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PRIVE
DI IDENTITÀ LE VARIANTI AL PIANO REGOLATORE
GENERALE
Quando
per la prima volta, nel 1970 o giù di
lì, mi avvicinai ad indagare un Piano
Regolatore Generale cittadino ne rimasi
profondamente impressionato e, per la
complessità del documento e per i contenuti
articolati che sottoponeva all'attenzione,
immaginai che proprio tale strumento, molto
più di ogni altro, era destinato a
determinare il futuro del luogo. Ad esso si doveva
ricorrere, secondo una mia logica, con
quell'intelligenza, razionalità, correttezza
ed anche arguzia che un amministratore attento
doveva possedere, affinché attraverso ad
esso fosse possibile gettare le basi per una
crescita ed uno sviluppo della città in
grado di offrire alla popolazione il meglio di una
realtà umana e territoriale che era giunta a
noi trasformata ed arricchita e che noi dovevamo
conservare e far progredire. Era quel meglio,
continuavo ad immaginare, che doveva concretizzarsi
nel documento urbanistico e che, proprio per
questo, tale strumento doveva comprendere,
sviluppare e concretizzare in ipotesi di sviluppo
che avrebbero dovuto rimanere attuali per
decenni.
Mi era
parso di capire che il Piano Regolatore non dovesse
rappresentare lo strumento sterile capace di
raccogliere soltanto la sintesi di quattro righe
ben tracciate su un foglio bianco e nel contempo
recepire con rigore il dettato delle leggi. Doveva
invece rappresentare l'espressione più
completa di quanto -illuminato e lungimirante-
fosse possibile applicare per una corretta e
costruttiva gestione del territorio. Pensieri che
erano forse quelli di un neofita, non solo in
urbanistica, ma anche e soprattutto in politica
amministrativa.
Il
«Piano» del quale riferisco era quello a
lungo ricordato con il nome del suo estensore,
l'architetto Piazza. Un «Piano» che il
senno di poi impone come un po' folle, un po'
megalomane, un po' dettato dalla speranza di
un'impossibile crescita della città a
trentamila abitanti. Alba aveva fatto lezione ed i
nostri amministratori, incaricando il
professionista, un torinese, avevano forse pensato
che l'esperienza della città langarola,
cresciuta da circa cinquemila ad oltre trentamila
abitanti in pochi lustri, avrebbe potuto essere
fotocopiata pari pari anche per Savigliano. Non
avevano però calcolato che le carrozze
ferroviarie non rendevano quanto le
«trifole», il rosso dolcetto, barbera,
barolo o barbaresco, la «nutella» e che
Monasterolo, Marene e tre quinti di Genola,
bontà loro, non potevano equivalere alle
mitiche Langhe.
C'era chi
pensava, già allora, ad una Savigliano
destinata ad ospitare l'Università, tutta
l'Università, mentre l'Ires, l'Istituto di
Studi Regionali, sentenziava che il futuro del
Piemonte era proprio la nostra città, una
città che usufruiva di tutti i benefici del
capoluogo di regione senza doverne sopportare gli
svantaggi. Piacevole, interessante, decentrata,
vivibile. Un po' rustica ma fondamentalmente
positiva, perché compromessa tra l'antico e
il moderno, tra l'agricolo e l'operaio, tra il
commerciale e l'industriale. Bigotta, sì, ma
anche intellettuale, di quell'intellettuale che non
dava fastidio perché sapeva mostrarsi
figlio, o forse nipote di secondo grado, di una
contestazione studentesca che non aveva ancora
perso la coda. Operosa di operosità
centenaria, nobile di nobiltà millenaria.
Ricca di una ricchezza quasi galeotta. Cosa poteva
mancare, dunque! Solo e soltanto la popolazione,
ferma da quasi un secolo a poche decine o centinaia
di unità sotto quota ventimila e ben
convinta a non salire neanche di un gradino. E,
insieme agli abitanti, un centro urbano che non era
per niente altisonante, come sarebbe invece in
qualche modo servito. Bisognava pensare ed
immaginare il territorio urbano come quello di una
città che avrebbe potuto nascere dal nulla e
crescere, crescere, crescere. Piazze dechirichiane,
strade ampie e decorose, alla francese, portici,
negozi, locali sfarzosi, cinematografi, teatri,
gallerie d'arte. Il tutto collocato a ridosso di un
centro storico che doveva sollevare stupore e che
poteva essere restaurato e ricostruito tra il serio
ed il faceto, con un po' di Disneyland nella testa
e Firenze nel cuore. Per quel centro storico,
destinato ad entrare nella storia dello sviluppo
della città, si inventò di sana
pianta un ufficio, quello urbanistico, prima
assente, e venne coniato appositamente il termine
che gli si attaglia ancor oggi, e cioè
«salotto del Piemonte».
Allora,
con coraggio -anche se con un po' di incoscienza-
il progettista prevedeva l'abbattimento di quella
parte di città «extra moenia» da
sempre (cioè fuori le mura), compresa nel
quadrilatero «povero» e popolare della
Savigliano di un tempo, quella dei briganti, degli
ubriaconi e dei «giornalieri» di campagna
e dei lavori umili, delimitata più o meno
dalla vecchia contrada di San Giovanni, dal
quartiere delle Rive, dal marinettiano corso del
Littorio; cioè dalle attuali via Biga, via
Aires, via Torino, corso Caduti e corso Vittorio.
Pensava, il progettista, ad una grande piazza,
ariosa ed assolata, che avrebbe potuto idealmente
collocarsi nella Como razionalista o nella Latina
mussoliniana, ma che sullo sfondo non possedeva un
edificio di Terragni o un impianto architettonico a
grandi colonne voluto dal regime, ma un palazzo che
era nulla o poco più di nulla. Poteva
sì apparire importante e possente, ma aveva
avuto origini ben più modeste. Si doveva
all'intelligente umiltà dell'ingegnere
civico Clodoveo Cordoni, un «lumlin»
qualunque da Castelnuovo Lomellina, che lo aveva
pensato non proprio come Municipio, ma come Scuola
Elementare maschile, destinazione ampiamente
rispettata sino agli anni Trenta, quando il
podestà Annibale Galateri, inventandogli
«ad hoc» un corso alberato che prima
d'allora non esisteva, lo trasformò in
austero e monumentale palazzo del potere cittadino.
Trasformazione su trasformazione, anche questa
aveva un senso.
Un Piano
Regolatore, quello denominato «Piazza»,
che nasceva da presupposti errati ed umanamente
inimmaginabili, o comunque distorti. Ma che nasceva
da un presupposto. Discutibile, folle,
inverosimile, fantascientifico, ma sempre
presupposto. Qualcuno lo aveva pensato, qualcuno lo
aveva immaginato. Qualcuno, forse, ci aveva anche
creduto, mettendoci l'animo e giocandosi la sua
personale onestà e credibilità.
Rimase intonso, una bella esercitazione. Ma
può di sicuro essere paragonato al Piano
Regolatore ottocentesco dell'Eula che plasmò
per la prima volta l'intero territorio
saviglianese, o anche ai quattrocenteschi capitoli
«pro ornatu mercati et plates» (per
l'abbellimento del mercato e della piazza) che
ridisegnarono la piazza Vecchia regalandoci
l'attuale foro del quale andiamo fieri. Pensare
alla grande non è mai un errore. Bisogna,
poi, semplicemente crederci.
Ora, tre
decenni dopo, ci troviamo a discutere di una serie
di Varianti che ridisegnano nel bene e nel male il
percorso urbanistico di Savigliano. Non sono
cosucce da quattro soldi, variazioni o
trasformazioni destinate a non lasciare il segno o
a sopperire a modeste mancanze di carattere
strutturale che il tempo e le necessità
hanno messo in luce. Si tratta di proposte per
interventi corposi, capaci di trasformare la
città riplasmandola massicciamente ed
imponendo per il futuro il segno ed il senso delle
conseguenze di questo documento. Non abbattono il
centro per realizzare una piazza, ma impostano
operazioni che forse, dal punto di vista
urbanistico, impongono decisioni destinate a durare
ancor più nel tempo.
Cosa ci
raccontano, dunque, queste Varianti? Quale forza di
persuasione posseggono? Quali prospettive
forniscono al futuro della nostra città?
Quali scelte programmatiche vogliono imporre? Come
sanno fornire, a chi dovrà attenervisi,
quelle indicazioni, che sono culturali, capaci di
lasciare il segno di un'evoluzione pensata,
immaginata, studiata e, soprattutto, programmata a
tavolino in base a dati e conoscenze di sviluppo
credibile e verificabile?
Cosa ci
raccontano, dunque, queste Varianti? Il nulla. Il
nulla in assoluto. Non rispondono all'obiettivo di
una programmazione seria e rigorosa, non impongono
scelte destinate a rimanere nel tempo, ma
accontentano qua e là, con quelle opzioni
determinate dalla volontà di non scontentare
alcuno, le trasformazioni destinate a mutare
fortemente e negativamente il territorio.
Sembra
quasi sia la casualità, una casualità
studiata e forse indirizzata, l'elemento che
più di ogni altro abbia potuto determinare
lo stimolo a questo documento. Come dire: si girino
le spalle alla città; si indirizzino su di
essa alcune manciate di sassolini; si veda dove
sono caduti i sassolini e si collochino le
bandierine; ad ogni bandierina potrà
corrispondere un intervento; se proprio non
piacerà, le bandierine potranno anche essere
spostate. Qualcuno poi, argomentando la
casualità e costruendo su di essa un
piacevole contorno, saprà trovare valide
giustificazioni ed introdurre argomenti che leggi,
regolamenti, carte bollate e chi più ne ha
più ne metta, confermeranno ed
autorizzeranno senza alcuna formula dubitativa. Ci
sono progettisti ed urbanisti che sovente hanno
sofferto le imposizioni politiche, che hanno
patito, per loro intelligenza, le prepotenze del
comando, che hanno subito passivamente scelte che
sono cresciute fuori dai loro studi e che li hanno
coinvolti professionalmente oltre il dovuto. Non so
se è il caso nostro, ma me lo auguro. So,
però, che l'«urbanistica», come
scienza ormai consolidata, figlia del razionalismo
e dell'intelligenza rinascimentale, è anche
sentimento, è anche riconoscenza, è
pensiero, è crescita, è
immaginazione, è cultura, è passione,
è lungimiranza. È l'essenza di una
città. Il cuore, o meglio ancora l'anima,
della città.
Il
documento che noi dobbiamo votare, invece, è
esattamente il contrario. La mano che ha
accompagnato il lapis nella sua traccia sul foglio
-sarei anche pronto a giurarlo- non è quella
dell'architetto, non è quella
dell'urbanista, non è quella del tecnico
-che sa riconoscere le conseguenze del proprio
segno-, ma è invece quella del politico, che
ha voluto usare sul territorio le regole della
politica e non della tecnica e della scienza: una
pacca sulla spalla, una stretta di mano, una parola
rassicurante. Buon viso a cattivo gioco.
Come
è possibile immaginare, con una leggerezza
che impressiona, che la città possa crescere
e svilupparsi con lo stesso principio con cui si
confeziona un panino imbottito. Una fetta di pane,
una fetta di prosciutto, un po' di formaggio,
un'altra fetta di prosciutto ed infine una fetta di
pane. Come dire: un po' di centro storico, un po'
di artigianato, qualche ufficio, un condominio, una
fabbrichetta, un centro residenziale, un'altra
fabbrichetta, un po' di supermercato, qualche altro
ufficio, un pochetto di campagna e chi più
ne ha più ne metta. C'è spazio per
tutti! Il tostapane scalda ed assimila i prodotti.
Il territorio è inerme e il cittadino
può anche sopportare. Nel disordine
più assoluto -quel disordine, che anche solo
parziale, l'opposizione di una volta contestava a
suon di manifesti- chiunque può chiedere ed
ottenere quasi quel che vuole. Il frullatore
amalgama e restituisce piacevolmente omogeneizzato.
Tutti devono credere che ciò avvenga per il
bene di tutti.
Il
territorio si lacera, le urbanizzazioni costose e
insufficienti impongono nuove tasse ai cittadini,
le destinazioni naturali e originali vengono
stravolte. Siamo una città che da sempre
conta più o meno ventimila abitanti. Tanti
eravamo quando i nostri confini non superavano il
Maira ed il Mellea, tanti siamo oggi, quando ormai
abbiamo urbanizzato il camposanto e trasformato il
Varaita da confine cittadino, quale era, in corso
d'acqua dal tragitto quasi urbano, con referenze
ecologiche quasi assicurate. Ormai chiunque
può constatare, senza neppure l'ausilio di
un tecnico, che il proliferare di edifici destinati
all'industria ed all'artigianato ha segnato
profondamente il taglio della città. A mo'
di «sandwich»: Borgo Marene, non solo a
sinistra, ma ora anche a destra, dove si può
costruire perché non esiste più il
pericolo di esondazione; borgo San Giovanni, prima,
durante, dopo, più in qua, più in
là, a destra, a sinistra; borgo Pieve, a
metà, più avanti, tutto dove
possibile; corso Romita, a sinistra e a destra,
avanti tutta in direzione di Cavallermaggiore; via
Saluzzo, in principio e a metà (la Viancina
è salva); le statali, quella per Genola e
per Marene; le tangenziali, quelle già
presenti e quelle ancor da realizzarsi; le
provinciali, sì, anche quelle, sia che
raggiungano la Sanità, o che puntino verso
Vottignasco o Levaldigi. Ogni altro luogo, poi,
è buono. Mi si permetta: non sarà
mica, questa, programmazione, o come chiamar la si
voglia?
E le
residenze di noi «cristiani»? Prima e
dopo i capannoni, ci indicano le cartografie. Oltre
la statale e a ridosso della ferrovia, da un lato,
oltre la statale e a ridosso della statale,
dall'altro, nei pressi del camposanto e a ridosso
dell'ex statale, dall'altro ancora. Trasformando
capannoni, incrementando cubature, sfruttando
aiuole, spartitraffici e parcheggi. Nuove case,
nuovi quartieri! Sempre più all'esterno,
sempre per una città che non ne vuol sapere
di superare i ventimila abitanti e che comincia
ormai a possedere alloggi sfitti, alloggi
invenduti, alloggi disabitati, alloggi indesiderati
ed alloggi che il mercato, prima o poi,
disprezzerà imponendo ai legittimi
proprietari prezzi da fame in cambio di balzelli ed
imposte che la pubblica amministrazione
incrementerà per necessità. Si
tratta, anche in questo caso, di programmazione
attenta e scrupolosa?
E il
centro storico? Desertificato dalle scelte
urbanistiche centripete, desiderose soltanto di
espandere, ampliare, occupare il territorio,
mettere in moto la macchina dell'imprenditoria
edilizia per creare satelliti inoperosi, aree
solitarie e poco fornite, realtà destinate
col tempo a divenire centri del degrado e
dell'abbandono. Come si può sperare di
riprogrammare il centro negandone l'esistenza ed
incentivando la fuga verso l'esterno? Ma quale
esterno! Privo di servizi, strozzato da ponti che
sono insufficienti e per i quali nessuno, proprio
nessuno, ha meditato dignitose trasformazioni,
tagliato da strade che per decenni ancora, prima
che faraoniche tangenziali potranno sbocciare dal
nulla, saranno chiamate a resistere ad un traffico
destinato ad incrementarsi e a rendere difficile o
impossibile l'attraversamento.
E i
parcheggi? Quelli si faranno, sì, oltre il
camposanto, mentre ogni nuovo edificio
riscatterà il terreno delegando
l'amministrazione -dietro lauto compenso- a
realizzare altrove gli spazi per le auto. E
così, come oggi gli uomini di governo
accusano i precedenti uomini di governo di aver
agito con leggerezza e senza programazione, gli
uomini di governo di domani potranno accusare gli
attuali uomini di governo di aver commesso, a loro
volta gli stessi errori dei precedenti uomini di
governo. Si dice ping pong. Al terzo colpo,
affermano i ragazzi, si perde il responsabile. Ma i
parcheggi continuano a non esserci.
E il
verde? Qualcuno, in passato, ci ha offerto ampi
polmoni di verde. Sono lì, tutti da vedere,
da godere e fors'anche da abbattere. Qualcuno,
oggi, ci offre cartografie che il verde lo mettono,
lo tolgono, lo spostano, lo trasformano. Cambiando
l'ordine dei fattori il prodotto non cambia, sembra
di intuire, ma alla fine del gioco si rimane
ubriachi e non si capisce bene se il verde è
stato inserito o meno.
E le
strade? Manco a parlarne! Si faranno. Si
penserà, si mediterà. Il documento
programmatico non ne fornisce cenno. Qualcuno dice
che la Leclerc, se vorrà planare dal paese
dei galli a Savigliano, dovrà realizzare un
tratto di doppio senso di marcia, una specie di
biscottino «pavesino». Oppure una
rotonda, ovvero due. Qualcosa che obbligherà
i residenti in via Pellico a un «tour de
France» (giro di Francia) per potersi
avvicinare al centro. E la viabilità del
nuovo quartiere che quasi quasi raggiungerà
invece la Viancina, subito dopo il
«biscottino» di marca francese? Li
sarà una questione di «tour de
force» (un giro forzato) per il quale la
«programmazione futura vedrà di
intervenire secondo i criteri che si renderanno
necessari in base alla consistenza numerica dei
residenti ed ai flussi di traffico che ogni ora,
giornalmente, settimanalmente, mensilmente verranno
calcolati sulla base delle tabelle ministeriali o
governative ed affidati allo studio di apposita
commissione o di referente del traffico cui
sarà affidato l'incarico della
programmazione e della progettazione dell'intera
viabilità dell'area con spesa da attingersi
ad apposito capitolo». Vale a dire: le case si
faranno, per il resto se ne parlerà.
E mentre
noi, coi nostri crucci, penseremo a come ridurre il
traffico trasformando la viabilità ed
indirizzandola verso il centro, ormai svuotato dai
residenti e trasformato in dormitorio per negozi ed
uffici, qualche altra città, che della
programmazione avrà fatto una regola del
quotidiano sviluppando il fattibile e guardando al
futuro, penserà ai risparmi,
all'illuminazione, al teleriscaldamento, alle
grandi infrastrutture, agli sviluppi dei centri
storici ed alla vivibilità, posta come
obiettivo primario di una porzione di storia alla
quale noi dobbiamo offrire un valido contributo. Ma
sarà un racconto nuovo, insieme a molti
altri che questa Variante al Piano Regolatore
stimola e propone ma che mi rifiuto, qui, di
indagare e raccontare.
Se
qualcuno crede che questo documento porterà
del bene alla nostra città,
rappresenterà il meglio di quanto qualunque
Amministrazione, di qualunque colore, poteva dare,
significherà un sicuro sviluppo ed una
giusta programmazione futura, assicurerà
vivibilità per alcuni decenni, lo voti. Io,
che penso si tratti di «'n patin e na
soca» (una ciabatta e uno zoccolo) sarò
decisamente contrario.
luigi
botta
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