Non erano lontane da Vindicio le “spiaggette”, solo una manciata
di chilometri, erano rimaste indisturbate per secoli, splendide ed
isolate tra Gaeta e Sperlonga.
L’antica via Flacca che per buona parte del suo percorso
serpeggiava a picco sul mare interrotta solo da torri guardiane
arditamente arroccate a dominare orridi e riviere selvagge, è
stata, sino alla fine degli anni cinquanta, l’unica via di
collegamento verso sud tra Sperlonga e Gaeta. L’antica strada,
percorribile a piedi o a dorso d’asino, si snodava tra un aspro
paesaggio collinare e spiagge incontaminate. Non erano lontane
dalla spiaggia formiana, familiare e sicura, eppure noi le
scoprimmo solo agli inizi degli anni settanta. Da un anno
all’altro il mare dove eravamo cresciuti, cambiò colore, perse la
primitiva innocenza: qualcosa o qualcuno ruppe l’armonia. Allora
guardammo a nuovi lidi e, a piccoli gruppi, migrammo verso nord.
A quel tempo le spiagge conservavano ancora qualcosa dell’antico
splendore, pochi piedi avevano calpestato quella sabbia finissima
che, in alcuni tratti, suonava. Come un fischio, un sibilo, unico
suono insieme a quello delle onde, nel silenzio di quei luoghi
ancora selvatici. Poche persone, spesso nascoste da rocce avanzate
nel mare a delimitare piccole baie, insenature e grotte .
Un pomeriggio di un agosto assolato, ci contammo tre in
quell’angolo di mondo.
Quando la luce acceca, il sole brucia e l’aria è ferma, a volte la
percezione della realtà può essere alterata. Le cicale friniscono
forsennate e d’improvviso tacciono, misteriosamente, tutte
insieme, senza un apparente perché. È in queste magiche ore, sacre
per gli antichi, che è pericoloso abbandonarsi al sonno in luoghi
non protetti, come boschi, sorgenti o rive sconosciute. E’ la
controra, il tempo in cui l’uomo vinto dal caldo e dalla fatica si
concede sosta. E’ questo il momento della giornata in cui si
credeva circolassero tra gli uomini demoni chiamati meridiani,
che potevano essere pericolosi per chi per ventura o distrazione
si fosse imbattuto in essi. Si riteneva peraltro, che anche gli
dei immortali, nel tempo del meriggio, si concedessero
passeggiate terrene, a volte rivelandosi agli uomini.
“Numen inest”: “È passato un Nume”, si diceva, per
definire la particolare emozione data dalla percezione del
“numinoso”, appunto. Un fremito nell’aria, come di un batter
d’ali, un guizzo di luce, un brivido che corre sulla schiena,
lasciavano in uomini di epoche antiche, abituati a convivere con
il miracoloso, un turbamento che essi attribuivano al passaggio di
una divinità.
Rimanemmo in tre e non riuscivamo a venir via da quelle pietre
incastonate nella sabbia.
Come naviganti o naufraghi, con i sensi obnubilati dal caldo e
dalla bonaccia, credemmo di sentire il suono del Cosmo, come unica
nota di un tono basso e profondo, e io vidi o credetti di vedere
le rocce, gli scogli, che potevo toccare allungando il mio braccio
destro, come rilevate, staccate dalla loro stessa materia quasi a
voler volar via, diventare leggere e impalpabili.
Non riuscivamo e forse non volevamo interrompere quello stato di
comunione estatica tra noi e quel luogo dove forse qualche Nume ci
aveva sfiorati, carezzandoci le fronti.