Derek Walcott

 

vivo sull'acqua

solo

senza moglie né figli

ho circumnavigato ogni possibilità

per arrivare a questo:

una piccola casa su acqua grigia

con le finestre sempre spalancate

certe cose non le scegliamo noi

ma siamo quello che abbiamo fatto

soffriamo

gli anni passano

lasciamo tante cose per via

l'amore è una pietra

che si è posata sul fondo del mare

sotto acqua grigia

ora non chiedo nulla

se non vero sentire

non pietà

non fama

non sollievo

e in una vita che trabocca di mediocrità e rifiuti

vivere come rocce

scorderò il mio dono

più grande questo

di ciò che passa per vita.

 

****

 

Un villaggio scrostato dal vento

melmoso il mare come sciacquatura di piatti

e poi un villaggio scrostato dalla tempesta

con staccionate di latta crocifissa

lascialo a una capra nella pioggia

la cui museruola proibisce il pranzo

a quelle poiane saltellanti

che strascicano ombrelli rotti nel piovasco d’argento

(la pioggerella che riduce tutto a fanghiglia,

i loro becchi come domande che pescano

pescano sempre nello stesso mucchio di letame)

sull’orizzonte

l’argentea lingua del mare risplende come in un’altra era

e

malata di povertà

la mia mente è fuggita là fuori

una tempesta ha schiantato l’isola

la pioggia è tutto un subbuglio

un uomo curvo

quasi carponi

l’attraversa

schiaffeggiato dal vento

da quella breccia d’azzurro

con serafica elevatezza d’animo

gridano le fregate

che il brutto tempo eleva lo spirito

e il fradicio straccio rotto della terra

una volta asciugato

sventolerà come la bandiera di un bagnino

in cima a una canna di bambù

e le punte dei rami sono sparse qua e là come penne

il sole uscirà

scalderà la mia mano destra

come quel vecchio granchio

che flette le dita fuori dal suo buco

e anche se maledico tutti i buoni presagi che si ripetono

fermenta

nelle pozze umide

il coraggioso incolore bestiario della sabbia

la capra strofina il muso a testa china

tra le lattine luccicanti e la marea di luce

balbetta contro un banco di sabbia nell’estuario

dove

rendendo al meglio la sua pompa egiziana

l’airone arresta il brusco grido esaltato

poi è un lento fregio di pellicani al sole

 

****
 
larghe spiagge lastricate dal sole
colore bianco
una fiumana verde
un ponte
gialle palme bruciacchiate
giù dalla casa in letargo estivo
appisolata per tutto agosto
giorni che ho stretto
giorni che ho perduto
giorni che sono grandi ormai
come figlie
per rifugiarsi nel porto delle mie braccia
 
****

Tempo verrà in cui, con esultanza saluterai te stesso,

arrivato alla tua porta, nel tuo specchio

e ognuno sorriderà al benvenuto

dell’altro e dirà:

siedi qui, mangia

amerai di nuovo lo straniero

che era il tuo io offri vino,

offri pane

rendi il cuore a te stesso

allo straniero che ti ha amato per tutta la tua vita

che hai ignorato per un altro

e chi ti sa già a memoria.

Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore

le fotografie,

le note disperate

sbuccia via dallo specchio la tua immagine,

siediti è festa:

la tua vita è in tavola

 

****

Un lontano grido dall'Africa
Un vento scompiglia la fulva pelliccia
Dell'Africa. Kikuyu, veloci come mosche,
Si saziano ai fiumi di sangue del veld.
Cadaveri giacciono sparsi in un paradiso.
Solo il verme, colonnello del carcame, grida:
"Non sprecate compassione su questi morti separati!".
Le statistiche giustificano e gli studiosi colgono
I fondamenti della politica coloniale.
Che senso ha questo per il bimbo bianco squartato nel suo letto?
Per selvaggi sacrificabili come Ebrei?
Trebbiati da battitori, i lunghi giunchi erompono
In una bianca polvere di ibis le cui grida
Hanno vorticato fin all'alba della civiltà
Dal fiume riarso o dalla pianura brulicante di animali.
La violenza della bestia sulla bestia è intesa
Come legge naturale, ma l'uomo eretto
Cerca la propria divinità infliggendo dolore.
Deliranti come queste bestie turbate, le sue guerre
Danzano al suono della tesa carcassa di un tamburo,
Mentre egli chiama coraggio persino quel nativo terrore
Della bianca pace contratta dai morti.
Di nuovo la brutale necessità si terge le mani
Sul tovagliolo di una causa sporca, di nuovo
Uno spreco della nostra compassione, come per la Spagna,
Il gorilla lotta con il superuomo.
Io, che sono avvelenato dal sangue di entrambi,
Dove mi volgerà, diviso fin dentro le vene?
Io che ho maledetto
L'ufficiale ubriaco del governo britannico come sceglierà
Tra quest'Africa e la lingua inglese che amo?
Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno?
Come guardare un simile massacro e rimanere freddo?
Come voltare le spalle all'Africa e vivere?

 

****

 

Le inascoltate, onnivore

fauci di questa foresta pluviale

non solo divorano tutto

ma non ammettono nulla di vano;

non si placano mai,

macinando il loro ripudio

della sofferenza umana.

Molto, molto prima di noi

quelle torride fauci, come un forno

fumigante, erano aperte

al genocidio; divorarono

due piccole razze gialle

e metà di una nera;

nella Parola fatta carne di Dio

tutti entrarono in quell'immane stomaco che non

fa distinzioni;

la foresta non si è convertita

perché quel rumore di conchiglia

che romba come il silenzio, o come

i cori dell'oceano, vestiti di cotta,

che accendono alla sua navata, a un incensiere

che diffonde nebbia, non è

un fruscio di preghiera

ma nulla: aria mulinante,

una fede, infestata, cannibale,

che mangia gli dei, che divorò

il Caribe ostile a ogni Dio, un petalo

d'oro dopo l'altro, poi ha dimenticato,

e l'Aruaco

che del suo fossile non lascia

la traccia più lieve, una felce, da coltivare

nella roccia nera,

ma soli i gridi rugginosi

di un cuculo, simile a un rauco

guerriero che aduna la sua razza

dall'aria vaporante

tra questa dorsale di monti

e il vago mare

in cui l'esodo perso

delle canoe affondò senza traccia -

c'è troppo nulla qui.

 

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