Giorgio Orelli

 

  

E' bastato un uccello che fuggisse

di sotto ai rami schietti d'un sambuco

e un attimo radesse l'acqua verde

per ripensare a te, convinto

com'eri che "una fine con spavento

è meglio d'uno spavento senza fine"

(ancora annominatio, disco rotto).

 

Ma ecco avvampa nel suo training rosso

l'ex allieva che non ricorda nulla

e si ritempra col PERCORSO VITA.

Di stazione in stazione

ecco che s'arresta: flette, tende

il tronco, alza le braccia in alto,

le bilancia in avanti, poi cerchi,

salti accosciati, costali

sugli ostacoli, senza trascurare

le ginocchia, le anche,

fino al ponte

dove ti ritrovarono.

 

 ***

 

Nel cerchio familiare

Una luce funerea, spenta,
raggela le conifere
dalla scorza che dura oltre la morte,
e tutto è fermo in questa conca
scavata con dolcezza dal tempo:
nel cerchio familiare
da cui non ha senso scampare.
Entro un silenzio così conosciuto
I morti son più vivi dei vivi:
da linde camere odorose di canfora
scendono per le botole in stufe
rivestite di legno, aggiustano i propri ritratti,
tornano nella stalla a rivedere i capi di pura razza bruna.
Ma, senza ferri da talpe, senza ombrelli
per impigliarvi rondini;
non cauti, non dimentichi in rincorse,
dietro quale carillon ve ne andate,
ragazzi per i prati intirizziti?
La cote è nel suo corno.
Il pollaio s’appoggia al suo sambuco.
I falangi stanno a lungo intricati
sui muri della chiesa.
La fontana con l’acqua si tiene compagnia.
Ed io, restituito
a un più discreto amore della vita…

 

***

 

I gatti hanno nove vite, noi una sola: si legge sui muri
di Volterra. Conservala tu, che largo velluteggi,
mercante dalla faccia che vorrei disegnare,
e tu, che già nella corriera con tutti quei palloncini
colorati sul tetto muovevi le labbra per dire
quel che solo al mercato ho capito, "mille lire, mille lire",
piccolo vendicallifugo venuto col tuo archivio da lontano.
 

***


A mia moglie, in montagna

Dal fondo del vasto catino,
supini presso un’acqua impaziente
d’allontanarsi dal vecchio ghiacciaio,
ora che i viandanti dalle braccia tatuate
han ripreso il cammino verso il passo,
possiamo guardare le vacche.
Poche sono salite in cima all’erta e pendono
senza fame né sete,
l’altre indugiano a mezza costa
dov’è certezza d’erba
e senza urtarsi, con industri strappi,
brucano; finché una
leva la testa a ciocco verso il cielo,
muggisce ad una nube ferma come un battello.
E giungono fanciulli con frasche che non usano,
angeli del trambusto inevitabile,
e subito due vacche si mettono a correre
con tutto il triste languore degli occhi
che ci crescono incontro.
Ma tu di fuorivia, non spaventarti,
non spaventare il figlio che maturi.

***

Dal buffo buio

Dal buffo buio
sotto una falda della mia giacca
tu dici : « Io vedo l’acqua
d’un fiume che si chiama Ticino
lo riconosco dai sassi
Vedo il sole che è un fuoco
e se lo tocchi con senza guanti ti scotti
Devo dire una cosa alla tua ascella
una cosa pochissimo da ridere
Che neve bizantina
Sento un rumore un odore di strano
c’è qualcosa che non funziona?
forse l’ucchetto, non so
ma forse mi confondo con prima
Pensa: se io fossi una rana
quest’anno morirei 
« Vedi gli ossiuri? gli ussari? gli ossimori?
Vedi i topi andarsene compunti
dal Centro Storico verso il Governo? »
« Vedo due che si occhiano
Vedo la sveglia che ci guarda in ginocchio
Vedo un fiore che c’era il vento
Vedo un morto ferito
Vedo il pennello dei tempi dei tempi
il tuo giovine pennello da barba
Vedo un battello morbido
Vedo te ma non come attraverso
il cono del gelato »
« E poi? »
« Vedo una cosa che comincia per GN »
« Cosa? »
« Gnente »
(« Era solo per dirti che son qui,
solo per salutarti »)

***


In ripa di Tesino

Nel mondo delle fiabe in primavera
quando più forte odorano lungo il Ticino i sambuchi
e sui sentieri gli amenti dei pioppi s’ammucchiano
come neve soffiata, aumenta il numero
dei suicidi, specie a causa del Föhn
Seduti tra i cespugli si ha un bel ridere
vedendo passare con l’acqua timbri attrezzi d’ufficio, si finisce
con lo star male come alla stazione
quando fra un treno e l’altro un colombo si posa
sulle rotaie
Più ricca del Kuwait la Svizzera ha il primato
dei suicidi in carcere, cinque su mille,
un ingegnere delle ferrovie dice che molti si gettano
sotto al treno, due in un mese a Bellinzona,
l’altr’anno sessanta lungo la sola linea del Gottardo
Si resta perplessi si guarda l’amico
di fuorivia perplesso se a un tratto
sul mezzodì vien incontro tra i pallidi tronchi dei platani
un anziano signore sconosciuto che chiede garbato
da che parte è il Ticino, il fiume
Il fiume? Si addita dicendo che il ponte più vicino
l’hanno tagliato e gli altri
sono un po’ tanto a nord, a sud
Ma non meno inattesa la gioia di vederci salutare
con quasi festoso trasporto da chi credevamo travolto
e invece passeggia, pietosamente toccato d’eterno,
sulla diga, la giacca sottobraccio per caldo

***


Sulla salita di Ravecchia

“La vera comicità consiste in questo, che
l'infinito può trovarsi in un uomo senza
che nessuno, proprio nessuno, lo possa scoprire in lui.”
Sören Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica

Chi è questo che viene, che solo di vista conosco,
con senza spolverino di tinta neutra
e strani segni in faccia
e adesso che spingo a mano la bici in breve odore
di glicine mi segue da vicino e fa come volesse parlarmi
e prima di giungere in cima all'onesta salita,
sotto il cavalcavia dove nonni e bambini
si fermano a fare cucù: « Scusi », mi dice toccandosi
svelto il cappello di falda severa,
« la borsa cade ».
« Grazie, è la solita storia, lasciamola
andare dove vuole », sorrido, « tanto, cadendo si avvita
al portapacchi, vede?, e lì certo starebbe
fino al Giudizio Universale; grazie,
comunque ».
(Sembra chiaro chiarissimo perché
tra gole stupite di merli
un ragazzo l'abbia fatta di corsa
questa mite salita, ma dove la strada pianeggia
cammini senza fretta;
sembra chiaro chiarissimo perché
d'un tratto una bambina sia andata fuori di casa
con un cuscino del letto sul capo sebbene non piova)
E lui, quasi fraterno, quasi mosso
da comprensione ironica di sé:
« Lei non conosce me, io svizzero tedesco, di Zurigo,
io non tanti anni in Ticino, noi già
visti più d'una volta a Bellinzona
ma non parlato mai insieme, io testimone
di Geova, sa lei
che la fine del mondo è vicina e tutti i capri
saranno separati dai pecori, lei sa? »
« Lo so, ne ho sentito parlare sul treno del sabato
da una sua consorella », rispondo, e intanto
neri gallini cresciuti con fretta
per il gran compimento, becchi alzati
in nome della Legge, di profilo
ci guardano da un orto, « lo so perché anch’io sono oriundo
dell'aldilà ».

***

In memoria

Tornavo per farmi cambiare
il nastro ormai privo d'inchiostro
della mia vecchia Olivetti, e allungando,
come faccio, passando in bicicletta
davanti al tuo negozio, l'occhio
di là dai vetri, ho visto
che non c'era nessuno (forse
Lina è di sopra con Dora)
e ho visto CHIUSO PER LUTTO (forse
è morto Lino): da un po'
non ti vedevo, non mi contavi storielle.
Volevo dirti che mi sono accorto
solo adesso della totale scomparsa,
a sinistra, di E, di O a destra.
Il tasto è nero ma sempre lucente,
se batto (eternamente con due dita) continuo
a vederle, bianchissime, intatte
o quasi, come, là in basso, la X.

***

 

L’altalena

« Già che ci siamo », avevi detto, « fammi vedere la casa
dove sei nato ».
Da anni, guardando soltanto dal treno,
non ero più sicuro di riconoscerla, là,
sulla destra, un po’ sotto la “Via delle Genti”,
intatta dopo più d’una valanga,
e adesso avrei cercato a lungo invano
se non avessi incontrato una lontana cugina
che senza esitare: « È vicina, è qui sotto,
è l’unica rosa, non puoi sbagliare ». Un colore
del tutto inatteso, ma certo era quella,
accanto aveva l’orto, vi lavorava in ginocchio
un uomo né vecchio né giovane, gli chiesi se il padrone
della casa era tuttora lo stesso che l’aveva comprata
da mio padre, o un altro. « Un altro » disse accusando l’origine
tedesca.
E allora da sopra la strada, da un altro
orto, in pendio, giunse una donna in età,
dimessa e degnevole, come parlasse
a un vecchio conoscente: « Cerchi
la casa dove sei nato? ». E mentre sorridendo ricordava
il gran giocare con me, con mia sorella,
il gran piacere d’annaffiarmi con la pompa dell’acqua,
un’altra donna anziana uscì da una casa a due piani
come la mia, venne verso di me dicendo insicura il mio nome,
poi d’improvviso sicura alzò un braccio e additando
« Mi e ti cu la balanza
i vulevum fò da la lišta, i vulevum ».
E ancor prima
che togliessi lo sguardo da quella finestra
alta: « Ho sempre in mente quando ti sei fatto male,
ti sei squarciato il braccio su una punta
del cancello che il sangue ti spruzzava ma tu non piangevi,
piangeva la tua mamma ».
Era estate, uno scherzo mostrare a tutt’e due,
verso l’ascella, l’ampia cicatrice:
« Sono passati più di settant’anni,
ci siamo ancora ».

***


Foratura a Giubiasco

I
Nessuno che raggiusti biciclette?
Da un muro all’altro In gremio Matris sedet
sapientia Patris. L’immigrato
manovra seriamente le occlusive
dense della sua bella: ah che Carlo! ah che Porta!
Qui CELLE DI CONGELAZIONE, DO
IT YOURSELF CON TAPPETI,
là misericordine (giusto adesso
che, cauto, m’avvicino, scatta
la serratura dell’ingresso),
ed ecco DA QUI MOSSE I PRIMI PASSI
BERTA EDOARDO (amico
del Chiesa,
Chiesa Francesco, però:
un sì, un no ch’esitano sull’onda)
PER LE VIE LUMINOSE DELL’ARTE.
Ah, LAVASOL con signora Scerpella.
Uno schianto? Ma l’occhio della vecchia
dalla panchina mi guarda, le ortensie
hanno raggiunto tutto il loro blu.

II

Per dire in contropelo lo strazio
patito da una piazza
fra le più miti del mondo: ampio prato in pendío
che tra castagni d’India e platani (danno ombra
ora a vuote automobili) allontanava
dolcemente le case verso i monti,
paese da scomporre e ricomporre
come un Bruegel, ad ogni stagione;
ed ora bello come un cesso nuovo,
una di quelle belle soluzioni
definitive
che i cervelli asfaltati dei nostri Consigli Comunali
trovano senza ombre di dubbi
nel sozzobosco dell’incultura.
E allora tu, cagnino, alza l’anca, irrora a lungo il frivolo
tappeto verde.

III

«Desidèri?» sospira
un’altra vecchia, «i miei desideri son quelli
della partenza. Ma senta il sogno che ho fatto stanotte.
Ero, morta, e credevo d’andare, ma sì, in paradiso,
e vedo davanti a una casa, come là, verdina,
San Pietro che faceva
zuccole, ed io gli ho detto che avevo freddo, e gli ho chiesto
se la strada era quella, e San Pietro mi ha detto: “Torna indietro
che è più corta”, e mi sono svegliata.»

IV

Nell’ultimo sole non dico
Un fiore! ma Xuan Loc e vedo
— lucertola impazzita sull’asfalto
caldo ancora d’estate —
una ragazza che non sa dove andare
col fratellino in braccio
e gira gira su se stessa

V

Da qui,
da questo suolo tra i piú intrisi di sangue,
si vede bene la nostra
bella zona di resistenza alla noia,
«chiave dei passi alpini»,
«roccaforte» ... di che?,
toppa patrizia
dove ci si risparmia,
si economizzano le proprie forze
in attesa di meglio o di peggio.
Troppo tardi ormai per guardare
con calma l’uva più bella
di cui la terza vecchia mi ha parlato
senza invidia mostrandomi un povero grappolo
della sua, straziata dal maltempo.
Quel poco che posso adocchiare
non mi sembra né greve né leggero.
Ma giusto alla mia altezza s’è accesa una stanza,
una donna si toglie la collana,
l’affida lentamente ad un astuccio.
Sorpresa, senza denti, risponde
(grilli per attimi gridano)
al mio saluto attento al cane
(all’ovvio, all’oppio, al cancro, al rincaro).

***

SANT’ANTONIO DAI PEDÙLI

Sant’Antonio dalle pantofole
fammi trovare quello che ho perduto
fammi trovare la ragazza bionda
che ho incontrato in treno in seconda,
veniva dal Friuli
andava a Winterthur,
era stanca e non trovava
mica un posto per la sua testa.
Le ho detto, se voleva,
di dormire sui miei ginocchi,
cercavo di tenere il fiato
a sentirla respirare:
ma mi toccava scendere,
con che occhi mi ha guardato
con una mano nei capelli
spettinati per via del vento
e non sa come si chiama
e in che strada va a vivere,
ma se vado a Winterthur
la domenica alla mattina
la aspetto fuori della chiesa
alla messa delle serve.
Sant’Antonio dalle scarpe
che è scivolato ed è rimasto in piedi
fammi trovare la ragazza bionda
mandala incontro tenera tenera
come una delle « giugèt »
che i ragazzi in primavera
dal terreno succhiano fuori
senza romperle dicendogli su
queste litanie per i crochi:
« giugèta vieni gingèta vieni
che il mio padre è andato in Blenio
a comprare un sacco di castagne
per me, per te,
per quella vecchia che ha da morire ».

 

***

 

Maria che nel suo dolce stile

ama la perla del superlativo

assoluto. D'un nerboruto:

"Che schifo!" proclama, "il mio nonno

è morbidissimo". D'un sasso:

"Fregalo con la mano, è calducissimo".

Oppure dice le piace il giallo

perché è oro orisimo. E "il rosa

è bello perché è bellissimo".

E' come

in altalena quando spinge spinge

e con le foglie infinite del platano

s'inciela.

 

***

 

CAMPOLUNGO

 

Per una costa già cara ai fagiani

giungo dove non ronzano i beati,

su un gran piano venato d'acque appena

rotte, dai margini qua e là

fioriti di piumini come neve.

Una nebbia si insinua, allontana le vette.

Un'ansia mi caccia.

Mi fermo d'improvviso tra i calcestri

biancheggianti del passo, davanti

a uccelli dal collo di pietra.

                                       Allo sparo

gallinette si levano, dileguano

nella nebbia che ora punge la memoria

 

 

 

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