LUIGI BOTTA PER SAVIGLIANO

AMMINISTRAZIONE

OSSERVAZIONI AL BILANCIO 2002

A tutti piacerebbe aver la botte piena e la moglie ubriaca, per attingere dalla prima alla bisogna e dimostrare alla seconda che le consistenze rimangono invariate. Ma, ahimè, quando la botte si svuota perché il consumo eccede e la moglie si risveglia dal torpore e capisce che è finita la festa, allora sono guai per tutti. Nel nostro bilancio mi pare di individuare più o meno questa situazione. Dopo gli anni della grande festa, dell'abbuffata collettiva, dei denari più o meno facili ereditati od acquisiti, delle spese gestite con quella disinvoltura -non da spendaccioni, ma da danarosi- che può permettersi chi dispone, stanno arrivando gli anni delle vacche magre.

Siccome la coperta è corta e le necessità impongono che siano tanti, troppi, gli argomenti che devono essere sottoposti ad essa, allora qua e là cominciano a farsi sentire le prime sofferenze da spifferi. Ancora, oggi, sopportabili, ma sempre più evidenti e sempre più destinate a patire le necessità delle contingenze future. Qualche raffreddore di passaggio, un mal di testa che peggiora, i primi sintomi di un'influenza che potrebbe, senza vaccino, trasformarsi in qualcosa di pericoloso. Come per i quattrini. La coperta, dunque, comincia ad essere insufficiente, o stretta, o si ritira. Chi tira di qua, chi di là. E i denari, insomma, come la coperta che si stringe, non sono più tantissimi. Forse non lo sono mai stati. La loro equa distribuzione, per il presente ed il futuro, impone quindi raziocinio e lungimiranza, ma purtroppo le colpe dei padri ricadono sui figli e la gestione disinvolta degli anni trascorsi -non da spendaccioni, ma da danarosi- impone nuove e diversificate visioni e, soprattutto, prospettive non proprio rosee e raffinate.

Ma è così catastrofico, dunque, il bilancio saviglianese? Per chi, come me e tanti altri tra i presenti, i numeri rappresentano elementi di un mondo abbastanza sconosciuto, la lettura di cento, centocinquanta, duecento pagine fitte fitte di segnali numerici, rapportate ad altrettante dell'anno precedente, a quelle dell'anno prima ancora, alle variazioni che a spizzichi e bocconi ti vengono propinate nel corso dell'anno, per più anni, ai tentativi di spiegarti gli impegni pluriennali che si sommano nel biennio, nel triennio e così via, che vengono inseriti, eliminati, reinseriti, ridotti ed aumentati, ai dati scorporati ed alle percentuali od agli indicatori che si alternano per sovrapporsi, con chiavi di lettura verticali, orizzontali, trasversali, ecc., un bilancio comunale non è certo cosa di poco conto. Soprattutto se poi il gioco sottile dei numeri diventa perverso perché mai nulla risulta essere certo e, tra cifre in aumento ed in diminuzione, totali parziali e resoconti per settore, frammentazioni e concentrazioni, i numeri possono darti alla testa e giocarti anche brutti scherzi. Puoi metterci tutto l'impegno che ti pare, ma alla fine, a parte il fatto che due più due fa quattro -ma non sempre-, tanto a te quanto agli altri, anche se più esperti e masentati, qualcosa finisce per rimanerti oscuro. Sfido chiunque, qui dentro, e scommetto con chi vuole, tra i colleghi Consiglieri -ma anche Assessori-, a spiegare e raccontare nel dettaglio, con raziocinio, la ridda di numeri che appare nel documento programmatico per eccellenza. Forse due, forse tre persone, forse quattro, sapranno districarsi con la necessaria e ragionata disinvoltura.

Nessuno, purché sappia leggere, ha però difficoltà a comprendere che, tra somme e sottrazioni, la musica, o come direbbe altro rafforzandone il concetto, la solfa non cambia. I soldi cominciano a mancare. Che si chiamino lire e si scrivano con tanti zeri, come ancor oggi noi italiani continuiamo ad immaginare e noi saviglianesi, in questa sede, andiamo ad esaminare, o che vengano ristretti e poi moltiplicati con il resto di decimi e centesimi, per chiamarsi euro ed obbligarci ad un confronto multietnico ed extranazionale che non siamo assolutamente certi di poter reggere, non ha importanza alcuna.

Lasciando a parte l'ubriacatura per le grandi cifre -quella della moglie «ciucca» e della botte piena-, quella che avremmo volentieri immaginato, le entrate cominciano a far difetto. Non stiamo ancor raschiando il fondo, ma ci siamo ben vicini. Se tanto mi dà tanto e i finanziamenti dello Stato destinati all'Università transitano su altri conti, gli stanziamenti per la Crosà Neira e parte del palazzo Muratori Cravetta appartengono al passato, gli avanzi di Bilancio sono ridotti al lumicino, gli incassi per le opere di urbanizzazione appaiono anche in uscita, le alienazioni -ahimè, finiranno anche quelle!- sono poca cosa, i finanziamenti da terzi arriveranno in un secondo tempo, le entrate previste si riducono a due voci, due voci e mezzo, non certo tre. Quelle tributarie ed i trasferimenti extratributari, che, bontà loro, tanto in lire quanto in euro, raggiungono, e forse superano, la metà della «liquidità» in ingresso. E quelle conseguenti all'accensione di mutui, previste però in aumento di un buon quaranta per cento, che rappresentano ormai una grossa fetta di quel giro perverso di quattrini che si hanno dallo Stato e che qualcuno, cogli anni, deve poi anche restituire andando a recuperare dalle pieghe di Bilanci sempre più miseri e ristretti.

Per chi, come me, non sa leggere, non sa scrivere, non sa far di conto, ma indefessamente insiste nel voler immaginare il suo futuro, viene immediato pensare che la situazione non sia troppo rosea. E, giuro, non è da malpensante. L'effetto forbice, quello che citano gli economisti quando vogliono dribblare chi li ascolta, qui si esplica con due concetti chiave elementarmente descrivibili: il futuro impone ulteriori riduzioni tributarie (sono le Leggi dello Stato che ce lo raccontano giorno dopo giorno) e, se si vuol tirare a campare, lo stesso futuro obbliga l'Amministrazione a nuovi incrementi nell'apertura di mutui.

E allora, forse già nel 2003, o con estrema resistenza nel 2004, il motto imperante potrà essere «Volei e nen podei» (volere e non potere). Il sogno, o comunque l'immaginazione, potrà prendere il sopravvento e sostituire, di fatto, la concretezza delle realizzazioni.

Anche perché, se le entrate vanno in diminuzione, nelle uscite -ahimè, ci sono anche quelle-, quando viene meno la disinvoltura -non da spendaccioni, ma da danarosi-, bisogna fare i conti con quel che si è seminato, per raccogliere i frutti di lavori scrupolosi e parsimoniosi. E non sempre le annate portano bene, non sempre tutto fila liscio, non sempre i risultati sono quelli che ci si auspicherebbe. Prendete ad esempio, così per caso, quello strano fenomeno che è rappresentato dalle spese per il personale. Più o meno, dette in euro, tre milioni e sei, ed in lire sette miliardi ed oltre, quasi quasi un terzo di tutto quel che ci gira per le mani. Vale a dire in incremento esponenziale, forse ricomposto e riformato tra part time e malattie, sostituzioni e aspettative, socialmente utili e maternità, mal interpretato e interpretabile per quel perverso meccanismo che scorpora il lavoratore dal lavoro e, sulle somme, gioca individuando di volta in volta questo o quel risultato, a seconda delle necessità. Ebbene, negli ultimi tre anni, tra scale mobili ormai pensionate ed inflazione rigidamente sotto controllo, c'è qualcuno che ha inforcato il «tapis rouleant» e, in accelerazione esponenziale, ha portato a casa un discreto incremento del, udite, udite, centootto per cento. Leggere, per credere; confrontare i Bilanci, per verificare!

E con questi chiari di luna, cosa ci resta per i finanziamenti seri, quelli che ci faranno ricordare nel futuro? A parte la manutenzione dell'esistente, il 2002 sarà ricordato per la rotonda della piscina, per la progettazione delle Scuole elementari, per il porfido di qualche strada del centro messo lì con una parte dei contributi regionali del Piano del commercio. E nient'altro. A dirlo non sono io, che poco intendo di queste cose, ma è il documento stesso che ce lo racconta. E, con la «propensione all'investimento», un calcolo ad hoc che indica la disponibilità aziendale, pardon, comunale, a produrre beni stabili, ci fa sapere che solo tre anni fa l'investimento saviglianese era al quaranta per cento, ci illumina sul fatto che poi sia sceso al venticinque e che per l'anno a venire, euro permettendo, crollerà addirittura al sedici. Più in giù di così non credo proprio si possa andare.

Mi sia concesso, tanto per non parlarci addosso o far scambiare l'intervento per farneticazione improvvisata, di far qualche conto in tasca a Giovanin o Marieta, nostri concittadini non più giovani, l'uno di Levaldigi e l'altra «'dl borg dle foncette» (del borgo delle accette), o a Jennifer e Said, altri nostri concittadini appena venuti al mondo. Tanto i primi quanto i secondi, ad oggi, volendo contribuire attivamente a saldare il debito comunale, dovrebbero metter mano al portafoglio, loro o dei genitori, e «scucire», tradotto in lite repubblicane, più o meno seicentomila a testa. Tra un paio d'anni il debito pro capite, perché di debito si tratta, potrebbe attestarsi intorno alle settecentomila, ed oltre. Ieri era molto meno. Ma l'anno scorso, e il precedente, eran sufficienti più o meno quattro bigliettoni da centomila pro capite. E ringraziamo che la città è cresciuta -perché si è potuto dividere tra molti-, altrimenti il debito di Giovanin e Marieta sarebbe stato decisamente superiore.

Ma cosa investono, per il loro futuro, Jennifer e Said? Presto detto. Il mondo dalla loro sarà in euro e, allora, ecco spiattellate le quote nella futura valuta comunitaria. Per l'anno 2002, anche se non potranno capirne più di tanto, l'Amministrazione investirà 103 euro a testa. Per i loro genitori, se cittadini saviglianesi, questo Consiglio aveva investito -ritorna la valuta vecchia- seicentocinquantamila lire. E nel 1998, la Giunta precedente, disinvolta -non da spendacciona, ma da danarosa- aveva assegnato ad ogni cittadino, per investimenti comunali, la somma di circa settecentocinquantamila lire. Che tracollo! In cinque anni, questi sono i dati, abbiamo perso più o meno il settanta per cento. Ci sono rimaste settecentomila lire di debito, delle quali solo duecentomila trovano investimento in qualcosa di concreto e tangibile.

Mi viene a questo punto da immaginare che, semmai una famiglia avesse adottato simili metodi di bilancio, sarebbe probabilmente sul lastrico. Semmai un'azienda avesse impostato la propria attività in questo modo, sarebbe ormai fallita.

La fase è chiaramente involutiva, e non sono certamente io a sentenziarlo. Diminuendo le entrate tributarie si dovrà ricorrere a nuovi mutui. Che imporranno spese insostenibili nella rateizzazione prossima ventura, negando a chiunque siederà in futuro su questi banchi di soltanto immaginare di poter compiere investimenti in conto capitale, in cose durature. L'equazione sembra essere completa: calano le entrate, crescono le spese di personale ed aumentano in modo esponenziale gli impegni per la restituzione dei mutui. Come si dice in tutte le famiglie, gli interessi mangeranno il capitale. A tal punto che non solo non si riuscirà a produrre o proporre qualcosa di nuovo, ma diventerà sostanzialmente difficile compiere la manutenzione sul vecchio. Cioè: la struttura consumerà ogni cosa per la propria sopravvivenza senza restituire al cittadino nulla di concreto, al di fuori del servizio.

Tranne che si torni a pensare seriamente ad un aumento delle tasse. Ma, forse, quasi certamente, spetterà alla prossima Amministrazione.

E non credano, i colleghi, che l'uso del «colore» -qui utilizzato con disinvoltura- neghi l'evidenza del bianco e nero o, meglio, del grigio nero o del «rosso debitorio». I problemi, se ci sono, rimangono. Per chi non sa leggere, non sa scrivere e non sa fare di conto. Ma anche per tutti gli altri. Non si cancellano certo con un sorriso.

luigi botta

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