René Char
E’ caduto come non ravvisando i suoi carnefici
e così leggero m’è parso
che il minimo soffio di vento
l’avrebbe risollevato da terra
Oggi sono passato sull’orlo del campo di girasoli
che alla sola vista lo ispirava.
La siccità curvava il capo degli stupendi
insipidi fiori.
Là presso è sgorgato il suo sangue
ai piedi di un vecchio gelso
sordo di tutto lo spessore
della sua corteccia.
***
L’uragano spoglia i boschi,
io sopisco la folgore dagli occhi teneri,
lasciate il gran vento in cui tremo
unirsi alla terra in cui cresco.
Il suo respiro affila la mia guardia.
Com’è torbido il cavo dell’inganno
della sorgente dai fondi imbrattati.
Una chiave sarà mia dimora
di un fuoco che il cuore accerta
e l’aria che la tenne nella sua morsa.
***
I pugni stretti,
i denti spezzati,
le lacrime agli occhi,
la vita che m’investe
e mi malmena e sogghigna.
O spiga avanzata delle messi d’agosto,
distinguo nella corolla del sole
una giumenta,
m’abbevero della sua orina.
***
Ho ravvisato in una roccia la morte
fugace e miserabile, il letto aperto
delle sue piccole comparse al riparo
di un filo.
Di tagliapietre nessun segno,
ogni mattino terrestre apriva le ali
in fondo ai gradini della notte.
Tanto basta:
alleggerito della paura degli uomini
scavo nell’aria la mia tomba
e il mio ritorno.
***
Nella piega chimerica di Val Chiusa
ti ho guardato soffrire
e, benché prostrato,
laggiù in quell’acqua verde
e in quella strada
attraversavi la morte
nel suo disordine,
fiore scavato d’un così grande segreto.
***
Siamo come quei rospi
che nell’austera notte delle paludi
si chiamano e non si vedono
piegando al loro grido d’amore
tutta la fatalità dell’universo.
***
Tu sei il mio amore da tanti anni,
la mia vertigine davanti a tanta attesa
che nulla può invecchiare, raffreddare,
nemmeno chi attendeva la nostra morte
o lentamente ci seppe combattere,
nemmeno chi ci è straniero,
nemmeno le mie eclissi e i miei ripensamenti.
Chiusa come una porta di bosso,
un’estrema fortuna compatta
è la nostra catena di montagne,
il nostro comprimente splendore,
io dico fortuna,
ciascuno di noi può ricevere
la parte di mistero dall’altro
senza disperderne il segreto
e il dolore che del resto ne deriva
trova la separazione
nella carne della nostra unità,
trova la sua strada solare
al centro della nostra nuvola
che squarcia e ricomincia,
dico fortuna,
così come sento,
tu hai alzato la vetta
che la mia attesa dovrà superare
quando domani sparirà.
***
Appoggia il capo sulle mie ginocchia
non sono felice eppure tu mi basti,
non c’è più sulla terra
cuore gonfio o avvenire.
I gradini del crepuscolo
rivelano il tuo mormorare,
confidenza scambiata
tra i rossori autunnali
e la tua veste leggera.
Sei l’anima della montagna
dai fianchi profondi,
dalle rupi ammutolite
dietro le labbra d’argilla.
Fremono le tue ali,
la tua mano chiude il sentiero
e accosta la tenda degli alberi.
Tutte le speranze sono franate:
io pongo al cospetto dei due astri, il gelo e il vento,
per un cardo che vince, la rapace solitudine.
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