Ted Hughes
Poiché il messaggio s’imbatté in un folletto,
poiché i precedenti fecero lo sgambetto alle attese,
poiché la tua Londra era ancora un caleidoscopio
di nomi e luoghi rimescolabili ad ogni scossa,
aspettasti e ti sbagliavi:
la corriera del nord arrivò, si svuotò e io non c’ero.
Avesti un bell’insistere e implorare l’autista con probabili lacrime
di farmi saltar fuori
o ricordarsi d’avermi visto mancare d’un soffio la partenza.
Non c’ero.
Le otto di sera,
ero disperso in qualche punto dell’Inghilterra.
Tenesti a freno la tua fiduciosa ispirazione
e non ti buttasti nel traffico
che vorticava attorno alla Victoria Station
con la certezza assoluta di incrociarmi
dove dovevo essere, per strada.
Io non c’ero per strada né lì né altrove,
ero seduto placido al mio posto
sul treno che andava dondolando verso King’s Cross.
Qualcuno più calmo di te ebbe un suggerimento.
E fu così che quando scesi dal treno
pensando di trovarti in qualche punto all’inizio del binario
vidi quel maroso e quell’agitazione,
una figura che fendeva di petto la corrente dei passeggeri liberati.
Poi il tuo viso liquefatto, gli occhi liquefatti
e le tue esclamazioni, le braccia agitate, le lacrime sparse
come se fossi ritornato dai morti contro ogni possibilità,
contro ogni negazione, salvo la tua preghiera ai tuoi dèi
e dietro di te il tuo allegro tassista che rideva come un piccolo dio
nel vedere un’americana fare tanto l’americana,
nel vedere la tua folle corsa di biche,
i tuoi singhiozzi, gli incitamenti, le suppliche
di far accadere ciò che avevi bisogno accadesse
così completamente vittoriosa, grazie a lui.
Be’, fu una combinazione straordinaria
che il mio treno non arrivasse prima, molto prima,
che entrasse in stazione in ritardo,
nel momento esatto in cui tu irrompevi sul marciapiede,
fu naturale e miracoloso
e fu un presagio che confermava tutto quanto volevi confermato
e la tua immensa disperazione, la corsa nel panico per Londra
e ora il tuo trionfo mi piovvero addosso
come un amore ingrandito quarantanove volte,
come il primo fragoroso rovescio che sommerge la siccità d’agosto
quando l’interra terra spaccata sembra sussultare
e ogni foglia trema
e ogni cosa leva le braccia piangendo.
***
Felice di essere martirizzato per follia
ti invocai, corrompendo il Destino perché ti facesse apparire.
Non avevo idea di quanto stessi diventando necessario,
o in quale ambulatorio d'emergenza il Destino avrebbe mutato
il mio self-service occasionale.
Ti sento salire le scale spoglie
viva e vicina
ciarlando per farti sentire,
il fiato corto:
era la tua artiglieria per confondermi;
prima di lanciarti all’attacco
in tutto il tuo splendore
volevi che ti sentissi ansare.
Poi, nebbia,
come entrasti? che accadde dopo?
Per esempio, come fece Lucas ad eclissarsi?
Ci sedemmo, almeno?
Un grande uccello
tu ti levasti nel piumaggio della tua eccitazione
delirando esultanza,
volti azzurrini,
cobalto fluorescente,
un bagliore di aura
che in seguito scoprii essere tuo soltanto
e il singolare brillio dei tuoi occhi,
la loro stranezza.
Ma adesso declamavi
una lunga poesia su una pantera nera
mentre io ti tenevo stretta e ti baciavo e cercavo di impedirti
di svolazzare per la stanza. Con tutto ciò,
non volevi fermarti.
Attraversammo Londra, verso sud
fino a Fetter Lane
e al tuo albergo,
di fronte all’ingresso
in uno spiazzo bombardato che stava diventando cantiere
ci abbracciammo vertiginosamente
come salvezza e insieme precipitammo
in una botte giù per un Niagara
cadendo nel rombo dell’anima;
la tua cicatrice mi disse
quasi un nome segreto o una parola d’ordine
del tuo tentato suicidio,
e io sentii
senza smettere un attimo di baciarti
come l’avesse bisbigliato una stella assennata
alta sulla città roteante e rimbombante.
Sta’ lontano,
stella vigliacca.
Non ricordo come mi intrufolai
avviluppato in te, nell’albergo.
Eccoci
tu eri sottile, flessuosa e liscia come un pesce,
eri un nuovo mondo, il mio nuovo mondo.
Questa è dunque l’America, mi meravigliai!
Bella, bellissima America!
***
Ti eri trasfigurata
così sottile e nuova e nuda
in un ramo oscillante di lillà bagnato
tremavi, singhiozzavi di gioia.
Eri un oceano profondo traboccante di dio.
Dicesti che vedevi aprirsi i cieli
e mostrare ricchezze pronte a piovere su di noi.
Levitato al tuo fianco,
ero soggetto ad uno strano tempo grammaticale,
il futuro incantato,
in quel presbiterio feriale
spoglio d’echi
ti vedo lottare
per contenere le fiamme
nel tuo vestito di lana rosa
e nelle tue pupille,
grandi come gemme
sfaccettate che scuotono
le loro fiamme di lacrime,
grosse gemme agitate
in una coppa
che mi venivano offerte.
***
Dieci anni dopo la tua morte
incontro su una pagina del tuo diario, come mai prima,
lo shock della tua gioia. Poi lo shock
delle tue preghiere. E sotto le preghiere il panico
che le preghiere potessero non creare il miracolo,
poi, sotto il panico, l'incubo
che ti arrivava addosso per schiacciarti:
la tua alternativa - l'impensabile
antica disperazione e la nuova angoscia
che si fondevano in un unico ben noto inferno.
D'un tratto leggo tutto questo -
le tue parole, nell'atto di sgorgarti
dalla gola e dalla lingua e di posarsi sulla pagina -
proprio come quando tua figlia, anni fa ormai,
entrando piano e guardandomi fisso,
disorientata,
dove io lavoravo solo nella casa silenziosa, chiese a un tratto:
"Papà, dov'è la mamma?". La terra gelata
del giardino, mentre la raspavo.
Tutt'attorno a me l'enorme orologio di gelo
di quella mezzanotte. E in un punto
al suo interno, desideroso di non sentire nulla,
un pulsare di febbre. In un punto
di quell'intorpidimento della terra
il nostro futuro che cercava di essere.
Alzo gli occhi - come per incontrare la tua voce
con tutto il suo incalzante futuro
che mi è esploso addosso. Poi torno a guardare
il libro delle parole stampate.
Sei morta da dieci anni. E' solo una storia.
La tua storia. La mia storia.
***
Il tempo si aprì quando disegnasti il mercato di Benidorm.
Ti sedevo accanto, scribacchiando qualcosa.
Le ore scorrevano bruciando. I bancarellai
venivano a vedere di continuo se li ritraevi bene.
Seduti su quei gradini, scarpe di corda i piedi,
eravamo felici. La nostra novità di turisti
era scomparsa, sapevano districarci
nei percorsi cittadini. Eravamo oggetti
stranieri familiari. Finite le banane,
il venditore di banane si produsse per noi
in un assolo di violino sul gambo spoglio.
Tutti si affollavano a lodare il disegno.
Tu continuavi puntigliosa, fissando i particolari,
finché non imprigionasti la scena intera.
Eccola. Hai salvato per sempre
la nostra mattina altrimenti perduta. La tua pazienza,
il tuo cipiglio di labbra mordicchiate colsero il ritratto
di una piazza di mercato ancora addormentata
nel Medioevo. Un istante prima
che si svegliasse e scomparisse
sotto le strida di un milione di migratori estivi
e la parete a picco di hotel abbaglianti. Così come la tua mano
scese sotto Heptonstall per esser tenuta
dal buio senza fine. E intanto la mia penna continua il viaggio
a duecento miglia appena dalla tua mano,
conservando questo ricordo della tua bandana rossa a pallini bianchi
dei tuoi short, del golfino con le maniche corte -
uno dei trenta che mi trascinai dietro per l'Europa -
e delle tue lunghe gambe abbronzate che reggevano l'album,
e della calma contemplativa
che bevevo dalla tua quiete concentrata,
nella calma contemplativa
che ora bevo dal tuo silenzio immobile e che nessuno
dei due può disturbare o sfuggire.
***
"Allorché Aprile con le sue dolci piogge
la siccità di Agosto ha trafitto alle radici..."
Con voce squillante, in bilico su un cavalcasiepi,
le braccia alzate - un po' per equilibrio, un po'
per trattenere le redini della faticosa attenzione
del pubblico immaginario - declamavi Chaucher
a un campo di mucche. E il cielo di primavera aveva obbedito,
col suo bucato svolazzante e lo smeraldo nuovo
degli spini, il biancospino, il prugnolo,
e uno di quei bicchieri di champagne
che stappavi a sorpresa al puro spirito.
La tua voce si spandeva sui campi verso Glouchester.
Sarà risuonata sperduta. Ma le mucche
guardavano, poi si accostarono: Chaucher gli piaceva.
Tu continuasti. Erano ottime ragioni
per recitare Chaucher. Poi venne la Donna di Bath,
il tuo personaggio preferito di tutta la letteratura:
Eri rapita. E le mucche incantate.
Si spingevano, si davano spallate, facevano cerchio,
per guardarti in faccia, e ogni tanto, con uno sbuffo
esclamativo, rinnovavano la loro attonita attenzione,
le orecchie tese per cogliere ogni inflessione,
mantenendo tra loro e te due metri di timorosa
riverenza. Tu non credevi ai tuoi cocchi
e non potevi smettere. Che sarebbe successo
se ti fossi fermata? Ti avrebbero attaccato,
spaventate dallo shock del silenzio, o reclamando un bis?
Dovevi continuare. E continuasti
e venti mucche rimasero con te ipnotizzate.
Come fu che ti fermasti? Non lo ricordo.
Forse si allontanarono frastornate,
strabuzzando gli occhi, come strappate dal foraggio.
Forse le mandai via io. Ma
la tua esecuzione sostenuta di Chaucher
era già eterna.
***
La cattedrale era là,
impotente, in bella mostra, per altri, per altre
età. Lo spettacocare slancio appuntito
della sua stazza ci trafisse
con la sua cupezza d'ombra e il peso del sacro.
Non era la prima volta che vedevo Reims. Fu l'ultima.
La folgore di quanto accadde
bruciò la più serica, segreta, esitante
carta della Francia che stavo tessendo
davanti a noi - come un ragno tesse la sua passerella,
per il nostro futuro, forse. La nostra prima
esplorazione insieme oltre Parigi,
in ricognizione, prendendo appunti, ammaliati
da tutto. Sedevamo nella piazza,
intingendo croissant imburrati nella cioccolata calda.
Tu scrivevi cartoline, concentrata.
Con l'impermeabile. Metà mattina, l'aria fresca.
La zingara mora, tarchiata
comparve all'improvviso. Rapida, efficiente
come una donnola che saggia ogni fessura,
o la lama di un cameriere che apre le ostriche
e senza fermarsi getta nel secchio
quella cattiva, via, la valva superiore, via,
poi prende quella dopo, attento,
trova la serratura. Offriva
una medaglietta - un San Nicola, una Madonna -
sul palmo della mano tesa. Esperta, senza alzare gli occhi,
tu l'avevi respinta quasi prima che parlasse,
un riflesso pronto, scattato come una trappola, dura,
la tua veemenza incontrò la sua veemenza.
La sua veloce formula di richiesta si bloccò al tuo "Non".
E lei si fermò offesa, attonita, di colpo
come se l'avessi schiaffeggiata. A mo' di pistola il suo dito
si levò contro la tua faccia, tutto il suo slancio
congelato in quel ghiacciolo minaccioso: "Vous
creverez bientot". La faccia scura
era un nodo di cuoio unto,
come quella di Geronimo. Occhi astiosi
di vendetta color feccia di grappa, antica malignità gallica,
uva passa di bile. E altrettanto bruscamente
mosse oltre,
tra i tavoli e scomparve, lasciando le sue parole
più pesanti della Cattedrale,
più grandi, più oscure, con fondamenta molto più profonde.
Tutto il mio corpo ne sostenne il peso
come una religione più nuova o molto più antica
in me soltanto, da portare
ovunque con me, catacombe più profonde
e con un Dio più forte.
Ma tu
continuasti a scrivere cartoline. Per giorni rimai
talismani di potere
per neutralizzare il suo veleno. Immaginai
di ritornare a Reims: l'avrei trovata
e con una moneta avrei comprato il richiamo
del suo proiettile. Ma tu
non ne parlasti mai. Non lo registrasti
nel tuo diario. E io mi aggrappai alla speranza
che non l'avessi nemmeno sentito. Assordata, forse,
da esplosioni più vicine. Chiusa, forse,
in una più solida cripta.
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