morbosa, secon­do la quale, facendosi vittima e ma­nipolando la propria morte, chi ne soffre si ritiene idoneo a poter entra­re in un processo di divinizzazione. Il risentimento di cui stiamo parlan­do può essere pertanto aggiunto ai falsi miti esportati dall’Occidente nel resto del mondo, fenomeno questo di cui ha parlato il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka. Il fattore che unisce la morte e il dolore, come atti di accusa e di ricatto, alla morte e alla sofferenza, come patrimoni per­sonali da spendere con oculatezza, inalberati come bandiere, sfide, pro­vocazioni, è una conquista recente esportata dall’Occidente. La scoperta del ruolo del risentimen­to, motore potenziato dalla morte minacciata e autoinflitta, è di René Girard. Scoperta rilanciata dal re­cente saggio Il risentimento e i risen­titi di Raffaele La Capria, il quale ne dà un ritratto di grande attualità. Ni­potini di Dostoevskil e Nietzsche, questi non sono più i mediocri e gli schiavi che figurano ne L’Anticristo e in altri testi del filosofo tedesco, ma coloro che della caduta delle gerar­chie soffrono, rifiutandosi di stare al proprio posto. Scontenti di questo li­mite, essi vivono nel risentimento. Una condizione, questa, che da un certo punto in avanti avvelena gran parte delle relazioni umane e in­grossa le file dei malcontenti e degli insoddisfatti di questo mondo. Come ha descritto Dostoevskij foto­grafando la categoria psicologica dei nichilisti del sottosuolo, il risenti­to è prima di tutto chi è in lotta con se stesso e dice apertamente: “Odio tutti, non sopporto più nessuno”. È esperienza comune il fatto che, in epoca di solidarietà, questa dichia­razione, ancorché sussurrata, circo­la con frequenza crescente, special­mente fra i rappresentanti delle cate­gorie liberate. Il bisogno arcaico di vendetta non sarebbe stato sostituito da quello del risentimento se non ci fossero stati gli addetti a tale manipolazione. Il riferimento va agli ideologi e agli opportunisti di questo impulso, ai piccoli Bakunin odierni, ai messia negativi e ai loro apostoli, i Bin La­den e gli sceicchi come Yassin di Hamas, agitatori che, come Stavro­ghin, allevano i loro Verchovenskij senza dir loro tuttavia: “Tu sei la mia scimmia”. I quali, mossi dalla preoc­cupazione di proteggere vittime po­tenziali, ne producono di nuove e certe. Tenuto conto del fatto che il capitale di risentimento è un patrimonio infinito, La Capria non man­ca di far presente come il suo sfrutta­mento sia diventato un mestiere ben remunerato e riconosciuto, un’arte, uno stile, una tendenza, e la rabbia e l’indignazione che riescono a sol­levare una merce apprezzata. Feno­meno che non si sarebbe tuttavia af­fermato se non ci fosse l’equivoco di essersi identificati nei tormenti degli eroi del sottosuolo di Dostoevskij e in quelli di Conrad e di Camus che, da parte dei loro creatori, erano sta­ti oggetto di satira. Attecchito negli Usa, il virus del ri­sentimento ha dato vita alla liti­geous society (“The Washington Po­st”, 5 giugno 2002, The lawsuit cultu­re). Con la metamorfosi del significa­to della vittima, trasformata in un sog­getto i cui diritti in caso di violazione vanno tutelati, ogni occasione è buo­na per rivolgersi alla giustizia con la scusa di risarcir dette vittime dai dan­ni di cui qualcuno è ritenuto respon­sabile: amministrazioni cittadine per aver collocato nei parchi comunali al­talene sulle quali alcuni piccoli utiliz­zatori si siano fatti male; costruttori di passeggini che abbiano messo in commercio prodotti privi della racco­mandazione di rimuovere i trasporta­ti prima, e non dopo, aver piegato i manufatti su cui gli stessi siano stati collocati; istituti scolastici che abbia­no fatto fare ginnastica ai ragazzini loro affidati senza aver verificato l’i­doneità dei terreni ad ammortizzare le eventuali cadute dei praticanti. A seguito dell’affermarsi di questo co­stume, e nel timore di finire accusati dai familiari dei loro parrocchiani per non aver salvato i loro congiunti dal suicidio, in molte parrocchie de­gli Usa si è smesso di sconsigliare inutilmente questa pratica. Da Ifigenia a oggi, attraverso Cristo, siamo passati da un’epoca in cui la vittima era ritenuta colpevole, e la sua soppressione considerata salvifi­ca, ad un’epoca dominata dalla mi­naccia opposta: quella per cui il timo­re che qualcuno o qualcosa possa produrre una vittima ne provoca di nuove e certe. Il senso di questo rove­sciamento è percepibile dalle parole dell’esperto di terrorismo della Rand Corporation e consulente della Casa Bianca e del Congresso Usa. In un’intervista rilasciata a “La Stampa” (12 maggio 2002), Brian Jenkins ha sottolineato la natura infinita della lot­ta al terrorismo. Ponendo l’accento sull’aspetto temporale della questio­ne, ha riposizionato la figura della vittima al centro della nostra società così come lo era stata, e per un tem­po altrettanto infinito e in forma rove­sciata, nella società pagana. Signifi­cativa a questo proposito la risposta data dal capo spirituale di Hamas, in occasione di un’intervista rilasciata a Elisabetta Rosaspina (“Corriere della Sera”, 13 maggio 2002). Alla do­manda: “Intende dunque davvero or­dinare nuovi attacchi suicidi?”, lo sceicco ha fatto presente: “Prego, non sono attacchi suicidi, Il suicidio è un gesto fine a se stesso. Sono sacrifi­ci umani. Sono i nostri martiri che si sacrificano per difendere la nostra terra”. La precisazione rivela il ritor­no di una società sacrificale simile a quella in cui le vittime sacrificali erano già una massa. I belt-bombers, co­me si ricava da un commento di Da­vid von Drehle (“lnternational Herald Tribune”,14 maggio 2002) e il suici­de-terrorism sono infatti un movimen­to di massa e una risposta alle difese sempre più raffinate studiate per con­trastare i dirottamenti aerei e le auto­bombe. Ma siccome duemila anni di storia non si possono cancellare e sic­come questi duemila anni sono tra­scorsi nel tentativo di cancellare l’uso del sacrificio umano come strumento salvifico, l’obbrobrio di averlo ripristi­nato consiste nel fatto che lo si è ripri­stinato nella forma deformata di ar­ma rivendicativa. Nell’incapacità di inquadrare il fenomeno dell’uso del proprio corpo nella prospettiva sacrificale del risentimento si fa pertanto ricorso agli appelli affinché siano at­tuate iniziative urgenti di formazione (Morti romania di Rita Levi Montalcini, “La Repubblica”, 7 maggio 2002).