Pier Paolo Pasolini

 

 

Supplica a mia madre

  

È difficile dire con parole di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere: è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile.

Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo.

Ho un'infinita fame d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore

è la mia schiavitù:

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita, l'unica tinta, l'unica forma, ora è finita.

Sopravviviamo,

ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te,

in un futuro aprile...

 

***

 

O me giovinetto

 

O me giovinetto! Nasco

nell'odore che la pioggia

sospira dai prati,

di erba viva... Nasco

nello specchio della roggia.

 

In quello specchio, Casarsa

-come i prati di rugiada-

trema di tempo antico.

Là sotto, io vivo di pietà,

lontano fanciullo peccatore

 

in un riso sconsolato.

O me giovinetto, serena

la sera tinge l'ombra

sui vecchi muri: in cielo

la luce acceca.

 

***

 

bisogna esporsi

(questo insegna il povero Cristo inchiodato?)

la chiarezza del cuore è degna

di ogni scherno

di ogni peccato

di ogni più nuda passione

(questo vuol dire il crocifisso?

sacrificare ogni giorno il dono

rinunciare ogni giorno al perdono

spingersi ingenui sull’abisso)

 

****

 

già si accendono i lumi

costellando via Zabaglia, via Frankllin, l’intero Testaccio

disadorno tra il suo grande lurido monte

i lungoteveri, il nero fondale oltre il fiume

che Monteverde ammassa o sfuma invisibile sul cielo

Diademi di lumi che si perdono, smaglianti e freddi di tristezza

quasi marina

Manca poco alla cena

brillano i rari autobus del quartiere

con grappoli d’operai agli sportelli

e gruppi di militari vanno senza fretta verso il monte

che cela in mezzo a sterri fradici e mucchi secchi d’immondizia

nell’ombra rintanate zoccolette che aspettano irose

sopra la sporcizia afrodisiaca

e non lontano tra casette abusive

ai margini del monte

o in mezzo a palazzi quasi a mondi

e i ragazzi leggeri come stracci

giocano alla brezza non più fredda primaverile ardenti

di sventatezza giovanile

la romanesca sera di maggio

scuri adolescenti fischiano pei marciapiedi

nella festa vespertina

e scrosciano le saracinesche

dei garage di schianto gioiosamente

se il buio ha resa serena la sera

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio

il vento che cade in tremiti di bufera

è ben dolce

benché radendo i cappellacci e i tufi del Macello

vi si imbeva di sangue marcio

e per ogni dove agiti rifiuti e odore di miseria

è un brusio la vita

e questi persi in essa

la perdono serenamente

se il cuore ne hanno pieno

a godersi

eccoli miseri

la sera

e potente in essi inermi

per essi

il mito rinasce

Ma io

con il cuore cosciente

di chi soltanto nella storia ha vita

potrò mai più con pura passione operare

se so che la nostra storia è finita?

 

****

 

solo l’amare, solo il conoscere conta

non l’aver amato, non l’aver conosciuto

dà angoscia il vivere di un consumato amore

l’anima non cresce più

ecco nel calore incantato della notte

che piena quaggiù tra le curve del fiume e le sopite visioni

della città sparsa di luci

echeggia ancora di mille vite

disamore, mistero e miseria dei sensi

mi rendono nemiche le formule del mondo

che fino a ieri erano la mia ragione d’esistere

annoiato, stanco rincaso per i piazzali di mercati

tristi strade intorno al porto fluviale

tra le baracche e i magazzini misti agli ultimi prati

mortale è il silenzio

ma giù a via Marconi

alla stazione di Trastevere appare ancora dolce la sera

ai rioni, alle loro borgate

tornano su motori leggeri

in tuta o coi calzoni di lavoro

ma spinti da un festivo ardore

i giovani coi compagni sui sellini

ridenti, sporchi

gli ultimi avventori chiacchierano in piedi con voci alte nella notte

qua e là ai tavolini dei locali ancora lucenti e semivuoti

stupenda e misera città

che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini

le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre

come andare duri e pronti nella ressa delle strade

rivolgersi a un altro uomo senza tremare

non vergognarsi di guardare il denaro contato con pigre dita dal fattorino

che suda contro le facciate in corsa

in un colore eterno d’estate

a difendermi, a offendere

ad avere il mondo davanti agli occhi e non soltanto in cuore

a capire che pochi conoscono le passioni in cui io sono vissuto

che non mi sono fraterni eppure sono fratelli

proprio nell’avere passioni

di uomini che allegri inconsci interi

vivono di esperienze ignorate da me

stupenda e misera città

che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota

fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo

una luce morente nel silenzio

che di lei vive

sbianca tra violenti ardori

che miseramente sulla terra muta di vita

coi bei viali, le vecchie viuzze

senza dar luce abbagliano

e in tutto il mondo le riflette lassù un po’ di calda nuvolaglia

è la notte più bella dell’estate

Trastevere in un odore di paglia di vecchie stalle

di svuotate osterie

non dorme ancora

gli angoli bui

le pareti placide risuonano

d’incantati rumori

uomini e ragazzi se ne tornano a casa

sotto festoni di luci ormai sole

verso i loro vicoli che intasano buio e immondizia

con quel passo blando da cui più l’anima

era invasa quando veramente amavo

quando veramente volevo capire

e come allora scompaiono cantando

povero come un gatto del Colosseo

vivevo in una borgata tutta calce e polverone

lontano dalla città e dalla campagna

stretto ogni giorno in un autobus tremolante

a ogni andata

ogni ritorno

era un calvario di sudore e di ansie

lunghe camminate in una calda caligine

lunghi crepuscoli davanti alle carte

ammucchiate sul tavolo tra strade di fango

muriccioli, casette bagnate di calce e senza infissi

con tende per porte

passano l’olivaio, lo straccivendolo

vengono da qualche altra borgata con l’impolverata merce

che appare frutto di furto

e una faccia crudele di giovani invecchiati

tra i visi di chi ha una madre dura e affamata

rinnovato dal mondo nuovo libero

una vampa un fiato che non so dire

alla realtà che umile e sporca confusa e immensa

brulicava nella meridionale periferia dava un senso di serena pietà

un’anima in me

che non era solo una piccola anima in quel mondo sconfinato

cresceva nutrita dall’allegria di chi amava

anche se non riamato

e tutto si illuminava a questo amore

forse ancora di ragazzo eroicamente

e però maturato dall’esperienza che nasceva ai piedi della storia

ero al centro del mondo

in quel mondo di borgate tristi beduine di gialle praterie

sfregate da un vento sempre senza pace

venisse dal caldo mare di Fiumicino o dall’agro

dove si perdeva la città fra i tuguri

in quel mondo che poteva soltanto dominare

quadrato spettro giallognolo nella giallognola foschia

bucato da mille file uguali di finestre sbarrate

il penitenziario tra vecchi campi e sopiti casali

 

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