HOMO HOMINI LUPUS   (plauto)

 

HOMO HOMINI DEUS   (CECILIO STAZIO)

 

 

 

 

ADONIS

 

Urlo dove non v'è parola dopo il niente,

urlo a chi mi vede di voi

un caos di resti di morte

col silenzio addosso forte.

Urlo che fioriscano nella voce i venti

finché il mattino diventi

nel mio sangue lingua e canti.

Urlo: chi di voi mi vede

con addosso il silenzio ove la parola non ha volo,

io e la notte - urlo per sapermi da solo.

Letto il libro del presente, - i bambini hanno detto:

un tempo è questo

fiorito nel ventre delle rovine, -

hanno scritto:

un tempo e' questo in cui abbiamo visto

educata la terra dalla morte,

ingannata dall'acqua l'acqua ancora.

 

 

 

  

MARIO LUZI

 

Sangue, sua profusione

in ogni dove

del mondo,

capillarmente

in tutto l'universo,

sua stormente

ramificazione

in ogni specie

dell'aria, della terra,

degli acquitrini

dentro vene,

arterie, cannule, tubicini -

suo spreco,

sua dissipazione antica

nelle stragi palesi e clandestine,

nelle cacce, nelle ecatombi,

nelle mattanze, nelle carneficine,

nelle croci - una alzata ad espiarne

lo sperpero, lo scempio...

Dove corre il sangue, dove annega?

come l'acqua, come i fiumi

ritorna alla sorgente

il sangue, scende e sale

dalla morte alla resurrezione.

O sanguis meus...

 

 

 

 GIOVANNI PASCOLI

  

La cavalla storna

 

    Nella Torre il silenzio era già alto.

    Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

    I cavalli normanni alle lor poste

    frangean la biada con rumor di croste.

    Là in fondo la cavalla era, selvaggia,

    nata tra i pini su la salsa spiaggia;

    che nelle froge avea del mar gli spruzzi

    ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

    Con su la greppia un gomito, da essa

    era mia madre; e le dicea sommessa:

    "O cavallina, cavallina storna,

    che portavi colui che non ritorna;

    tu capivi il suo cenno ed il suo detto!

    Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

    il primo d'otto tra miei figli e figlie;

    e la sua mano non toccò mai briglie.

    Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,

    tu dai retta alla sua piccola mano.

    Tu ch'hai nel cuore la marina brulla,

    tu dai retta alla sua voce fanciulla".

    La cavalla volgea la scarna testa

    verso mia madre, che dicea più mesta:

    "O cavallina, cavallina storna,

    che portavi colui che non ritorna;

    lo so, lo so, che tu l'amavi forte!

    Con lui c'eri tu sola e la sua morte.

    O nata in selve tra l'ondate e il vento,

    tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

    sentendo lasso nella bocca il morso,

    nel cuor veloce tu premesti il corso:

    adagio seguitasti la tua via,

    perché facesse in pace l'agonia... "

    La scarna lunga testa era daccanto

    al dolce viso di mia madre in pianto.

    "O cavallina, cavallina storna,

    che portavi colui che non ritorna;

    oh! Due parole egli dové pur dire!

    E tu capisci, ma non sai ridire.

    Tu con le briglie sciolte tra le zampe,

    con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

    con negli orecchi l'eco degli scoppi,

    seguitasti la via tra gli alti pioppi:

    lo riportavi tra il morir del sole,

    perché udissimo noi le sue parole".

    Stava attenta la lunga testa fiera.

    Mia madre l'abbracciò su la criniera

    "O cavallina, cavallina storna,

    portavi a casa sua chi non ritorna!

    A me, chi non ritornerà più mai!

    Tu fosti buona... Ma parlar non sai!

    Tu non sai, poverina; altri non osa.

    Oh! ma tu devi dirmi una cosa!

    Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:

    esso t'è qui nelle pupille fise.

    Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.

    E tu fa cenno. Dio t'insegni, come".

    Ora, i cavalli non frangean la biada:

    dormian sognando il bianco della strada.

    La paglia non battean con l'unghie vuote:

    dormian sognando il rullo delle ruote.

    Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:

    disse un nome... Sonò alto un nitrito.

 

  

GIOVANNI PASCOLI

 

La quercia caduta

 

    Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande

    morta, né più coi turbini tenzona.

    La gente dice: Or vedo: era pur grande!

    Pendono qua e là dalla corona

    i nidietti della primavera.

    Dice la gente: Or vedo: era pur buona!

    Ognuno loda, ognuno taglia.

    A sera ognuno col suo grave fascio va.

    Nell'aria, un pianto... d'una capinera

    che cerca il nido che non troverà.

 

 

 SALVATORE QUASIMODO

  

alle fronde dei salici

 

 

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

tra i morti abbandonati nelle piazze

sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo.

alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

 

 

 CLEMENTE REBORA

  

viatico

 

 

O ferito laggiù nel valloncello,

tanto invocasti

se tre compagni interi

cadder per te che quasi più non eri.

Tra melma e sangue

tronco senza gambe

e il tuo lamento ancora,

pietà di noi rimasti

a rantolarci e non ha fine l'ora,

affretta l'agonia,

tu puoi finire,

e nel conforto ti sia

nella demenza che non sa impazzire,

mentre sosta il momento

il sonno sul cervello,

lasciaci in silenzio

grazie, fratello.

 

 

 

GIUSEPPE UNGARETTI

 

 

san martino

 

Di queste case

non è rimasto che qualche brandello di muro.

Di tanti che mi corrispondevano

non è rimasto neppure questo.

Ma nel mio cuore

nulla manca.

Il mio cuore:

il paese più straziato.

 

 

 

GIUSEPPE UNGARETTI

 

veglia

 

Un’intera nottata

Buttato vicino

A un compagno

Massacrato

Con la bocca

Digrignata

Volta al plenilunio

Con la congestione

Delle sue mani

Penetrata

Nel mio silenzio

Ho scritto

Lettere piene d’amore

Non sono mai stato

Tanto

Attaccato alla vita.

 

 

 

Ken Saro-Wiwa - "La vera prigione" -

Nigeria 25 marzo 2010 alle ore 20.34

 

 

Non è il tetto che perde

Non sono nemmeno le zanzare che ronzano

Nella umida, misera cella.

Non è il rumore metallico della chiave

Mentre il secondino ti chiude dentro.

Non sono le meschine razioni

Insufficienti per uomo o bestia

Neanche il nulla del giorno

Che sprofonda nel vuoto della notte

Non è

Non è

Non è.

Sono le bugie che ti hanno martellato

Le orecchie per un'intera generazione

E' il poliziotto che corre all'impazzata in un raptus omicida

Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari

In cambio di un misero pasto al giorno.

Il magistrato che scrive sul suo libro

La punizione, lei lo sa, è ingiusta

La decrepitezza morale

L'inettitudine mentale

Che concede alla dittatura una falsa legittimazione

La vigliaccheria travestita da obbedienza

In agguato nelle nostre anime denigrate

È la paura di calzoni inumiditi

Non osiamo eliminare la nostra urina

E' questo

E' questo

E' questo

Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero

In una cupa prigione.

 

 

 

 

 

Pablo Neruda

TERRE OFFESE

Regioni affondate
nell'interminabile martirio, per infinito
silenzio, battiti
d'ape e roccia sterminata,
terra che invece di grano e di trifoglio
hai tracce secche di sangue e delitti:
fertile Galizia, pura come pioggia,
salata per sempre di lacrime:
Estremadura sulla cui riva
di cielo e d'alluminio, scuro come squarcio
di proiettile, tradito e ferito e distrutto,
Badajoz tra i suoi figli morti
giace senza memoria
guardando un cielo che ricorda:
Màlaga arata dalla morte
e perseguitata in mezzo ai precipizi
fino a che le madri impazzite
sferzavano la pietra con i figli appena nati.
Furore, ala di lutto,
e morte e collera,
fino a che le lacrime e il dolore uniti,
fino a che le parole, lo smarrimento e l'ira
non saranno che un cumulo d'ossa in una strada
e una pietra seppellita dalla polvere.
Tante, tante
tombe, tanto martirio, tanto
galoppo di bestie qui sulla stella!
Nulla, né la vittoria
cancellerà la ferita terribile del sangue:
nulla, né il mare, né il passare
della sabbia e del tempo, né il geranio
che brucia sulla tomba.

 

 

 

 

Wolfgang Borchert

 

 

Si diventa bestie.

E' colpa dell'aria piena di ferro.

Eppure il cuore talvolta ha ancora una sensibilità lirica.

Un elmo d'acciaio nel chiarore del sole al mattino.

Un fringuello canta.

L'elmo arrugginisce.

Quanto costerà mai in patria una stanza con letto e acqua calda?

Potessimo solo liberarci di questa stanchezza.

Ci sorreggono invece gambe pesanti.

Domani prenderemo il bosco.

Ma la vita qui non è che morte.

Persino le stelle sono straniere e fredde.

E le case costruite così, come per caso.

Solo di quando in quando vedi un bambino.

Ha una pelle meravigliosa.

 

 

 

 

 

 PAUL CELAN

 

FUGA DELLA MORTE

 

Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera

noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte

noi beviamo e beviamo

noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive

che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete

egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano egli aduna i mastini con un fischio

con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra

ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare

 

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al mattino come al meriggio ti beviamo la sera

noi beviamo e beviamo

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive

che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba

nell’aria chi vi giace non sta stretto

 

Egli grida puntate più fondo nel cuore della terra e voialtri

cantate e suonate

egli trae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri

voi puntate più a fondo le zappe e voi ancora suonate

perché si deve ballare

 

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera

noi beviamo e beviamo

nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi

Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Mastro di Germania

grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete

come fumo nell’aria

così avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto

 

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte

noi ti beviamo al meriggio la morte è un Mastro di Germania

noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo

la morte è un Mastro di Germania il suo occhio è azzurro

egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa

nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete

egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria

egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Mastro di Germania

 

i tuoi capelli d’oro Margarete

i tuoi capelli di cenere Sulamith

 

 

Fadwa Tuqan

DIETRO LE MURA

 

Un'ingiusta mano l'ha costruita

ed è rimasta in piedi

come una maledizione eterna.

Ho guardato le sue lugubri mura,

impolverate dai lunghi secoli, gridando:

mi togliete la luce e la libertà,

ma non potrete spegnere nel mio cuore

la scintilla della speranza.

Maledetti,

potrete soffocare ogni sogno

che rinverdisce ed alimenta il mio cuore

ma il mio cuore non cesserà mai di sognare

anche se sarà chiuso in una cella.

Se mille catene mi legano

altrettante ali fantastiche mi fanno volare.

Maledetti, un'altra persona davanti a voi

s'inchinerebbe e tacerebbe

davanti alla furia;

io mai cesserò d'essere libera.

Canterò i desideri della mia anima

anche se mi schiaccerete in catene.

Il mio canto scaturisce dalla profondità.

 ("Sola con i giorni", il Cairo, 1952)

 

 

VICTOR HUGO

 

Era un tramonto dopo il temporale.

C'era a ponente un cumulo di cirri

color di rosa. Presso la rotaia

d'un'erbosa viottola, sull'orlo

d'una pozza, era un rospo. Egli guardava

il cielo intenerito dalla pioggia;

e le foglie degli alberi bagnate

parean tinte di porpora, e le pozze

annugolate come madreperla.

Nel dì che si velava, anche il fringuello

velava il canto, e, dopo il bombir lungo

del giorno nero, pace era nel cielo

e nella terra.

Un uomo che passava

vide la schifa bestia; e con un forte

brivido la calcò col suo calcagno...

Venne una donna con un fiore al busto,

ed in un occhio le cacci l'ombrella...

Quattro ragazzi vennero sereni,

allegri, biondi: ognuno avea sua madre,

a scuola andava ognuno. - Ah! la bestiaccia!

dissero. Il rospo andava saltelloni

per la scabra viottola cercando

la notte e l'ombra. Ed ecco i quattro bimbi

con una brocca a pungerlo, a picchiarlo,

a straziarlo. Sotto i colpi il rospo

schiumava, e i bimbi: - Come è mai cattivo!

L'occhio strappato ed una zampa cionca,

cincischiato, slogato, insanguinato,

non era morto; e gli voleano i bimbi

gettare un laccio, ma scivola via

arrancando. Incontrò la carreggiata,

vi si annicchi fra l'erba verde e il fango.

Ed i fanciulli in estasi e in furore

s'erano certo divertiti un mondo.

- Guarda, Pietro! Di, Carlo! Ugo, dà retta!

Prendiamo, per finirlo, ora un pietrone.

E, rossi in viso, empivano di strilli

la dolce sera. Intanto uno rinvenne

con una grossa lastra: - Ecco trovato!

A stento la reggea con le due mani

piccole, e s'aiutava coi ginocchi.

- Ecco! - E ristette sopra il rospo, e gli altri

a bocca aperta, senza batter ciglio,

stavano intorno con la gioia in cuore.

E quello alza la lastra. Uno... due...

Quando videro un carro che venia tirato,

là, da un asino vecchio, zoppo, stanco,

con gli ossi fuori e con la pelle rotta.

Il barroccio veniva cigolando

nei solchi delle ruote, trascinato

dalla povera bestia. Essa il barroccio

tirava, e avea due cestoni indosso.

La stalla, dopo un giorno di fatica,

era ancor lungi; il barrocciaio urlava,

e segnava ciascun: - arrì - d'un colpo.

Il solco delle rote era profondo,

pieno di melma, e così stretto e duro

ch'ogni giro di rota era uno strappo.

L'asino s'avanzava, rantolando

tra una nuvola d'urla e di percosse.

La strada era in pendìo: tutto il gran carro

pesava sopra il ciuco e lo spingeva.

Ed i fanciulli videro, e, gridando

al lor compagno: - Fermo con la pietra!

dissero: - il carro ... sul rospo;

c'è più gusto così.-

Dunque, in attesa,

sgranavano gli allegri occhi i fanciulli.

Ecco, scendendo per la carreggiata,

dove il mostro attendea d'esser infranto,

l'asino vide il rospo: e triste, curvo

sopra un più tristo, stracco, rotto, morto,

sembrò fiutarlo con la testa bassa.

Il forzato, il dannato, il torturato,

oh! fece grazia! Le sue forze spente

raccolse, e irrigidendo aspre le corde

sugli spellati muscoli, ed alzando

il grave basto, e resistendo ai colpi

del barrocciaio, trasse con un secco

scricchiolìo, fuori, e devi la ruota,

lasciando vivo dietro lui quel gramo.

Poi riprese la via sotto il randello.

Allor nel cielo azzurro, dove un astro

già pullulava, intesero i fanciulli

Uno che disse: - Siate buoni, o figli. -

 

 

 

 

BERTOLT BRECHT

  

 

Con paura aspettano i popoli la primavera

Le baie si squamano del ghiaccio.

Quando attaccheranno le corazzate?

Le tormente d'inverno sono cessate.

Quando appariranno i ferrei uccelli da preda?

 

 

 

Prima assai che arrivassero su di noi i bombardieri

le nostre città erano inabitabili.

Le fogne non smaltivano più le immondizie.

Prima assai che cadessimo in vane battaglie

quando ancora andavamo per città che ancora esistevano

le nostre donne erano vedove

e orfani i nostri figli

Prima assai che uomini anch’essi segnati

ci gettassero giù nelle fosse

eravamo senza amici.

E non erano più volti

quelli che la calce distrusse.

 

 

 

 

I signori dicono: pace e guerra

sono due cose diverse.

Però la loro pace e la loro guerra

sono come vento e tempesta.

La guerra nasce dalla loro pace

come il figlio dalla madre.

Ne porta le terribili sembianze.

La loro guerra uccide

ciò che la loro pace ha risparmiato.

E’ notte.

Le coppie si coricano nei letti.

E giovani donne partoriranno orfani.

 

 

 

Il pane degli affamati è stato mangiato.

Non si sa più cosa sia la carne.

Inutilmente è stato versato il sangue del popolo.

Gli allori sono stati tagliati.

Dalle ciminiere delle fabbriche

di munizioni sale fumo.

L’imbianchino parla della grande epoca futura.

I boschi crescono ancora.

Danno ancora raccolti i campi.

Le città sono ancora in piedi.

Respira la gente ancora.

Gli operai gridano: Pane!

I mercanti chiedono: Mercati!

Le mani che impigrivano in grembo

sono di nuovo in moto:

torniscono granate.

Chi sottrae la carne al desco

predica frugalità.

Quelli a cui è riservata la parte migliore

pretendono spirito di sacrificio.

Agli affamati i satolli parlano della grande èra

che sta per cominciare.

Quelli che portano il paese in rovina

dicono che per l’uomo semplice

cosa troppo complicata è governare.

 

 

 

Stava scritto sui muri col gesso:

essi vogliono la guerra.

Chi l’ha scritto è già caduto.

I costruttori sono appollaiati

su sgabelli nelle sale da disegno:

una cifra sbagliata

e le città nemiche resteranno intatte.

Quando è l’ora di marciare

molti non sanno

che il loro nemico

marcia davanti a loro

in prima fila.

La voce che li comanda

è quella del nemico.

Colui che là parla del nemico

è lui il nemico.

 

 

 

Assai prima di mietere i campi di grano in Ucraina

da noi c’era fame di grano.

Eravamo assettati del tuo vino Mosella,

dei tuoi pendii

assai prima di entrare coi tanks

nella ridente Champagne.

Assai prima di aver gettato in lacrime le madri di Kiev

avevamo visto le nostri madri piangere.

Assai prima di aggredire i pescatori nella lontana Norvegia

a casa nostra lupo era l’uomo all’uomo.

Assai prima che gli aerei nemici apparissero

le nostre città erano inabitabili.

Non c’erano più fogne capaci di smaltire

tutta la vecchia immondizia.

Assai prima di essere morti in battaglie inutili

(ci aggiravamo ancora inutilmente

per città che ancora esistevano)

le nostre donne erano vedove 

e orfani i nostri figli.

 

 

 

 

Alto sopra il lago

vola un bombardiere.

Dalle barche guardano in su

bambini

donne

un vecchio.

Da lontano assomigliano a giovani stormi

che spalancano il becco

verso il cibo

 

 

 

 

 

 

Germania, pallida madre

lordata fra i popoli.

Tu sei la più insudiciata

fra quelli lordati.

Il più povero dei tuoi figli

giace scannato.

Quando la sua fame fu grande

gli altri tuoi figli

alzarono su di lui la mano,

tutti lo sanno.

Con le loro mani levate contro il fratello

vanno ora in giro impudenti

e ti ridono in faccia.

Nella tua casa si grida a gran voce

ciò che è menzogna.

E ciò che è vero

si deve tacere.

Perché ti esaltano gli oppressori

e gli oppressi ti accusano?

Gli sfruttati ti segnano a dito

ma gli sfruttatori lodano il sistema

inventato nella tua casa.

E tutti ti vedono nascondere

il lembo della tua veste

bagnato del sangue del tuo figlio migliore.

Quando si sentono le concioni della tua casa

si ride.

Ma chi ti incontra

pone mano al coltello

come alla vista un ladro.

Germania, pallida madre

come ti hanno ridotto i tuoi figli

perché tu sia ludibrio tra i popoli

e faccia paura.

 

 

 

 

 

 

 

 

Davvero vivo in tempi bui,

quando la parola innocente è stolta

e una fronte distesa vuol dire insensibilità.

Quali tempi sono questi

quando discorrere di alberi è quasi un delitto

perché su troppe stragi comporta silenzio?

E l'uomo che ora attraversa la strada

mai più potranno rivederlo gli amici?

E' vero: ancora mi guadagno da vivere.

Ma è un caso.

Nulla di quel che faccio mi autorizza a sfamarmi.

Basta che il vento giri e sono perduto.

"Mangia e bevi -dicono- e sii contento di averne."

Ma come posso mangiare e bere

se quel che mangio manca a chi ha fame?

e a chi ha sete tolgo il mio bicchiere?

Eppure mangio e bevo.

E vorrei anche essere saggio.

Nei libri antichi scritto:

lascia le contese del mondo,

trascorri questo breve tempo senza paura,

spogliati della violenza e rendi bene per male.

Questo, dicono, è la saggezza.

Tutto questo per me oggi è impossibile.

Davvero vivo in tempi bui.

Nelle città venni al tempo del disordine,

quando la fame regnava.

Tra gli uomini venni al tempo delle rivolte,

e mi ribellai insieme a loro.

Il mio pane lo mangiai nelle battaglie.

E per dormire mi stesi accanto agli assassini.

Così passò il tempo che m'era stato dato sulla terra.

Voi che riuscirete a salvarvi

dai gorghi dove fummo travolti

pensate,

quando parlate delle nostre debolezze,

ai tempi bui cui siete scampati.

Noi cambiammo più spesso paese che scarpe.

Andammo, disperati, in mezzo alle guerre

quando regnava solo ingiustizia.

Eppure lo sappiamo:

anche l'ira contro l'ingiustizia fa roca la voce,

anche l'odio contro la bassezza stravolge il viso.

Noi che volevamo apprestare il terreno alla gentilezza

non potemmo essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora

che l’uomo all’uomo sia un aiuto,

pensate a noi con indulgenza.

 

 

 

 

Noi adesso siamo profughi in Finlandia.

La mia figlioletta viene a casa la sera imprecando.

Nessun bambino vuole giocare con lei.

E' tedesca.

E proviene da un popolo di ladroni.

Quando in una discussione alzo la voce vengo zittito.

Qui non si gradisce che alzi la voce

qualcuno che proviene da un popolo di ladroni.

Se ricordo alla mia figlioletta

che i tedeschi sono un popolo di ladroni,

ridiamo insieme

e lei è tutta contenta.

A me che vengo da una famiglia di contadini

ripugna vedere buttare via il pane.

Si capisce come io odi la guerra.

Con una bottiglia di vino sul tavolo,

la nostra amica finlandese ci descriveva

come la guerra avesse devastato il giardino di ciliegi.

Il vino che beviamo, diceva, viene da lì.

Vuotammo i bicchieri

in ricordo del giardino massacrato,

brindando alla ragione.

Questo è l'anno di cui si parlerà.

Questo è l'anno di cui si tacerà.

I vecchi vedono morire i giovani.

I folli vedono morire i saggi.

La terra non regge più

ma ingoia.

Dal cielo non cade pioggia

ma ferro.

 

 

 

PRIMAVERA 1938

Oggi, mattino di Pasqua,

una bufera improvvisa è passata sull'isola.

Tra le siepi già verdi c'è neve.

Mio figlio mi ha condotto per mano verso il muro della casa.

Senza parlare abbiamo messo un telo sull'albero che raggelava.

Sopra il Sund pendono nuvole cariche di pioggia.

I peri hanno foglie verdi non ancora fiori.

I ciliegi hanno fiori, non ancora foglie.

Sulle acque increspate del Sund

veleggia una piccola barca dalla vela rammendata.

Al pigolio dei tordi si unisce il tuono lontano

delle esercitazioni di guerra del Terzo Reich.

In queste notti di primavera

dai salici lungo il Sund

chiama spesso la civetta.

Secondo la superstizione informa gli uomini

che non vivranno a lungo.

A me che so di aver detto la verità su chi comanda

l'uccello del malaugurio

non c'è bisogno che m'informi.

 

 

 

 

Con paura

aspettano i popoli la primavera

le baie si squamano del ghiaccio.

Quando attaccheranno le corazzate?

Le tormente d’inverno sono cessate.

Quando appariranno i ferrei uccelli da preda?

 

 

 

Viene la primavera.

I venti miti vanno liberando gli scogli dalle gelate d'inverno.

La nebbia fascia le strade, i pioppi, i cascinali.

I popoli del nord aspettano.

Stringendo a sé i figli le madri scrutano il cielo.

Non molto tempo fa, una notte, ho fatto un brutto sogno.

Sognavo che ero in una città

e m'accorgevo che le insegne erano in lingua tedesca.

Molle di sudore mi sono svegliato.

Con sollievo ho veduto il pino di fronte alla casa.

Ero ancora in paese straniero.

Davanti alla parete imbiancata c'è la cassetta coi manoscritti.

Il dipinto cinese dell'Uomo Che Dubita è appeso lì sopra.

E accanto alla branda sta la piccola radio a sei valvole.

Di prima mattina ascolto i notiziari di guerra dei miei nemici.

In fuga davanti alla gente del mio paese sono in Finlandia.

Amici che ieri non conoscevo

hanno messo qualche letto in camere pulite.

Sento i notiziari di vittoria delle canaglie.

Incuriosito considero la carta del mondo.

Lassù in Lapponia

verso il Mare Glaciale Artico

vedo ancora una piccola porta.

 

 

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