LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

UN COMMENTO

PERCHÈ IL CONSIGLIO COMUNALE DEVE ACCETTARE L'USO DEL PIEMONTESE

 

Non è provocazione e tanto meno scelta politica. La richiesta di ufficializzare in qualche modo anche a Savigliano, al massimo livello dell'organismo governativo locale, l'uso del piemontese, nasce dall'esclusiva volontà culturale di consolidare e codificare -se è ancora possibile- ciò che la nostra regione, la nostra provincia, la nostra città ed il loro linguaggio rappresentano nello sviluppo dell'area geografica, dello spirito umano, dell'intraprendenza sociale, dell'innovazione imprenditoriale, della formazione artistica e, perché no, dei rapporti politici, ponendosi l'obiettivo di rafforzare quel legame che esiste tra presente e passato e che ci vincola intimamente ad una storia che, attraverso le vicende dei nostri luoghi, trasuda «piemontese» da ogni poro.

Per noi la lingua piemontese rappresenta un modo di vivere, rappresenta il linguaggio di chi ha lasciato le nostre terre per raggiungere gli Stati Uniti, l'Argentina, il Venezuela, la Francia ed anche l'Australia, e nel piemontese, oltre alla memoria del vissuto dei propri avi, ha riposto ogni speranza di futuro, vincolando il linguaggio al pensiero di un ritorno in patria o al desiderio, innato in quelle comunità che sanno riconoscere la loro forza, di imprimere altrove un'accelerazione che nasce dalla tradizione della cultura subalpina e che sa svilupparsi con determinazione e forte convinzione, partendo proprio da questi presupposti. Il piemontese è, e rimane, il filo conduttore, sottile ma tangibile, che ci racconta delle nostre origini, che giustifica i nostri comportamenti, che sottolinea il nostro essere, plasmandolo nella quotidianità e relazionandolo, in qualche modo, ad ogni comportamento della nostra vita e della nostra giornata. Ci distingue e ci fa distinguere.

Così come ogni cittadino del mondo non può fare a meno, a qualunque latitudine trovi residenza, di cercar di mantenere integro il linguaggio della propria gente, così anche chi vive ed ha vissuto il territorio subalpino non può fare a meno di considerare il suo linguaggio d'origine come un grande elemento trasversale che tiene legati, intimamente, tradizioni e cultura, comportamenti e passioni, scelte e rassegnazioni, che sa ridere e piangere, che sa caratterizzare un popolo per un'anima che è soltanto sua e non può in alcun modo confondersi o sovrapporsi a quella altrui.

La richiesta di considerare ufficiale l'uso del piemontese nasce da queste necessità: ricordare per non dimenticare, riconoscere per modellare e sviluppare un futuro. È una richiesta che, anziché giungere dalla minoranza e da chi, come me, ha origini familiari non proprio subalpine, avrebbe dovuto essere formulata dalla stessa Giunta comunale, nel rispetto delle minoranze e culturalmente sensibile alle istanze della maggioranza della popolazione.

Anche Giovanni Agnelli, l'imprenditore considerato il meno «provinciale» d'Italia, che della globalizzazione, per mestiere e necessità, ha fatto una ragione di vita, confessa che nel piemontese -linguaggio e cittadino- esiste lo stimolo per quella crescita collettiva che non può non passare attraverso le realtà locali. Individua nell'uomo «il desiderio di riconoscersi anche in una comunità più piccola, più delimitata, più omogenea. I localismi non hanno niente in comune con il nazionalismo. Semplicemente, esprimono un legame con le proprie radici, il senso di appartenenza a un territorio, alle sue tradizioni, ai suoi valori. Ogni comunità ha le sue legittime ragioni d'orgoglio. Stanno soprattutto nel patrimonio di idee e di opere che lascia in eredità ai propri figli e a quelli altrui» (Giovanni Agnelli, «Un orizzonte largo», in «Specchio», 10 febbraio 2001, n. 261).

Noi, oggi, dobbiamo essere in grado di restituire ai nostri figli quell'identità che negli ultimi decenni abbiamo via via perso per strada. Il fenomeno dell'appiattimento culturale, che per anni ha condizionato l'Italia imponendo alle regioni, alle province, alle città, ed alla maggior parte delle loro attività, di ruotare come satelliti intorno all'epicentro nazionale, ha limitato, minimizzandolo, in modo fortissimo, il ruolo della lingua locale, relegandolo, da pilastro culturale qual era, ad inutile soprammobile da usarsi, se necessario, e da buttarsi, se inutile.

Eppure già nel Settecento i nostri studiosi si preoccupavano di codificare, prima ancora che l'Italia fosse una, la lingua piemontese, producendo vocabolari e descrivendone le regole in «grammatiche» stampate, del tutto simili a quei manuali scolastici che oggi riguardano la lingua italiana. Addirittura il Consiglio d'Europa, con il rapporto 4745, nel 1981 aveva riconosciuto il nostro idioma come fondamentale, inserendolo tra le lingue minoritarie d'Europa. E subito dopo l'Unesco l'aveva censito tra le lingue meritevoli di tutela. Lingue, non dialetti. Esattamente come il franco provenzale, l'occitano o il walser, che la Regione Piemonte, già nel 1990, aveva promosso, insieme allo stesso piemontese, come lingue minoritarie autoctone, da tutelarsi e promuovere. Gli anni sono trascorsi e, come non è giusto ma è naturale fosse, nessun esterno -meno che mai gli organismi statali preposti, che mirano a ben altro- si è preoccupato di tutelare gli interessi del piemontese, ma quel che ancor più è grave, neppure i piemontesi stessi, diventati ormai al centro di un crocevia di idiomi e parlate destinato ad impoverire il ceppo originario del linguaggio subalpino, hanno voluto riconoscere nella lingua dei loro avi lo strumento di comunicazione che ha sollecitato la nascita e lo sviluppo del territorio sul quale vivono.

La diffusione della televisione, pubblica o privata, che ha pesantemente massificato la nazione indottrinando ogni età ed ogni estrazione sociale, ha avuto il suo ruolo determinante nel promuovere una cultura sempre meno riconoscibile e sempre più qualunquista ed approssimativa. Con la morte di Erminio Macario il piemontese è praticamente scomparso dalle reti televisive nazionali, così come con la morte di Gilberto Govi e l'allontanamento tv di Beppe Grillo il ligure, esattamente come il piemontese, è finito nel dimenticatoio delle espressioni linguistiche popolari regionali. Oggi il linguaggio imperante sul piccolo schermo è il romanesco, il napoletano, forse il pugliese, dialetti esuberanti assunti forse a nuovi idiomi di un'Italia che cambia e che deve a tutti i costi riconoscersi -anche quando ciò non avviene- con le esclusive parlate di alcune aree nazionali. Addio identità, per tutte le altre.

All'estero, sovente, gli interlocutori di nazioni ospitanti si interrogano sulla provenienza di noi piemontesi. Non ci considerano quasi italiani, perché così diversi nella cadenza, nel comportamento, e sovente anche nell'educazione, di quegli altri nostri connazionali il cui modo di fare individua ormai universalmente lo stereotipo dell'italiano medio. La televisione ha prodotto una standardizzazione che ha in qualche modo creato -o meglio, trasformato- l'immagine dell'italiano. O si è così, o, quasi quasi, ci si deve vergognare. E, in effetti, è quel che capita. Molte delle cadenze dialettali italiane sono non solo concesse, ma addirittura stimolate ed incentivate, così come le espressioni loro intimamente legate. La cadenza piemontese, sovente, è fatta oggetto di scherno, di derisione e, pertanto, diviene sottoposto a sorrisini compassionevoli chi malauguratamente la possiede. A tal punto che i nostri figli, i loro amici e tantissimi loro coetanei, hanno assunto ormai nel gergo virtuale del loro quotidiano -appreso dalla televisione, ma anche da certa stampa- quella terminologia più spocchiosa che scimmiotta con pessima cadenza o con tono sopra le righe il romanesco, il napoletano o quei dialetti piaciosi, accettati come universalmente rappresentativi della nostra Italia e spaparacchiati a destra e manca in canzonette, canzonacce o nenie che risuonano come tiritere, certe volte anche un po' umilianti. Pensate soltanto se qualcuno, anziché intonare «O sole mio», attaccasse con impeto «Maria Giuana». Cosa ne verrebbe fuori? Chi riderebbe di più?

A difendere il «ne» piemontese, dal piccolo schermo, sono rimasti ormai soltanto in pochi. Luciana Littizzetto, forse, che dal domenicale «Quelli del calcio», con i suoi personaggi Bianca Eberni o Babooshka, si diverte a prendere in giro se stessa, i suoi conterranei e, forse, furba com'è, gli spettatori che pensano di ironizzare su quell'eccesso di cadenza che sforna ad ogni pie' sospinto e che invece diventa oggetto della sua forza di trascinante ironia. Oppure il nostro Osvaldo Fresia, che nel ruolo di valletto del «Kilimangiaro» ci tiene a far sapere a tutti che lui «è di Cuneo», e lo dice con quella timidezza e quell'intonazione -ahimè, tutta subalpina- che fa tenerezza e stimola fantasia. Ma è un po' poco.

In Piemonte, ormai, molti Comuni hanno capito che l'inserire ufficialmente nel loro linguaggio consiliare l'uso del piemontese rappresenta riconoscere uno stato di fatto che appartiene da sempre alle nostre realtà. Nei consigli comunali è sempre avvenuto, come avviene ancora in un'infinità di modeste località provinciali -anche se poi i verbali «parlano» solo italiano-, che i rappresentanti del popolo si esprimano nel liguaggio dei loro nonni, quel linguaggo che ha fatto l'Italia, che aiuta a capirsi senza tante storie, che sostituisce l'italiano, l'italiacano e che continua ad essere il collante per una sana amministrazione delle comunità più modeste.

Una specie di lingua «franca», che dimostra, nonostante tutti gli ossessivi tentativi fatti per sopprimerla, di rimanere viva e vivace nei rapporti ufficiosi tra la gente. Anche la scolarizzazione di massa, responsabile di un generalizzato appiattimento, è riuscita solo in parte a scalfirla. Lo fa osservare Dante Isella, in un suo saggio sulle lingue regionali, precisando inoltre che «la politica antidialettale del fascismo e il valore di promozione sociale assegnato al possesso della lingua hanno contribuito molto a ridurre l'uso del dialetto, specie nel ceto piccolo borghese» sottolineando poi che «il processo evolutivo ha finito per coinvolgere lo stesso ceto popolare, dialettofono ma sempre meno» (Dante Isella, «Dialetto. Le parole che scaldano le cose», in «Corriere della Sera», 28 ottobre 2000).

Non vorremmo che anche da noi, con il tempo, dovesse succedere ciò che in passato ha portato alla quasi cancellazione di intere etnie del mondo, annullate per imperativi ordini imposti dall'alto o per troppo facili tentativi, da parte degli autoctoni, di seguire pedestremente le mode del giorno o gli anonimi e frustranti esperimenti di globalizzazione compiuti con metodi subdoli e furtivi.

La richiesta che si fa al Consiglio comunale di Savigliano, di concedere l'opportunità a chi lo desideri -sicuramente remota- di esprimersi con la parlata nostra e dei nostri avi, rappresenta un segnale. Un segnale culturale forte, che il Consiglio deve saper dare, per dimostrare come l'identità di noi piemontesi ed il nostro linguaggio non rappresentano un momento ormai trascorso di una storia millenaria, da codificare e relegare nei meandri del dimenticatoio, ma posseggono, invece, un passato, un presente, con la possibilità di un futuro al quale noi siamo in grado di fornire un contributo determinante. Un riconoscere noi stessi e considerare la nostra origine come elemento di una cultura pari alle altre, allo stesso modo fortemente caratterizzante.

Che deve essere, per chi appartiene ad etnia diversa ed è da noi ospitato, un ulteriore stimolo per la conoscenza di una realtà territoriale che ha qualcosa da dire, che ha qualcosa da insegnare, che ha qualcosa da far ricordare e che è in grado di divenire patria degna di questi nuovi cittadini. Che dichiara tutta la sua forza, le sue radici. Così come dovrebbe essere per ogni altro popolo del mondo.

La proposta non è xenofoba, non è razzista, non è nazionalista e tanto meno sciovinista o integralista. È una proposta che deve essere un segnale, per tutti coloro che, nessuno escluso, abitano la nostra città. Non è retroguardia. Anzi. Ce lo ricorda Luigi Bàccolo, che quarant'anni fa, nel difendere la nostra lingua, con una lettura squisitamente politica, confronta storia e costume: «la prima battaglia contro i dialetti -scrive- credo sia stata condotta dal fascismo, e se ne capisce bene il perché: nazionalista, gonfiato malamente dall'idea di Roma, di una Roma conosciuta di terza mano, il fascismo credeva che l'uso del piemontese fosse un'offesa all'unità del nostro popolo e alla lingua madre» (Luigi Bàccolo, «Difesa di un dialetto», in «Gazzetta del Popolo», 22 gennaio 1965).

Noi, oggi, possiamo dimostrare il contrario. Facendo sapere a tutti che, grazie alla saggezza popolare piemontese, «Quand che el bòrgn a pòrta la bandiera, guai a chi ch'a-j va darera».

luigi botta

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