LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

UN COMMENTO

PRIVE DI IDENTITÀ LE VARIANTI AL PIANO REGOLATORE GENERALE

 

Quando per la prima volta, nel 1970 o giù di lì, mi avvicinai ad indagare un Piano Regolatore Generale cittadino ne rimasi profondamente impressionato e, per la complessità del documento e per i contenuti articolati che sottoponeva all'attenzione, immaginai che proprio tale strumento, molto più di ogni altro, era destinato a determinare il futuro del luogo. Ad esso si doveva ricorrere, secondo una mia logica, con quell'intelligenza, razionalità, correttezza ed anche arguzia che un amministratore attento doveva possedere, affinché attraverso ad esso fosse possibile gettare le basi per una crescita ed uno sviluppo della città in grado di offrire alla popolazione il meglio di una realtà umana e territoriale che era giunta a noi trasformata ed arricchita e che noi dovevamo conservare e far progredire. Era quel meglio, continuavo ad immaginare, che doveva concretizzarsi nel documento urbanistico e che, proprio per questo, tale strumento doveva comprendere, sviluppare e concretizzare in ipotesi di sviluppo che avrebbero dovuto rimanere attuali per decenni.

Mi era parso di capire che il Piano Regolatore non dovesse rappresentare lo strumento sterile capace di raccogliere soltanto la sintesi di quattro righe ben tracciate su un foglio bianco e nel contempo recepire con rigore il dettato delle leggi. Doveva invece rappresentare l'espressione più completa di quanto -illuminato e lungimirante- fosse possibile applicare per una corretta e costruttiva gestione del territorio. Pensieri che erano forse quelli di un neofita, non solo in urbanistica, ma anche e soprattutto in politica amministrativa.

Il «Piano» del quale riferisco era quello a lungo ricordato con il nome del suo estensore, l'architetto Piazza. Un «Piano» che il senno di poi impone come un po' folle, un po' megalomane, un po' dettato dalla speranza di un'impossibile crescita della città a trentamila abitanti. Alba aveva fatto lezione ed i nostri amministratori, incaricando il professionista, un torinese, avevano forse pensato che l'esperienza della città langarola, cresciuta da circa cinquemila ad oltre trentamila abitanti in pochi lustri, avrebbe potuto essere fotocopiata pari pari anche per Savigliano. Non avevano però calcolato che le carrozze ferroviarie non rendevano quanto le «trifole», il rosso dolcetto, barbera, barolo o barbaresco, la «nutella» e che Monasterolo, Marene e tre quinti di Genola, bontà loro, non potevano equivalere alle mitiche Langhe.

C'era chi pensava, già allora, ad una Savigliano destinata ad ospitare l'Università, tutta l'Università, mentre l'Ires, l'Istituto di Studi Regionali, sentenziava che il futuro del Piemonte era proprio la nostra città, una città che usufruiva di tutti i benefici del capoluogo di regione senza doverne sopportare gli svantaggi. Piacevole, interessante, decentrata, vivibile. Un po' rustica ma fondamentalmente positiva, perché compromessa tra l'antico e il moderno, tra l'agricolo e l'operaio, tra il commerciale e l'industriale. Bigotta, sì, ma anche intellettuale, di quell'intellettuale che non dava fastidio perché sapeva mostrarsi figlio, o forse nipote di secondo grado, di una contestazione studentesca che non aveva ancora perso la coda. Operosa di operosità centenaria, nobile di nobiltà millenaria. Ricca di una ricchezza quasi galeotta. Cosa poteva mancare, dunque! Solo e soltanto la popolazione, ferma da quasi un secolo a poche decine o centinaia di unità sotto quota ventimila e ben convinta a non salire neanche di un gradino. E, insieme agli abitanti, un centro urbano che non era per niente altisonante, come sarebbe invece in qualche modo servito. Bisognava pensare ed immaginare il territorio urbano come quello di una città che avrebbe potuto nascere dal nulla e crescere, crescere, crescere. Piazze dechirichiane, strade ampie e decorose, alla francese, portici, negozi, locali sfarzosi, cinematografi, teatri, gallerie d'arte. Il tutto collocato a ridosso di un centro storico che doveva sollevare stupore e che poteva essere restaurato e ricostruito tra il serio ed il faceto, con un po' di Disneyland nella testa e Firenze nel cuore. Per quel centro storico, destinato ad entrare nella storia dello sviluppo della città, si inventò di sana pianta un ufficio, quello urbanistico, prima assente, e venne coniato appositamente il termine che gli si attaglia ancor oggi, e cioè «salotto del Piemonte».

Allora, con coraggio -anche se con un po' di incoscienza- il progettista prevedeva l'abbattimento di quella parte di città «extra moenia» da sempre (cioè fuori le mura), compresa nel quadrilatero «povero» e popolare della Savigliano di un tempo, quella dei briganti, degli ubriaconi e dei «giornalieri» di campagna e dei lavori umili, delimitata più o meno dalla vecchia contrada di San Giovanni, dal quartiere delle Rive, dal marinettiano corso del Littorio; cioè dalle attuali via Biga, via Aires, via Torino, corso Caduti e corso Vittorio. Pensava, il progettista, ad una grande piazza, ariosa ed assolata, che avrebbe potuto idealmente collocarsi nella Como razionalista o nella Latina mussoliniana, ma che sullo sfondo non possedeva un edificio di Terragni o un impianto architettonico a grandi colonne voluto dal regime, ma un palazzo che era nulla o poco più di nulla. Poteva sì apparire importante e possente, ma aveva avuto origini ben più modeste. Si doveva all'intelligente umiltà dell'ingegnere civico Clodoveo Cordoni, un «lumlin» qualunque da Castelnuovo Lomellina, che lo aveva pensato non proprio come Municipio, ma come Scuola Elementare maschile, destinazione ampiamente rispettata sino agli anni Trenta, quando il podestà Annibale Galateri, inventandogli «ad hoc» un corso alberato che prima d'allora non esisteva, lo trasformò in austero e monumentale palazzo del potere cittadino. Trasformazione su trasformazione, anche questa aveva un senso.

Un Piano Regolatore, quello denominato «Piazza», che nasceva da presupposti errati ed umanamente inimmaginabili, o comunque distorti. Ma che nasceva da un presupposto. Discutibile, folle, inverosimile, fantascientifico, ma sempre presupposto. Qualcuno lo aveva pensato, qualcuno lo aveva immaginato. Qualcuno, forse, ci aveva anche creduto, mettendoci l'animo e giocandosi la sua personale onestà e credibilità. Rimase intonso, una bella esercitazione. Ma può di sicuro essere paragonato al Piano Regolatore ottocentesco dell'Eula che plasmò per la prima volta l'intero territorio saviglianese, o anche ai quattrocenteschi capitoli «pro ornatu mercati et plates» (per l'abbellimento del mercato e della piazza) che ridisegnarono la piazza Vecchia regalandoci l'attuale foro del quale andiamo fieri. Pensare alla grande non è mai un errore. Bisogna, poi, semplicemente crederci.

Ora, tre decenni dopo, ci troviamo a discutere di una serie di Varianti che ridisegnano nel bene e nel male il percorso urbanistico di Savigliano. Non sono cosucce da quattro soldi, variazioni o trasformazioni destinate a non lasciare il segno o a sopperire a modeste mancanze di carattere strutturale che il tempo e le necessità hanno messo in luce. Si tratta di proposte per interventi corposi, capaci di trasformare la città riplasmandola massicciamente ed imponendo per il futuro il segno ed il senso delle conseguenze di questo documento. Non abbattono il centro per realizzare una piazza, ma impostano operazioni che forse, dal punto di vista urbanistico, impongono decisioni destinate a durare ancor più nel tempo.

Cosa ci raccontano, dunque, queste Varianti? Quale forza di persuasione posseggono? Quali prospettive forniscono al futuro della nostra città? Quali scelte programmatiche vogliono imporre? Come sanno fornire, a chi dovrà attenervisi, quelle indicazioni, che sono culturali, capaci di lasciare il segno di un'evoluzione pensata, immaginata, studiata e, soprattutto, programmata a tavolino in base a dati e conoscenze di sviluppo credibile e verificabile?

Cosa ci raccontano, dunque, queste Varianti? Il nulla. Il nulla in assoluto. Non rispondono all'obiettivo di una programmazione seria e rigorosa, non impongono scelte destinate a rimanere nel tempo, ma accontentano qua e là, con quelle opzioni determinate dalla volontà di non scontentare alcuno, le trasformazioni destinate a mutare fortemente e negativamente il territorio.

Sembra quasi sia la casualità, una casualità studiata e forse indirizzata, l'elemento che più di ogni altro abbia potuto determinare lo stimolo a questo documento. Come dire: si girino le spalle alla città; si indirizzino su di essa alcune manciate di sassolini; si veda dove sono caduti i sassolini e si collochino le bandierine; ad ogni bandierina potrà corrispondere un intervento; se proprio non piacerà, le bandierine potranno anche essere spostate. Qualcuno poi, argomentando la casualità e costruendo su di essa un piacevole contorno, saprà trovare valide giustificazioni ed introdurre argomenti che leggi, regolamenti, carte bollate e chi più ne ha più ne metta, confermeranno ed autorizzeranno senza alcuna formula dubitativa. Ci sono progettisti ed urbanisti che sovente hanno sofferto le imposizioni politiche, che hanno patito, per loro intelligenza, le prepotenze del comando, che hanno subito passivamente scelte che sono cresciute fuori dai loro studi e che li hanno coinvolti professionalmente oltre il dovuto. Non so se è il caso nostro, ma me lo auguro. So, però, che l'«urbanistica», come scienza ormai consolidata, figlia del razionalismo e dell'intelligenza rinascimentale, è anche sentimento, è anche riconoscenza, è pensiero, è crescita, è immaginazione, è cultura, è passione, è lungimiranza. È l'essenza di una città. Il cuore, o meglio ancora l'anima, della città.

Il documento che noi dobbiamo votare, invece, è esattamente il contrario. La mano che ha accompagnato il lapis nella sua traccia sul foglio -sarei anche pronto a giurarlo- non è quella dell'architetto, non è quella dell'urbanista, non è quella del tecnico -che sa riconoscere le conseguenze del proprio segno-, ma è invece quella del politico, che ha voluto usare sul territorio le regole della politica e non della tecnica e della scienza: una pacca sulla spalla, una stretta di mano, una parola rassicurante. Buon viso a cattivo gioco.

Come è possibile immaginare, con una leggerezza che impressiona, che la città possa crescere e svilupparsi con lo stesso principio con cui si confeziona un panino imbottito. Una fetta di pane, una fetta di prosciutto, un po' di formaggio, un'altra fetta di prosciutto ed infine una fetta di pane. Come dire: un po' di centro storico, un po' di artigianato, qualche ufficio, un condominio, una fabbrichetta, un centro residenziale, un'altra fabbrichetta, un po' di supermercato, qualche altro ufficio, un pochetto di campagna e chi più ne ha più ne metta. C'è spazio per tutti! Il tostapane scalda ed assimila i prodotti. Il territorio è inerme e il cittadino può anche sopportare. Nel disordine più assoluto -quel disordine, che anche solo parziale, l'opposizione di una volta contestava a suon di manifesti- chiunque può chiedere ed ottenere quasi quel che vuole. Il frullatore amalgama e restituisce piacevolmente omogeneizzato. Tutti devono credere che ciò avvenga per il bene di tutti.

Il territorio si lacera, le urbanizzazioni costose e insufficienti impongono nuove tasse ai cittadini, le destinazioni naturali e originali vengono stravolte. Siamo una città che da sempre conta più o meno ventimila abitanti. Tanti eravamo quando i nostri confini non superavano il Maira ed il Mellea, tanti siamo oggi, quando ormai abbiamo urbanizzato il camposanto e trasformato il Varaita da confine cittadino, quale era, in corso d'acqua dal tragitto quasi urbano, con referenze ecologiche quasi assicurate. Ormai chiunque può constatare, senza neppure l'ausilio di un tecnico, che il proliferare di edifici destinati all'industria ed all'artigianato ha segnato profondamente il taglio della città. A mo' di «sandwich»: Borgo Marene, non solo a sinistra, ma ora anche a destra, dove si può costruire perché non esiste più il pericolo di esondazione; borgo San Giovanni, prima, durante, dopo, più in qua, più in là, a destra, a sinistra; borgo Pieve, a metà, più avanti, tutto dove possibile; corso Romita, a sinistra e a destra, avanti tutta in direzione di Cavallermaggiore; via Saluzzo, in principio e a metà (la Viancina è salva); le statali, quella per Genola e per Marene; le tangenziali, quelle già presenti e quelle ancor da realizzarsi; le provinciali, sì, anche quelle, sia che raggiungano la Sanità, o che puntino verso Vottignasco o Levaldigi. Ogni altro luogo, poi, è buono. Mi si permetta: non sarà mica, questa, programmazione, o come chiamar la si voglia?

E le residenze di noi «cristiani»? Prima e dopo i capannoni, ci indicano le cartografie. Oltre la statale e a ridosso della ferrovia, da un lato, oltre la statale e a ridosso della statale, dall'altro, nei pressi del camposanto e a ridosso dell'ex statale, dall'altro ancora. Trasformando capannoni, incrementando cubature, sfruttando aiuole, spartitraffici e parcheggi. Nuove case, nuovi quartieri! Sempre più all'esterno, sempre per una città che non ne vuol sapere di superare i ventimila abitanti e che comincia ormai a possedere alloggi sfitti, alloggi invenduti, alloggi disabitati, alloggi indesiderati ed alloggi che il mercato, prima o poi, disprezzerà imponendo ai legittimi proprietari prezzi da fame in cambio di balzelli ed imposte che la pubblica amministrazione incrementerà per necessità. Si tratta, anche in questo caso, di programmazione attenta e scrupolosa?

E il centro storico? Desertificato dalle scelte urbanistiche centripete, desiderose soltanto di espandere, ampliare, occupare il territorio, mettere in moto la macchina dell'imprenditoria edilizia per creare satelliti inoperosi, aree solitarie e poco fornite, realtà destinate col tempo a divenire centri del degrado e dell'abbandono. Come si può sperare di riprogrammare il centro negandone l'esistenza ed incentivando la fuga verso l'esterno? Ma quale esterno! Privo di servizi, strozzato da ponti che sono insufficienti e per i quali nessuno, proprio nessuno, ha meditato dignitose trasformazioni, tagliato da strade che per decenni ancora, prima che faraoniche tangenziali potranno sbocciare dal nulla, saranno chiamate a resistere ad un traffico destinato ad incrementarsi e a rendere difficile o impossibile l'attraversamento.

E i parcheggi? Quelli si faranno, sì, oltre il camposanto, mentre ogni nuovo edificio riscatterà il terreno delegando l'amministrazione -dietro lauto compenso- a realizzare altrove gli spazi per le auto. E così, come oggi gli uomini di governo accusano i precedenti uomini di governo di aver agito con leggerezza e senza programazione, gli uomini di governo di domani potranno accusare gli attuali uomini di governo di aver commesso, a loro volta gli stessi errori dei precedenti uomini di governo. Si dice ping pong. Al terzo colpo, affermano i ragazzi, si perde il responsabile. Ma i parcheggi continuano a non esserci.

E il verde? Qualcuno, in passato, ci ha offerto ampi polmoni di verde. Sono lì, tutti da vedere, da godere e fors'anche da abbattere. Qualcuno, oggi, ci offre cartografie che il verde lo mettono, lo tolgono, lo spostano, lo trasformano. Cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia, sembra di intuire, ma alla fine del gioco si rimane ubriachi e non si capisce bene se il verde è stato inserito o meno.

E le strade? Manco a parlarne! Si faranno. Si penserà, si mediterà. Il documento programmatico non ne fornisce cenno. Qualcuno dice che la Leclerc, se vorrà planare dal paese dei galli a Savigliano, dovrà realizzare un tratto di doppio senso di marcia, una specie di biscottino «pavesino». Oppure una rotonda, ovvero due. Qualcosa che obbligherà i residenti in via Pellico a un «tour de France» (giro di Francia) per potersi avvicinare al centro. E la viabilità del nuovo quartiere che quasi quasi raggiungerà invece la Viancina, subito dopo il «biscottino» di marca francese? Li sarà una questione di «tour de force» (un giro forzato) per il quale la «programmazione futura vedrà di intervenire secondo i criteri che si renderanno necessari in base alla consistenza numerica dei residenti ed ai flussi di traffico che ogni ora, giornalmente, settimanalmente, mensilmente verranno calcolati sulla base delle tabelle ministeriali o governative ed affidati allo studio di apposita commissione o di referente del traffico cui sarà affidato l'incarico della programmazione e della progettazione dell'intera viabilità dell'area con spesa da attingersi ad apposito capitolo». Vale a dire: le case si faranno, per il resto se ne parlerà.

E mentre noi, coi nostri crucci, penseremo a come ridurre il traffico trasformando la viabilità ed indirizzandola verso il centro, ormai svuotato dai residenti e trasformato in dormitorio per negozi ed uffici, qualche altra città, che della programmazione avrà fatto una regola del quotidiano sviluppando il fattibile e guardando al futuro, penserà ai risparmi, all'illuminazione, al teleriscaldamento, alle grandi infrastrutture, agli sviluppi dei centri storici ed alla vivibilità, posta come obiettivo primario di una porzione di storia alla quale noi dobbiamo offrire un valido contributo. Ma sarà un racconto nuovo, insieme a molti altri che questa Variante al Piano Regolatore stimola e propone ma che mi rifiuto, qui, di indagare e raccontare.

Se qualcuno crede che questo documento porterà del bene alla nostra città, rappresenterà il meglio di quanto qualunque Amministrazione, di qualunque colore, poteva dare, significherà un sicuro sviluppo ed una giusta programmazione futura, assicurerà vivibilità per alcuni decenni, lo voti. Io, che penso si tratti di «'n patin e na soca» (una ciabatta e uno zoccolo) sarò decisamente contrario.

luigi botta

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