Camillo Sbarbaro
Adesso che placata è la lussuria sono rimasto con i sensi vuoti, neppur desideroso di morire. Ignoro se ci sia nel mondo ancora chi pensi a me e se mio padre viva. Evito di pensarci solamente. Ché ogni pensiero di dolore adesso mi sembrerebbe suscitato ad arte. Sento d'esser passato oltre quel limite nel qual si è tanto umani per soffrire, e che quel bene non m'è più dovuto, perché soffrire della colpa è un bene. Mi lascio accarezzare dalla brezza, illuminare dai fanali, spingere dalla gente che passa, incurioso come nave senz'ancora né vela che abbandona la sua carcassa all'onda. Ed aspetto così, senza pensiero e senza desiderio, che di nuovo per la vicenda eterna delle cose la volontà di vivere ritorni.
*** A guardarti m’indugio intenerito, d’oltre il muretto basso che ti cinta, piccolo cimitero di campagna. Aperto al celo, alla mercé del vento della pioggia, vegliato dalle stelle, tu ancora partecipi alla vita. Soave come l’improvviso sonno che chiude gli occhi al piccolo che piange, l’erba qui addormenta le speranze delle fanciulle, l’ansia delle madri e tutto il nostro affaccendarci invano... Qui la vita e la morte si dan mano come sorelle... Tutto ciò che è, è un poco ciò che fu, un poco ciò che sarà... Qui è facile pensare che quella farfalletta che là alia, chiusa la sua vicenda, rivivrà nel geranio fiammante del balcone o nei capelli d’una donna amata... Piccolo cimitero di campagna, in questo poco sole di settembre è così dolce quel che insegni al cuore ch’egli di gratitudine si gonfia. E, uscendo da me stesso, mi vedo, in altre forme in sempre nuove forme essere eternamente come i cieli.
*** A volte mentre vado solo al sole e gli aspetti del mondo accolgo e il cuore quasi m'opprime l'amorosa ressa, ombra il sole ecco farsi e l'ombra, gelo. Un cieco mi par d'essere che va lungo la sponda d'un immenso fiume. Scorrono sotto l'acque maestose; ma non le vede lui: il poco sole lui si prende beato. E se gli giunge a tratti mormorar d'acque, lo crede ronzìo d'orecchi illusi. Perchè a me par vivendo questa mia povera vita, un'altra rasentarne come nel sonno; e che quel sonno sia la mia vita presente. Un vago smarrimento allor mi coglie, uno sgomento pueril. Mi siedo dove sono, sul ciglio della strada, miro il misero mio angusto mondo e carezzo con man che trema l'erba.
*** A volte quando guardo la mia vita e, tizzo che di cenere si copre, ciò che feci ai miei occhi si scolora, con un brivido freddo mi percorre l’improvvisa paura di morire. Se domani morissi, se sapessi di morire, la casa lascerei ed uscirei a zonzo per le vie per rimanere solo con me stesso con sopra il capo il cielo vasto e vuoto sotto i piedi la terra fredda e dura, come solo sarei in faccia al nulla. Tra gli umidi guanciali non mi spenga senza rumore qualche malattia, come debole fiamma poco vento! Pellegrinando andare per quei luoghi dove passai da piccolo col padre; dare il primo bacio e l’ultimo agli amici; toccare l’erba come si tocca un capo di bambino; e saper che quell’è l’ultima volta; prendere congedo dalla dolce terra: dolce così non mi sarà mai parsa... Poi mettere alla vita il mio sigillo.
*** A volte, quando penso alla mia vita la qual ritorna sempre sui suoi passi e come il dì e la notte si ripete nei suoi disgusti e nei suoi desideri, o quando la mia triste sazietà incontra il desiderio che vocifera al canto della strada, e mi si affaccia l’immagine alla mente d’una scala che saliamo e scendiamo senza tregua come ragazzi in qualche gioco; una chiaroveggenza nuova allarga sulla Vita i miei occhi, tal che parmi di vederla com’è la prima volta. Vedo allora che nulla nella vita è buono e nulla è triste, ma che tutto è da accettare nello stesso modo; e penso che convenga rassegnarsi ché tutto eguaglia la necessità. Ma poiché in quel momento è così chiara la mia vista, che di varcare il cerchio nel quale la Necessità ci chiude più non m’illudo, e poiché anche sento che accettar così tutto non potrei, la tenerezza per mia sorella e l’ingordo possesso della femmina, su dal cuore mi sboccia un improvviso sincero desiderio di morire. *** A volte sulla sponda della via preso da un infinito scoramento mi seggo; e dove vado mi domando, perché cammino. E penso la mia morte e mi vedo già steso nella bara troppo stretta fantoccio inanimato... Quant'albe nasceranno ancora al mondo dopo di noi! Di ciò che abbiam sofferto di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore non rimarrà il più piccolo ricordo. Le generazioni passan come onde di fiume... Una mortale pesantezza il cuore m'opprime. Inerte vorrei esser fatto come qualche antichissima rovina e guardare succedersi le ore, e gli uomini mutare i passi, i cieli all'alba colorirsi, scolorirsi a sera. *** Capita all’uomo che d’autunno spoglia la vite, sulla scala che ne fruscia - vecchio è l’uomo ed autunno gli colora l’anima dentro di malinconia; ché con l’anno gli pare la sua vita anche finisca; il poco che da essa ebbe gli mette in strozza come una secchezza e inghiotte – tra i pampini arrossati di scoprire un superstite grappolo. Ne colma la mano, preso d’infantile gioia; soppesa quasi non credesse agli occhi. Alla sua sete riserbò l’annata quel frutto; glielo maturò l’estate, glielo dorò il sole dell’autunno, la pianta vi spremé l’ultimo succo. Cola zucchero l’acino che sguscia in bocca per non perdere una goccia; ogni acino lo riga di delizia silenziosa... Guardan gli occhi felici e rassegnati col grappolo scemare la sua prima, fors’ultima, dolcezza.
*** Donna ferma sul canto della via, che dagli occhi non mostri di vedere, non importuni con la voce, stai nella strada dorata come pietra sorda; fossi la marionetta che s'affloscia al muro, l'occhio vacuo, le braccia penzoloni! e se viva sei, t'impuntassi innanzi a ognuno, muta che indica col dito nero il buco della bocca... Senza paura non ti guardo, tanto mi rassomigli; non viva, non morta; donna ferma sul canto della via.
*** E la vita sapessi a me che fu, Amore, prima che ti conoscessi... Un deserto la terra; a volte, il mondo una sfocata immagine che trema. I volti consueti dai fantasmi visti in sogno, il mio giorno dalla notte poco diverso; sì da dubitare se veglia o sonno fosse la mia vita. Uomo che s'atterrisce della piazza, arretra innanzi a quella vacuità, quante volte dal sonno ripugnai al giorno che le palpebre forzava! Un dì nella città tumultuosa dove fughe di strade a vista d'occhio aprono prospettive d'infinito, disagio da stupore in me nasceva. M'affaticava la città col suo ansito quale andare di fiume che non trovi foce; m'impauriva con la mole quasi colosso che non abbia luce di sguardo... Quando, improvvisamente come oscuro disegno che coi dadi bimbo tenta s'illumina del dado che mancava, si compose il tumulto, si placò l'ansito, fiume che si placa in mare, in due che s'abbracciavano nell'ombra.
*** Era color del mare e dell'estate la strada tra le case e i muri d'orto dove la prima volta ti cercai. All'incredulo sguardo ti staccasti un po' incerta dall'altro marciapiede. Nemmeno mi guardasti. Mi stringesti, con la forza di chi s'attacca, il polso. A fianco procedemmo un tratto zitti. Una macchina adesso mi portava, procella appena dominata, verso il luogo di quel primo appuntamento. Già la svolta il mio cuore riconosce e, raffica, la macchina la imbocca, ed ecco tu ti stacchi un po’ incerta dall’altro marciapiede. (Non era che un crudele immaginare: paralitico tenta con quest’ansia la parte, se già il male la guadagni.) Il tempo di pensarti; ma nell'attimo che dolcissima spina mi trafisse! Acuta come questa non mi desti altra gioia, non mi potevi dare. T'amavo. Amavo. Anche per me nel mondo c'era qualcuno. O strada tra le case, benedetta, dove la prima volta nella vita pietà d'altri che me mi strinse il cuore.
*** Esco dalla lussuria. M'incammino per lastrici sonori nella notte. Non ho rimorso o turbamento. Sono solo tranquillo immensamente. Pure qualche cosa è cambiato in me, qualcosa fuori di me. Ché la città mi pare sia fatta immensamente vasta e vuota, una città di pietra che nessuno abiti, dove la Necessità sola conduca i carri e suoni l'ore. A queste vie simmetriche e deserte a queste case mute sono simile. Partecipo alla loro indifferenza, alla loro immobilità. Mi pare d'esser sordo ed opaco come loro, d'esser fatto di pietra come loro. Ché il mio padre e la mia sorella sono lontani, come morti da tanti anni, come sepolti già nella memoria. Il nome dell'amico è un nome vano. Tra me ed essi s'è interposto il mio peccato come immobile macigno. E se sapessi che il mio padre è morto, al qual pensando mi piangeva il cuore di essere lontano ora che i giorni della vita comune son contati, se mi dicessero che mio padre è morto, sento bene che adesso non potrei piangere. Son come posto fuori della vita, una macchina io stesso che obbedisce, come il carro e la strada necessario. Ma non riesco a dolermene. Cammino per lastrici sonori nella notte. ***
Il mio cuore si gonfia per te, Terra, come la zolla a primavera. lo torno. I miei occhi son nuovi. Tutto quello che vedo è come non veduto mai; e le cose più vili e consuete, tutto m’intenerisce e mi dà gioia. In te mi lavo come dentro un’ acqua dove si scordi tutto di se stesso. La mia miseria lascio dietro a me come la biscia la sua vecchia pelle. Io non sono più io, io sono un altro. Io sono liberato di me stesso. Terra, tu sei per me piena di grazia. Finché vicino a te mi sentirò così bambino, fin che la mia pena in te si scioglierà come la nuvola nel sole, io non maledirò d’esser nato. lo mi sono seduto qui per terra con le due mani aperte sopra l’erba, guardandomi amorosamente intorno. E mentre così guardo, mi si bagna di calde dolci lacrime la faccia.
*** I miei occhi implacabili che sono sempre limpidi pure quando piangono Amicizia non vale ad ingannare. Quando parliamo troppo forte o quando d'improvviso taciamo tutti e due, vedono essi il male che ci rode. Col rumor della voce noi vogliamo creare fra noi quel che non è; quando taciamo non sappiam che dirci ed apre degli abissi quel silenzio. Allacciarci non giova con le braccia se distinti restiamo ai nostri occhi. A ingannarli non vali neppur tu, Dolore. Quando allenti la tua stretta, il mio padre e le mia sorella anch'esse s'allontanano paurosamente. Certe volte vedendo una bestiola che lecca una bestiola e gioca seco, mi morde il cuore una crudele invidia. Con gli occhi vedo che mi sei negata, gioia di voler bene a quelcheduno.
*** Io che come un sonnambulo cammino per le mie trite vie quotidiane, vedendoti dinanzi a me trasalgo. Tu mi cammini innanzi lenta come una regina. Regolo il mio passo io subito destato dal mio sonno sul tuo ch'è come una sapiente musica. E possibilità d'amore e gloria mi s'affacciano nel cuore e me lo gonfiano. Pei riccioletti folli d'una nuca per l'ala d'un cappello io posso ancora alleggerirmi dalla mia tristezza. Io sono ancora giovane, inesperto col cuore pronto a tutte le follie. Una luce si fa nel dormiveglia. Tutto è sospeso come in un'attesa. Non penso più. Sono contento e muto. Batte il mio cuore al ritmo del mio passo.
*** Io ti vedo con gioia e con paura ogni giorno scemare, mio Dolore. Come l’amante che al risveglio spia il volto dell’amante addormentata e sente il freddo dell’irreparabile ché i due corpi così vicini vede farsi ogni giorno più tra loro estranei, ogni mattino che mi sveglio scopro il tuo volto più pallido, Dolore, finché un mattino al posto tuo m’appaia il volto scialbo della Consuetudine. Tu che illudesti per un po’ la mia aridità ed ai miei chiari occhi, di pianto intorbidandoli, lasciasti vedere meno bene, e mi facesti tutta la vita vivere nell’attimo, adesso che ho imparato a amarti solo, o Dolore tu anche passeggero, irreparabilmente te ne vai. E se mi fosse dato, non avrei forse il coraggio di chiamarti indietro. Ma la mia vera vita con te viene perché quando non soffro neppur vivo.
*** La bambina che va sotto gli alberi non ha che il peso della sua treccia, un fil di canto in gola. Canta sola e salta per la strada; ché non sa che mai bene più grande non avrà di quel po' d'oro vivo per le spalle, di quella gioia in gola. A noi che non abbiamo altra felicità che di parole, e non l'acceso fiocco e non la molta speranza che fa grosso a quella il cuore, se non è troppo chiedere, sia tolta prima la vita di quel solo bene.
*** La trama delle lucciole ricordi sul mar di Nervi, mia dolcezza prima? (trasognato paese dove fui ieri e che già non riconosce il cuore). Forse. Ma il gesto che ti incise dentro io non ricordo; e stillano in me dolce parole che non sai d'aver dette. Estrema delusione degli amanti! invano mescolarono le loro vite s'anche il bene superstite, i ricordi, son mani che non giungono a toccarsi. Ognuno resta con la sua perduta felicità, un po' stupito e solo, pel mondo vuoto di significato. Miele segreto di chi s'alimenta; fin che sino il ricorso ne consuma e tutto è come non fosse stato. Oh come poca cosa quel che fu da quello che non fu divide! Meno che la scia della nave acqua da acqua. Saranno state le lucciole di Nervi, le cicale e la casa sul mare di Loano, e tutta la mia poca gioia – e tu – fin che mi strazi questo ricordare.
*** Magra dagli occhi lustri, dai pomelli accesi, la mia anima torbida che cerca chi le somigli trova te che sull'uscio aspetti gli uomini. Tu sei la mia sorella di quest'ora. Accompagnarti in qualche trattoria di bassoporto e guardarti mangiare avidamente! E coricarmi senza desiderio nel tuo letto! Cadavere vicino ad un cadavere bere dalla tua vista l'amarezza come la spugna secca beve l'acqua! Toccare le tue mani i tuoi capelli che pure a te qualcuno avrà raccolto in un piccolo ciuffo sulla testa! E sentirmi guardato dai tuoi occhi ostili, poveretta, e tormentarti domandandoti il nome di tua madre... Nessuna gioia vale questo amaro: poterti far piangere, potere piangere con te.
*** Marchio d'amore nella carne, varia come il tuo cielo ebbi da te l'anima, Liguria, che hai d'inverno cieli teneri come a primavera. Brilli tra i fili della pioggia il sole, bella che ridi e d'improvviso in lagrime ti sciogli. Da pause di tepido ingannate, s'aprono violette frettolose sulle prode che non profumeranno. Le petraie ventose dei tuoi monti, l'ossame dei tuoi greti; il tuo mare se vi trascina il sole lo strascico che abbaglia o vi saltella una manciata fredda di zecchini le notti che si chiamano le barche; i tuoi docili clivi, tocchi d'ombra dall'oliveto pallido, canizie benedicente a questa atroce terra: aspri o soavi, effimeri od eterni, sei tu, terra, e il tuo mare, i soli volti che s'affacciano al mio cuore deserto.
*** Mi desto dal leggero sonno solo nel cuore della notte. Tace intorno la casa come vuota e laggiù brilla silenzioso coi suoi lumi un porto. Ma sì freddi e remoti son quei lumi e sì grande è il silenzio nella casa che mi levo sui gomiti in ascolto. Improvviso terrore mi sospende il fiato e allarga nella notte gli occhi: separata dal resto della casa separata dal resto della terra è la mia vita ed io son solo al mondo. Poi il ricordo delle vie consuete e dei nomi e dei volti quotidiani riemerge dal sonno, e di me sorridendo mi riadagio. Ma, svanita col sonno la paura, un gelo in fondo all'anima mi resta. Ch'io cammino fra gli uomini guardando attentamente coi miei occhi ognuno, curioso di lor ma come estraneo. Ed alcuno non ho nelle cui mani metter le mani con fiducia piena e col quale di me dimenticarmi. Tal che se l'acque e gli alberi non fossero e tutto il mondo muto delle cose che accompagna il mio viver sulla terra, io penso che morrei di solitudine. Or questo camminare fra gli estranei questo vuoto d'intorno m'impaura e la certezza che sarà per sempre. Ma restan gli occhi crudelmente asciutti.
*** Nel mio povero sangue qualche volta fermentano gli oscuri desideri. Vado per la città solo la notte, e l’odore dei fondaci al ricordo vince l’odor dell’erba sotto il sole. Rasento le miriadi degli esseri sigillati in se stessi come tombe. E batto a porte sconosciute. Salgo scale consunte da generazioni. La femmina che aspetta sulla porta l’ubriaco che rece contro il muro guardo con occhi di fraternità. E certe volte subito trasalgono, nell’andito malcerto in capo a cui occhi di sangue paiono i fanali, le mie nari che fiutano il delitto. Mi cresce dentro l’ansia di morire senza avere il godibile goduto senza avere il soffribile sofferto. La volontà mi prende di gettare come un ingombro inutile il mio nome. Con per compagna la perdizione a cuor leggero andarmene pel mondo.
Non fosse la donna il giorno sarebbe senz’albore; non stella avrebbe e rugiada la notte; non acqua o fil d’erba la terra. Senza cielo sul capo si andrebbe.
*** Non, Vita, perchè tu sei nella notte la rapida fiammata, e non per questi aspetti della terra e il cielo in cui la mia tristezza orribile si placa: ma, Vita, per le tue rose le quali o non sono sbocciate ancora o già disfannosi, pel tuo Desiderio che lascia come al bimbo della favola nella man ratta solo delle mosche, per l'odio che portiamo ognuno al noi del giorno prima, per l'indifferenza di tutto ai nostri sogni più divini, per non potere vivere che l'attimo al modo della pecora che bruca pel mondo questo o quello cespo d'erba e ad esso s'interessa unicamente, pel rimorso che sta in fondo ad ogni vita, d'averla inutilmente spesa, come la feccia in fondo del bicchiere, per la felicità grande di piangere, per la tristezza eterna dell'Amore, per non sapere e l'infinito buio... per tutto questo amaro t'amo, Vita.
*** Occhi nuovi, attoniti - che guardano come una stampa colorata il mondo; occhi colore d’aria, anticipi di cielo sulla terra - il dolore v’è l’ombra d’una rondine, un’acquata di primavera, il pianto - occhi cui non ardiscono guardare altri occhi: occhi soli come orfani a mano per la via; tetri come lo specchio della camera ad ore che patì la ripugnanza d’infiniti volti; occhi che nessun piangere più lava; occhi come pozzanghere, miei occhi.
*** Ora che non mi dici niente, ora che non mi fai godere né soffrire, tu sei la consueta dei miei giorni. Assomigli ad un lago tutto uguale. Assonnato mi muovo sulla riva. Non voglio non desidero, neppure penso. Mi tocco per sentir se sono. E l’essere e il non esser, come l’acqua e il cielo di quel lago si confondono. Diventa il mio dolore quel d’un altro e la vita non è lieta né triste. T’odio, compagna assidua dei miei giorni, che alla vita non mi sottrai, facendomi come il sonno una cosa inanimata, ma me la lasci solo rasentare. Poiché son rassegnato a viver, voglio che ogni ora del dì mi pesi sopra, mi tocchi nella mia carne vitale. Voglio il Dolore che m’abbranchi forte e collochi nel centro della Vita. Ora che non mi dici niente, ora che non mi fai godere né soffrire, io rassegnato aspetto che tu passi.
*** Ora che sei venuta, che con passo di danza sei entrata nella mia vita quasi folata in una stanza chiusa – a festeggiarti, bene tanto atteso, le parole mi mancano e la voce e tacerti vicino già mi basta. Il pigolìo così che assorda il bosco al nascere dell’alba,ammutolisce quando sull’orizzonte balza il sole. Ma te la mia inquietudine cercava quando ragazzo nella notte d’estate mi facevo alla finestra come soffocato: che non sapevo, m’affannava il cuore. E tutte tue sono le parole che, come l’acqua all’orlo che trabocca, alla bocca venivano da sole, l’ore deserte, quando s’avanzavan puerilmente le mie labbra d’uomo da sé, per desiderio di baciare...
*** Ormai somiglio a una vite che vidi un dì con stupore. Cresceva su un muro di casa nascendo da un lastrico. Trapiantata, sarebbe intristita. Così l'anima ha messo radice nella pietra della città e altrove non saprebbe più vivere. E se ancora m'avviene di guardar come a scampo ai monti lontani, in realtà essi non mi parlano più. Mi esalta il fanale atroce a capo del vicolo chiuso. Il cuore resta appeso in ex voto a chiassuoli a crocicchi. Aspetti di cose mi toccano come nessun gesto umano potrebbe. Come la vite mi cibo di aridità. Più della femmina, m'illudono le sete e gli artifizi. Il lampeggiar degli specchi m'appaga. A volte, a disturbare l'inerzia in cui mi compiaccio, affiora, chi sa da che piega di me, un mondo a una sola dimensione e, smarrita per esso, l'infanzia. Al richiamo mi tendo, trepidante mi chino in ascolto... Ah non era che il ricordo d'un'esistenza anteriore! Forse mi vado mineralizzando. Già il mio occhio è di vetro, da tanto non piango; e il cuore, un ciottolo pesante.
*** Padre tu che muori tutti i giorni un poco e ti scema la mente e più non vedi con allargati occhi che i tuoi figli e di te non t'accorgi e non rimpiangi se penso la fortezza con la quale hai vissuto; il disprezzo c'hai portato a tutto ciò che è piccolo e meschino; sotto la rude scorza il tuo candido cuore di fanciullo; il bene c'hai voluto a tua madre, a tua sorella ingrata, a nostra madre morta; tutta la tua vita sacrificata e poi ti guardo come ora sei, io mi torco in silenzio le mani. Contro l'indifferenza della vita vedo inutile anch'essa la virtù e provo forte come non ho mai il senso della nostra solitudine. Io voglio confessarmi a tutti, padre, che ridi se mi vedi e tremi quando d'una qualche premura ti fo segno, di quanto fui codardo verso te. Benché il rimorso mi si alleggerisca, che più giusto sarebbe mi pesasse sul cuore, inconfessato... io giovinetto imberbe ti guardai con ira, padre, per la tua vecchiaia. Stizza contro te vecchio mi prendeva... Padre che ci hai tenuto sui ginocchi nella stanza che s'oscurava, in faccia alla finestra, e contavamo i lumi di cui si punteggiava la collina facendo a gara a chi vedeva primo, perdono non ti chiedo con le lacrime che mi sarebbe troppo dolce piangere ma con quella più amare te lo chiedo che non vogliono uscire dai miei occhi. Una cosa soltanto mi conforta di poterti guardare a ciglio asciutto: il ricordo che piccolo, al pensiero che come gli altri uomini dovevi morire pure tu, il nostro padre, solo e zitto nel mio letto la notte io di sbigottimento lacrimavo. Di quello che i miei occhi ora non piangono quell'infantile pianto mi consola, padre, perché mi par d'aver lasciato tutta la fanciullezza in quelle lacrime. Se potessi promettere qualcosa se potessi fidarmi di me stesso se di me non avessi anzi paura, padre, una cosa ti prometterei: di viver fortemente come te sacrificato agli altri come te e negandomi tutto come te, povero padre, per la fiera gioia di finir tristemente come te.
*** Padre, se anche tu non fossi il mio Padre se anche fossi a me un estraneo, per te stesso egualmente t’amerei. Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno Che la prima viola sull’opposto Muro scopristi dalla tua finestra E ce ne desti la novella allegro. Poi la scala di legno tolta in spalla Di casa uscisti e l’appoggiasti al muro. Noi piccoli stavamo alla finestra. E di quell’altra volta mi ricordo Che la sorella mia piccola ancora Per la casa inseguivi minacciando (la caparbia aveva fatto non so che). Ma raggiuntala che strillava forte Dalla paura ti mancava il cuore: ché avevi visto te inseguir la tua piccola figlia, e tutta spaventata tu vacillante l’attiravi al petto, e con carezze dentro le tue braccia l’avviluppavi come per difenderla da quel cattivo che eri il tu di prima. Padre, se anche tu non fossi il mio Padre, se anche fossi a me un estraneo, fra tutti quanti gli uomini già tanto pel tuo cuore fanciullo t’amerei.
*** Piccolo quando un canto d’ubriachi giugevami all’orecchio nella notte d’impeto su dai libri mi levavo. Dimentico di lor, la chiusa stanza all’aria della notte spalancavo e mi sporgevo fuor della finestra a bere il canto come un vino forte. Con che occhi voltandomi guardavo la chiusa stanza e dopo lei la casa dove già tutti i lumi erano spenti! Più d’una volta sulla fredda ardesia al vento che passava nei capelli alla pioggia che inzuppava il viso io piansi delle lacrime insensate. Adesso quell’inganno anche è caduto. Ora so quanto amara sia la bocca che canta spalancata verso il cielo. Pure se ancora mi desta dal mio sonno quel canto d’ubriachi per la vita ad ascoltar mi levo con sospeso dall’improvvisa commozione il fiato, e vado ancora a mettere la faccia nel vento che i capelli mi scompigli. Rinnovare vorrei l’amara ebrezza e quel sottile brivido pel corpo, e il ben perduto cui non credo più piangere come allora... Ma non m’escono che scarse sciocche lacrime dagli occhi.
*** Quanto ti camminai ragazzo! Ad ogni svolto che mi scopriva nuova terra, in me balzava il cuore di Caboto il dì che dal malcerto legno scorse sul mare pieno di meraviglioso nascere il Capo. Bocconi mi buttai sui tuoi fonti, con l'anima e i ginocchi proni, a bere. Comunicai di te con la farina della spiga che ti inazzura il colli, dimenata e stampata sulla madia, condita dall'olivo lento, fatta sapida dal basilico che cresce nella tegghia e profuma le tue case. Nei porti delle tue città cercai, nei fungai delle tue case, l'amore, nelle fessure dei tuoi vichi. Bevvi alla frasca ove sosta il carrettiere, nella cantina mucida, dal gotto massiccio, nel cristallo tolto dalla credenza, il tuo vin aspro per mangiare di te, bere di te, mescolare alla tua vita la mia caduca.
*** Quando traverso la città la notte io vivo la mia vita più profonda Persiane silenziose illuminate! Finestra buia aperta nella notte! Negli atrii di pietra voce d'acqua! Tra le bestie squartate lumicino alla madonna! Ombre umane informi dietro i vetri nebbiosi dei caffè! Mi trasformo nel cieco del crocicchio che suona ritto gli occhi vaghi al cielo. Voluttà d'esser solo ad ascoltarmi! Udire nella mia notte per ore avvicinarsi e dileguare i passi! Essere la puttana che sussurra la parola al passante che va oltre! la vecchia della porta che s'attacca pel soldo della grappa al militare ch'esce nauseato! E voluttà di scendere più basso! Rasentando le case cautamente io sento dietro le pareti sorde le generazioni respirare. E so l’ostilità di certe vie tozze, la paura di certe piazze vuote... E forse ignaro m’incammino verso - oh mia liberazione! – la Follia.
*** Scarsa lingua di terra che orla il mare, chiude la schiena arida dei monti; scavata da improvvisi fiumi; morsa dal sale come anello d'ancoraggio; percossa dalla fersa; combattuta dai venti che ti recano dal largo l'alghe e le procellarie - ara di pietra sei, tra cielo e mare levata, dove brucia la canicola aromi di selvagge erbe. Liguria, l'immagine di te sempre nel cuore, mia terra, porterò, come chi parte il rozzo scapolare che gli appese lagrimando la madre. Ovunque fui nelle contrade grasse dove l'erba simula il mare; nelle dolci terre dove si sfa di tenerezza il cielo su gli attoniti occhi dei canali e van femmine molli bilanciando secchi d'oro sull'omero - dovunque, mi trapassò di gioia il tuo pensato aspetto. Quanto ti camminai ragazzo! Ad ogni svolto che mi scopriva nuova terra, in me balzava il cuore di Caboto il dì che dal malcerto legno scorse sul mare pieno di meraviglioso nascere il Capo. Bocconi mi buttai sui tuoi fonti, con l'anima e i ginocchi proni, a bere. Comunicai di te con la farina della spiga che ti inazzurra i colli, dimenata e stampata sulla madia, condita dall'olivo lento, fatta sapida dal basilico che cresce nella tegghia e profuma le tue case. Nei porti delle tue città cercai, nei fungai delle tue case, l'amore, nelle fessure dei tuoi vichi. Bevvi alla frasca ove sosta il carrettiere, nella cantina mucida, dal gotto massiccio, nel cristallo tolto dalla credenza, il tuo vin aspro - per mangiare di te, bere di te, mescolare alla tua vita la mia caduca. Marchio d'amore nella carne, varia come il tuo cielo ebbi da te l'anima, Liguria, che hai d'inverno cieli teneri come a primavera. Brilla tra i fili della pioggia il sole, bella che ridi e d'improvviso in lagrime ti sciogli. Da pause di tepido ingannate, s'aprono violette frettolose sulle prode che non profumeranno. Le petraie ventose dei tuoi monti, l'ossame dei tuoi greti; il tuo mare se vi trascina il sole lo strascico che abbaglia o vi saltella una manciata fredda di zecchini le notti che si chiamano le barche; i tuoi docili clivi, tocchi d'ombra dall'oliveto pallido, canizie benedicente a questa atroce terra: - aspri o soavi, effimeri od eterni, sei tu, terra, e il tuo mare, i soli volti che s'affacciano al mio cuore deserto. Io pagano al tuo nume sacrerei, Liguria, se campassi della rete, rosse triglie nell'alga boccheggianti; o la spalliera di limoni al sole, avessi l'orto; il testo di garofani, non altro avessi: i beni che tu doni ti offrirei. L'ultimo remo, vecchio marinaio t'appenderei. Ché non giovano, a dir di te, parole: il grido del gabbiano nella schiuma la collera del mare sugli scogli è il solo canto che s'accorda a te. Fossi al tuo sole zolla che germoglia il filuzzo dell'erba. Fossi pino abbrancato al tuo tufo, cui nel crine passa la mano ruvida aquilone. Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi.
*** Sempre assorto in me stesso e nel mio mondo come in sonno tra gli uomini mi muovo. Di chi m'urta col braccio non m'accorgo, e se ogni cosa guardo acutamente quasi sempre non vedo ciò che guardo. Stizza mi prende contro chi mi toglie a me stesso. Ogni voce m'importuna. Amo solo la voce delle cose. M'irrita tutto ciò che è necessario e consueto, tutto ciò che è vita, com'irrita il fuscello la lumaca e com'essa in me stesso mi ritiro. Ché la vita che basta agli altri uomini non basterebbe a me. E veramente se un altro mondo non avessi, mio, nel quale dalla vita rifugiarmi, se oltre le miserie e le tristezze e le necessità e le consuetudini a me stesso non rimanessi io stesso, oh come non esistere vorrei! Ma un'impressione strana m'accompagna sempre in ogni mio passo e mi conforta: mi pare di passar come per caso da questo mondo...
*** Son di granito o di diamante sono i mille denti logori e ferrigni con che rodi il cemento ed i macigni sgretoli, sfinge spaventosa, o Chrono? L'uomo di ieri miri co' i maligni occhi innalzare a dei di creta un trono: o bestemmiarli e ricader giù prono: e al vano affaticarsi tu sogghigni. Il fior che allegra gli orridi dirupi co 'l fiato anneri, ed, invido, d'immondi solchi il velluto de le guance sciupi. L'uom che ti sminuzza in oggi ed in domani e la clessidra in ore ed in secondi: tu lasci fare e eterno ancor rimani. *** Sonno, dolce fratello della Morte, che dalla Vita per un po' ci affranchi ma ci rilasci tosto in sua balìa come gatto che gioca col gomitolo; di te, finché la mia vita giustifichi la vita della mia sorella e un segno che son vissuto anch'io finché non lasci, io mi contenterò e del tuo inganno. Vieni, consolatore degli afflitti. Abolisci per me lo spazio e il tempo e nel nulla dissolvi questo io. Nessun bambino mai così fidente s'abbandonò sul seno della madre com'io nelle tue mani m'abbandono. Quando si dorme non si sa più nulla.
*** Spotorno, terra senza risorse. Vi alligna fortemente l'ulivo, il sorbo vi si carica di mazzetti duri. Litorale dalla vegetazione bizzarra: si siede e si tace in faccia al mare senza illusioni con qualche volta appena una manciata di zecchini tremolanti freddo e infinito. Passa al largo il guscio rossastro della petroliera. L'estate le bagnanti spumeggianti sfacciate scacciano le indigene, topi terragnoli. Negli orti le casette screpolate rosee stupiscono al passaggio dell'espress che le fa traballare. Sin dietro le case la voce della maretta. Spotorno paesaggio dell'anima monti ridotti allo scheletro aria schietta celestina cielo liquido che a guardarlo si beve...
*** Stracci di nebbia lenti e cenere d'ulivi. Quasi a credere stenti che vivi. E' la pioggia una ninna- nanna di triste fanciulla; al corpo che giace la terra, una culla.
*** Svegliandomi il mattino, a volte provo sì acuta ripugnanza a ritornare in vita, che di cuore farei patto in quell'istante stesso di morire. Il risveglio m'è allora un altro nascere; ché la mente lavata dall'oblio e ritornata vergine nel sonno s'affaccia all'esistenza curiosa. Ma tosto a lei l'esperienza emerge come terra scemando la marea. E così chiara allora le si scopre l'irragionevolezza della vita, che si rifiuta a vivere, vorrebbe ributtarsi nel limbo dal quale esce. Io sono in quel momento come chi si risvegli sull'orlo d'un burrone, e con le mani disperatamente d'arretrare si forzi ma non possa. Come il burrone m'empie di terrore la disperata luce del mattino.
*** Taci anima mia. Son questi i tristi giorni in cui senza volontà si vive, i giorni dell'attesa disperata. Come l'albero ignudo a mezzo inverno che s'attrista nella deserta corte io non credo di mettere più foglie e dubito d'averle messe mai. Andando per la strada così solo tra la gente che m'urta e non mi vede mi pare d'esser da me stesso assente. E m'accalco ad udire dov'è ressa sosto dalle vetrine abbarbagliato e mi volto al frusciare d'ogni gonna. Per la voce d'un cantastorie cieco per l'improvviso lampo d'una nuca mi sgocciolano dagli occhi sciocche lacrime mi s'accendon negli occhi cupidigie. Ché tutta la mia vita è nei miei occhi: ogni cosa che passa la commuove come debole vento un'acqua morta. Io son come uno specchio rassegnato che riflette ogni cosa per la via. In me stesso non guardo perché nulla vi troverei... E, venuta la sera, nel mio letto mi stendo lungo come in una bara.
*** Taci, anima stanca di godere e di soffrire (all'uno e all'altro vai rassegnata). Nessuna voce tua odo se ascolto: non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d'ira o di speranza, e neppure di tedio. Giaci come il corpo, ammutolita, tutta piena d'una rassegnazione disperata. Non ci stupiremmo, non è vero, mia anima, se il cuore si fermasse, sospeso se ci fosse il fiato... Invece camminiamo, camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso. *** Talor, mentre cammino per le strade della città tumultuosa solo, mi dimentico il mio destino d'essere uomo tra gli altri, e, come smemorato, anzi tratto fuor di me stesso, guardo la gente con aperti estranei occhi. M'occupa allora un puerile, un vago senso di sofferenza ed ansietà come per mano che mi opprima il cuore. Fronti calve di vecchi, inconsapevoli occhi di bimbi, facce consuete di nati a faticare e a riprodursi, facce volpine stupide beate, facce ambigue di preti, pitturate facce di meretrici, entro il cervello mi s'imprimono dolorosamente. E conosco l'inganno pel qual vivono, il dolore che mise quella piega sul loro labbro, le speranze sempre deluse, e l'inutilità della loro vita amara e il lor destino ultimo, il buio. Ché ciascuno di loro porta seco la condanna d'esistere: ma vanno dimentichi di ciò e di tutto, ognuno occupato dall'attimo che passa, distratto dal suo vizio prediletto. Provo un disagio simile a chi veda inseguire farfalle lungo l'orlo d'un precipizio, od una compagnia di strani condannati sorridenti. E se poco ciò dura, io veramente in quell'attimo dentro m'impauro a vedere che gli uomini son tanti. *** Talor, mentre cammino solo al sole e guardo coi miei occhi chiari il mondo ove tutto m'appar come fraterno, l'aria la luce il fil d'erba l'insetto, un improvviso gelo al cor mi coglie. Un cieco mi par d'essere, seduto sopra la sponda d'un immenso fiume. Scorrono sotto l'acque vorticose, ma non le vede lui: il poco sole ei si prende beato. E se gli giunge talora mormorio d'acque, lo crede ronzio d'orecchi illusi. Perché a me par, vivendo questa mia povera vita, un'altra rasentarne come nel sonno, e che quel sonno sia la mia vita presente. Come uno smarrimento allor mi coglie, uno sgomento pueril. Mi seggo tutto solo sul ciglio della strada, guardo il misero mio angusto mondo e carezzo con man che trema l'erba.
*** Talora nell'arsura della via un canto di cicale mi sorprende. e subito ecco m'empie la visione di campagne prostrate nella luce... E stupisco che ancora al mondo sian gli alberi e le acque tutte le cose buone della terra che bastavano un giorno a smemorarmi... Con questo stupor sciocco l'ubriaco riceve in viso l'aria della notte. Ma poi che sento l'anima aderire ad ogni pietra della città sorda com'albero con tutte le radici, sorrido a me indicibilmente e come per uno sforzo d'ali i gomiti alzo...
*** Una felicità fatta di nulla mi colma – e non è forse che l’arietta di questa mattinata di settembre... Come convalescente ch’esce al sole la prima volta, tutto quel che vede gli par di non averlo visto mai, ad ogni passo scopre nuovo mondo e di dolcezza quasi piangerebbe – il gallo che sull’aia raspa, il cielo azzurro tra l’argento degli ulivi, la casetta che fuma in mezzo agli orti, trasalendo di giubilo saluto. Così leggera è ora la mia anima, così poco m'appaga stamattina che direi per vivere mi basti vedere a ogni anno i fiori sulla terra rinnovarsi... Una ventata, un luccichio d’ottoni e mi sfreccia davanti il treno lampo. Sollevato da un impeto di gioia io dalla siepe, come già ragazzo, pungendomi e strappandomi mi sporgo e mi sbraccio e il berretto agito in alto. Fugacemente fuor d’un finestrino una piccola mano mi risponde. Avventurata te, o sconosciuta, che fosti salutata al tuo passaggio da cotanto poeta!
*** Vivo in un ex voto a vedere come la marina si comporta ingenuamente davanti a questa levata di sole. Le colline paion pecore dopo la tosatura. Il promontorio in faccia all'isolotto di Bergeggi è appena ricciuto di pinastri. E il mare! Conosco un mare brulicante d'oro dove le vele sono fiamme esili; uno, impalpabile da credere ad un inganno degli occhi; un mare che è tutto uno zaffiro liquefatto, in cui si vorrebbe stemperarsi. Questo, è una grigia lavagna, appena argentata a levante. Più di tutti i mari che so, è questo che amo: esso risveglia in me l'anima avventurosa. Quand'ecco, nell'appropriato scenario, il sole balza, bolla infocata, sciorinandosi ai piedi un tremolante tappeto arancione. *** Vo nella notte solo per vicoli deserti lungo squallide mura. Al discorde rumor dei passi incerti echeggiando le case come vuote, trasalgo di paura. Si sfilacciano contro i cornicioni delle case che occupano l'aria i nuvoloni; e la fiammella gialla del lampione traballa su lastrici che caldo vento bagna; un'imposta si lagna solitaria. In parole consuete in consueti passi, giovinezza, trapassi - che non torni. E se disgusto senti di te stessa, dei giorni inutili, t'illude folle presentimento - ed è quasi certezza - che torni un'altra volta, povera vita stolta, la tua giovinezza. Come gli altri come tutti ch'ebbero dalla vita per la parte di stenti la lor parte di pane, spinti come giumenti dalla fame e la foia dove il buio li ingoia - così e senza pianto ché gli occhi sono asciutti, come gli altri come tutti tu che potevi tanto. Come il vestito vecchio l'anima addosso mi pesa; tutto intorno m'ingombra; ogni cosa mi pare che mi copra il fiato, ogni cosa mi pare mi stia sopra e non mi lasci piangere... Quand'ecco nel silenzio afoso balza da un organo sgorgando facile melodia. E' un motivo di ballo: ogni nota rimbalza perla su cristallo, fragorosa empie la via. Qualche cosa di fresco di nuovo il sangue mi corre... Indicibile, quello che provo. E d'istinto io cerco nel buio l'improvviso organetto ove suoni. Non più ciondoloni rasento il muro: mi scosto, cammino diritto, nel mezzo, con piede sicuro. E quando vicino gli passo, al legno che trema e che canta, mi sento mutato d'un tratto nel sonoro strumento: in corde metalliche tese cambiata ogni fibra, il corpo, percorso da brividi, in fascio di nervi che vibra. E come per l'ultima volta i tiepidi spiriti, i fiacchi propositi chiamo a raccolta. Il petto mi colma insolito orgoglio; intorno mi guardo spavaldo, dico a me stesso: Voglio. O mie montagne o boschi, solitudini a vista d'occhio aperte sulle quali va l'ombra della nuvola e che il vento scorrazza; odore al mattino di guazza, novità della terra sotto lo scroscio improvviso quando tutto è intriso e l'anima è nuova e la foglia; correr d'acque stormir d'alberi fresco, rifiorire del pesco nella campagna spoglia, cieli tersi invernali, soltanto che vi pensi, nella mia triste arsura che frescura versate! Grande e verde che muori e rinasci continua, taciturna che dentro a gran voce mi parli, Natura, ove perde l'uomo se stesso, estraneo a se stesso diventa per gli occhi di guardare mai sazi, spazi stellati, nella sete di forza mi siete alleati. Chiaro lo sguardo s'è fatto nel volto, pronte alla lotta le braccia. Sento l'ebbrezza, quasi vento gelato sulla faccia, della mia buona e vera giovinezza. Quando il valzer precipita ed ecco l'organetto si chiude d'un colpo secco. Subito qualche cosa vien meno, qualche cosa in me frana... E la notte che il suono avea sgombra del buio e fatta giorno, la vacua notte col silenzio e l'ombra mi si richiude intorno. Resto debole e solo. Vela al mancar del vento, la volontà s'affloscia; ogni impeto cade, l'esaltazione, la fierezza, tutto. Mi vedo andare per deserte strade vile miserabile brutto. Sbuca da un nero portico e s'arresta nel mezzo della via, m'interroga con occhi larghi un gatto; miagola a me, poi ratto scivola via. E mi butto da lato e rasento di nuovo le mura, se il piede nel lastrico inciampa o nella pausa del vento un fanale divampa trasalendo di sciocca paura. Volontà, che mi vali per i miei sogni immensi, fondata sulla sabbia instabile dei sensi? Si stacca sul mio capo rombando mezzanotte. A me che vo vagando solo nella mia notte cadono sul cuore come pietre quell'ore. *** Voze, che sciacqui al sole la miseria delle tue poche case, ammonticchiate come pecore contro l'acquazzone; e come stipo di riposti lini sai di spigo, di sale come rete; - nell'ombra dei tuoi vichi zampa il gallo presuntuoso; gioca sulla soglia il piccolo, con dietro il buio e il freddo della cucina dove su ramaglie una vecchia si china ad attizzare; sulle terrazze splende il granoturco o rosseggia la sorba; nel coltivi strappati all'avarizia della roccia i muretti s'ingobbano, si sbriciola la zolla, cresce storto e nano il fico - in te, Voze, m'imbatto nel bambino che fui, nel triste bimbo che cercava in terra mele mézze per becchime buttate, tratto dall'oscuro sangue a mordere ai rifiuti; nel cattivo celato dietro l'uscio che godeva d'udirsi per la casa chiamare da colei che lo crebbe - e si torceva presso lui non visto, la povera, le mani e supplicava che s'andasse con pertiche alla gora. Quando bevuto egli abbia ad ogni pozza guasta, più nessuno lo cerchi per la casa vuota, come in madre in te possa rifugiarsi. Se l'occhio che restò duro per l'uomo s'inteneriva ai volti della terra, nella casa di allora che inchiodato reca sull'uscio il ferro di cavallo portafortuna, sérbagli sopra i tetti la finestra che beve al lapislazzulo laggiù del mare, si disseta alla polla perenne dell'ulivo, Voze, soave nome che si scioglie in bocca...
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