Raymond Carver
Fiume Naches. Appena sotto le cascate.
A venti miglia da qualsiasi città. Una giornata
di densa luce solare,
greve degli odori dell'amore.
Quanto tempo abbiamo?
Il tuo corpo, asprezza di Picasso,
si asciuga all'aria dell'altopiano.
Ti strofino la schiena e i fianchi
con la mia maglietta.
Il tempo è un puma.
Ridiamo per un nonnulla
e quando ti sfioro i seni
perfino gli scoiattoli
restano abbacinati.
***
Tornati in albergo, mentre la guardo sciogliersi e poi pettinarsi
i capelli rosso bruni davanti alla finestra, assorta in pensieri profondi,
lo sguardo perso altrove, mi vengono chissà perché in mente
i Lacedemoni, di cui scrive Erodoto, il cui dovere
era difendere le Porte dall'esercito persiano. E loro
lo compirono. Per quattro giorni. Prima però, sotto l'incredulo
sguardo di Serse in persona, i soldati greci si sedettero
davanti alle fortificazioni di tronchi e alle armi pronte,
e si pettinarono le lunghe chiome, come se quello fosse
un giorno qualunque in una guerra qualsiasi.
Quando Serse volle sapere che senso avesse quella scena
gli dissero: questi uomini stanno per abbandonare la vita
prima si fanno bella la testa.
Lei posa il pettine dal manico d'osso e si avvicina ancora di più
alla finestra e all'avara luce pomeridiana. Qualcosa,
un leggero scricchiolio, un movimento, giù di sotto,
ha catturato la sua attenzione,
uno sguardo e poi lo lascia andare.
***
Scende il crepuscolo. Poco fa è caduta
un po' di pioggia. Si apre un cassetto e dentro si trova
la foto di un uomo e ci si rende conto che ha solo due anni
di vita. Lui questo non lo sa, è chiaro,
è per questo che posa sorridente davanti all'obiettivo.
Come può sapere cosa gli sta mettendo radici nella testa
in quel momento? Se si guarda verso destra
tra i rami e i tronchi, si intravedono
macchie rossastre di chiarore residuo. Non ci sono ombra,
né chiaroscuri. L'aria è umida e calma…
Lui continua a posare sorridente. Rimetto la foto
a posto con le altre e concentro invece l'attenzione
sul chiarore residuo lungo i monti lontani,
che si posa dorato sulle rose del giardino.
Poi non posso fare a meno di lanciare un'altra occhiata
alla foto: il suo ammiccare, il gran sorriso,
l'inclinazione spavalda della sigaretta.
***
Sotto la finestra, sul balcone, ci sono degli uccellini malridotti
che si affollano attorno al cibo. Sono gli stessi, credo,
che vengono tutti i giorni a mangiare e bisticciano.
"C'era un tempo, c'era un tempo"
gridano e si beccano.
Sì, è quasi ora.
Il cielo rimane cupo tutto il giorno, il vento viene da ovest
e non smette di soffiare…
Dammi la mano per un po'.
Tienimi la mia. Così va bene.
Stringila forte.
C'era un tempo, in cui pensavamo di avere il tempo dalla nostra parte.
"C'era un tempo, c'era un tempo"
gridano gli uccellini malridotti.
Dalla finestra la vedo chinarsi sulle rose
reggendole vicino al fiore
per non pungersi le dita.
Con l'altra mano taglia, si ferma
e poi taglia ancora, più sola al mondo
di quanto mi sia mai reso conto.
Non alzerà lo sguardo,
non subito. E' sola
con le rose e con qualcosa che riesco solo a pensare,
ma non a dire.
So bene come si chiamano quei cespugli
che abbiamo avuto in dono per le nostre nozze tardive:
Ama, Onora e Abbi Cura…
è quest'ultima la rosa che all'improvviso mi porge
dopo essere entrata in casa tra uno sguardo e l'altro.
Ci affondo il naso,
ne aspiro la dolcezza, lascio che mi si attacchi addosso…
profumo di promessa, di tesoro.
Le prendo il polso perché mi venga più vicina,
i suoi occhi verdi come muschio di fiume.
E poi la chiamo,
contro quello che avverrà, moglie, finché posso,
finché il mio respiro, un petalo affannato dopo l'altro,
riesce ancora a raggiungerla.
***
Vedo un posto vuoto a tavola.
Di chi è? Di chi altro? Chi voglio prendere in giro?
La barca attende. Non c’è bisogno di remi
né di vento. La chiave l’ho lasciata
nel solito posto. Tu sai dove.
Ricordati di me e di tutto
quello che abbiamo fatto insieme.
Ora stingimi forte. Così. Dammi un bel bacio
sulla labbra. Ecco. Ora
lasciami andare, carissima. Lasciami andare.
Non c’incontreremo più in questa vita,
perciò ora dammi un bacio d’addio.
Su, ancora uno.
E un altro. Ecco. Adesso basta.
Adesso, carissima, lasciami andare.
E’ ora di avviarsi.
***
La donna s'accascia sulla cabina
singhiozzando al telefono.
Chiede un paio di cose e singhiozza più forte.
Il suo compagno, un anziano in jeans,
è lì vicino in attesa
che tocchi a lui parlare e piangere.
Lei gli porge la cornetta.
Per una attimo restano insieme
dentro la minuscola cabina
mescolando le loro lacrime.
Poi lei va ad appoggiarsi
al parafango della berlina
e ascolta mentre lui prende accordi.
Li osservo dalla mia auto.
Neanch'io ho un telefono in casa.
Resto al volante e fumo.
Ben presto lui riaggancia.
Si asciuga il volto.
Salgono in macchina
e restano coi finestrini chiusi.
I vetri si appannano
mentre lei gli si appoggia.
Lui le cinge le spalle con un braccio.
Vado verso la cabina.
Lascio la porta aperta perché è stretta.
La cornetta è ancoro calda.
No mi piace usare un telefono
che ha appena portato notizie di morte.
Ma non ho scelta.
E' l'unico telefono nel raggio di miglia.
Inserisco le monete.
Anche quei due in auto sono in attesa.
Lui accende il motore. Poi spegne.
Da che parte andare?
Nessuno di noi è in grado di dirlo
non sapendo dove cadrà il prossimo colpo, né perché.
Gli squilli all'altro capo cessano.
Prima che possa dire due parole
lei si mette a gridare:
"T'ho detto che è tutto finito!
Puoi anche andare all'inferno!".
Abbasso la cornetta.
Mi passo una mano sulla faccia.
I due della berlina tirano giù i finestrini.
Mi guardano.
Le loro lacrime si sono fermate.
Restano seduti.
Per un po' non andiamo da nessuna parte.
Poi partiamo.
***
Eccoli su un volo di sola andata, da Los Angeles
a San Francisco, ubriachi entrambi,esausti e nervosi
per aver dovuto assistere imbarazzati all’udienza,
la loro seconda bancarotta in sette anni.
E chissà cos’hanno detto, se hanno detto qualcosa,
su quell’aereo e chi l’ha detto?
magari è stato l’accumularsi
degli eventi della giornata, oppure gli anni e anni
di fallimenti a scatenare la violenza.
Poco prima, rivoltati come calzini, crocifissi
e dati per morti, sono stati scaricati come sacchi
della spazzatura davanti al terminal.
Ma una volta dentro si sono subito ripresi,
hanno trovato rifugio in un bar dell’aeroporto
dove hanno mandato giù whisky doppi
sotto uno striscione che diceva Forza Dodgers!
Erano brilli, come al solito, quando si sono allacciati
le cinture di sicurezza e, come sempre, convinti
che fosse la condizione umana universale
questa battaglia intrapresa senza posa
contro forze incalcolabili, forze al di là
della limitata comprensione umana.
Ma lei sta perdendo il controllo, non ce la fa proprio più
e ben presto, senza una parola, si gira
sulla poltrona e comincia a picchiarlo, un pugno via
l’altro e ancora pugni: lui li piglia tutti.
In fondo sa bene che ne merita dieci volte tanti
– tutti quelli che lei vuole mollargli –
– viene giustamente picchiato per qualcosa
ci sono ottimi motivi. E mentre una gragnuola di colpi
gli investe la testa, sbattuta a destra e a manca,
con i pugni di lei che gli cadono sull’orecchio,
sulle labbra, sulla mascella, lui protegge
il suo whisky. Stringe quel bicchiere di plastica
come se il tesoro a lungo cercato fosse lì
sul tavolino di fronte.
Lei continua a picchiarlo
finché il naso non comincia a sanguinargli
e solo allora lui le chiede di smettere. Ti prego, tesoro,
per l’amor di Dio, smettila. Forse la sua supplica
le arriva come un debole segnale
da un’altra galassia, una stella morente,
perché di questo si tratta
di un segnale in codice da un altro tempo
e da un altro spazio
che le punzecchia il cervello e le rammenta qualcosa
ormai così perduto, sparito per sempre. Lei smette
di colpirlo e si rimette a bere.
Perché smette? Forse perché ricorda gli anni
di vacche grasse? La storia
che hanno condiviso, resistendo insieme, loro due
contro il resto del mondo? Macché.
Se si fosse davvero ricordata
e quegli anni le fossero caduti diritti in grembo
tutti in una volta, l’avrebbe ammazzato lì, su due piedi.
Magari le si sono stancate le braccia,
ecco perché smette.
E’ stanca, dunque. Lui riprende a bere
come se nulla fosse accaduto. La testa gli duole.
Anche lei torna al suo whisky
senza un parola, neanche l’ormai solito
“bastardo” o “figlio di puttana”. Silenzio.
Lui zitto come un pidocchio. Si tiene il tovagliolo
sotto al naso per tamponare il sangue,
volta lento la testa per guardare fuori del finestrino.
Là sotto, lontano, ci sono le piccole luci delle case
lungo una valle costiera.
E’ già ora di cena laggiù. La gente si accosta
alla tavola imbandita, dice le preghiere
a mani giunte sotto tetti così solidi
che non verranno mai spazzati via –
case dove gente per bene vive, mangia,
prega e tira avanti insieme. Gente che se si alzasse
da tavola e guardasse fuori dalle finestre
della sala da pranzo vedrebbe la luna piena d’autunno
e, appena sotto, come una lucciola, le fioche luci
di un jet di linea. Lui cerca di guardare
oltre l’ala, verso la miriade di luci
della città a cui si avvicinano,
il luogo dove vivono con altri simili a loro,
il luogo che chiamano casa.
Si guarda attorno nella cabina. C’è altra gente.
gente come loro,
maschi, femmine, di un sesso
o dell’altro, gente non del tutto dissimile
da loro – capelli, orecchi, occhi, nasi, spalle,
genitali – Dio mio, perfino gli abiti che indossano
sono simili e poi la cintura
attorno alla vita. Ma lui sa bene che loro due
non sono come gli altri, anche se gli piacerebbe.
Il tovagliolo è inzuppato di sangue.
In testa sente squilli,
squilli a cui non riesce a rispondere.
Cosa mai risponderebbe?
Mi dispiace, non sono in casa.
Se ne sono andati
da qui e anche da lì, tanti anni fa.
Attraversano veloci
l’aria rarefatta della notte, legati da una cintura:
un marito sanguinante
e la moglie, entrambi così pallidi e immoti
che potrebbero anche essere morti.
Ma non lo sono, e questo fa parte del miracolo.
Questo non è altro che un altro passo da gigante
nella oscura esperienza della vita.
Chi l’avrebbe previsto anni prima,
quando le loro mani unite sul coltello
hanno fatto il primo profondo taglio sulla torta nuziale?
E poi un altro ancora.
Chi l’avrebbe creduto?
Chiunque avesse riportato notizie del genere dal futuro
sarebbe stato scacciato a frustate dalla porta.
L’aereo s’impenna,
poi vira di colpo e s’inclina.
Lui le tocca il braccio.
Lei lo lascia fare,
anzi gli prende la mano.
Erano fatti l’uno per l’altra no?
E’ il destino.
Sopravviveranno.
All’atterraggio si daranno un contegno
e si allontaneranno insieme da questa terribile situazione,
devono farlo e basta,
non hanno scelta.
Il futuro ne ha in serbo di feroci sorprese!
di squisite svolte, per loro.
E’ il presente che devono spiegare,
il sangue
che lui ha sul colletto,
la macchia scura che lei ha sul polsino.
***
Noi quattro ce ne stavamo seduti a chiacchierare
quel pomeriggio. Caroline raccontava un sogno.
Di come s’era svegliata
abbaiando, una notte. E aveva trovato il suo cagnolino,
Teddy, che la osservava accanto al letto.
Anche l’uomo che all’epoca era suo marito
ora la osservava mentre raccontava il sogno.
Ascoltava con attenzione. Sorrideva, addirittura.
Però c’era qualcosa nel suo sguardo. Un modo
di guardare, un’espressione. L’abbiamo avuta tutti…
Lui era già innamorato di una donna
che si chiamava Jane,
anche se ciò non implica una critica
a lui, a Jeane o a chiunque altro. Ci mettemmo tutti
a raccontare sogni. Io non ne avevo nessuno.
Fissavo i tuoi piedi, appoggiati sul divano,
in pantofole. Tutto quello che mi veniva da dire,
ma non lo dissi, era come quelle pantofole
fossero ancora tiepide
una sera quando le ho raccolte dal punto
dove te le eri tolte. Le avevo messe accanto al letto.
Ma l’imbottita c’era caduta sopra nella notte
e le aveva nascoste. La mattina dopo le hai cercate
dappertutto. Poi mi hai gridato giù per le scale:
“Le ho trovate!” E’ una sciocchezza,
lo so, una cosa tra noi. Eppure,
una sua importanza ce l’ha. Quelle pantofole smarrite.
E poi quell’esclamazione, quella gioia.
Va bè che è successo un anno fa o forse più.
Avrebbe potuto essere ieri.
O anche l’altro ieri.
Che differenza fa?
La tua gioia!
quell’esclamazione!
***
Quella volta che andai con mio padre in tintoria…
Che ne sapevo allora della Morte? Papà viene fuori
con un vestito nero ricoperto di plastica. Lo appende
sopra il sedile della vecchia coupé e dice:
“Questo è il vestito con cui tuo nonno
lascerà questo mondo”.
“Ma che cavolo stava dicendo?” mi chiedevo.
Toccai la plastica,
il bavero liscio di quella giacca
che stava per partire insieme a mio nonno.
A quei tempi era un mistero.
Poi ci fu un lungo intervallo,
un periodo in cui parenti morivano
da una parte e dell’altra, a destra e a manca.
Poi fu la volta di mio padre.
Sono rimasto seduto ad osservarlo
mentre si levava dal suo stesso fumo.
Non ce l’aveva lui un vestito,
perciò lo agghindarono orribilmente
con una giacca sportiva da due soldi
e una cravatta per l’occasione.
Gli cucirono le labbra
in un sorriso come se volesse rassicurarci.
“Non vi preoccupate,
non è poi così brutto come sembra”.
Ma noi lo sapevamo bene.
Era morto, no?
Cosa gli poteva capitare di peggio?
(Anche le palpebre gli avevano cucito,
così non avrebbe dovuto assistere
a quell’orribile spettacolo.)
Gli toccai la mano.
Fredda.
La guancia dove qualche setola di barba
era spuntata lungo la mascella.
Fredda.
Oggi ho ripescato
questi ingombranti ricordi dalla memoria.
Solo un’ora fa o poco più ho ritirato il mio, di vestito,
dalla tintoria e l’ho appeso con cura
sopra il sedile posteriore.
L’ho portato a casa,
ho aperto la portiera della macchina
e l’ho tirato fuori al sole.
Sono rimasto lì un attimo
per strada, con le dita strette sulla stampella di ferro.
Poi ho fatto un buco nella plastica
da una parte e dall’altra.
Ho preso una delle maniche vuote tra le dita
e l’ho tenuta per un po’:
quella stoffa ruvida…
palpabile.
Sono arrivato a toccare l’altra parte.
***
Nell’aria greve
dell’aroma dei crochi,
dell’odore sensuale dei crochi,
guardo un sole limone scomparire,
un mare da blu
diventare nero oliva.
Vedo fulmini balzare dell’Asia
mentre nel sonno
il mio amore si agita e sospira e poi
si riaddormenta,
parte di questo mondo eppure
parte dell’altro.
***
Cristo incombe minaccioso sulle nostre teste
mentre tu fai commenti su questo e quello.
La tua voce
aleggia ancora in quelle stanze vuote.
Vacillando per il desiderio, ti seguo
fuori tra ruderi di mura. Il vento
s’alza incontro alla sera.
Vento, sei molto in ritardo.
Vento, lascia che ti tocchi.
Sera,
è tutto il giorno che t’aspetto.
Sera tienici stretti.
E la sera infine affonda.
E il vento corre ai quattro angoli.
Le mura sono sparite.
E Cristo medita sopra le nostre teste.
***
Ho sempre desiderato far colazione
con trota di ruscello.
D’un tratto scopro un nuovo sentiero
per arrivare alla cascata.
Allora m’affretto.
Svegliati,
dice mia moglie,
stai sognando.
Ma quando provo ad alzarmi
la casa s’inclina.
Chi è che sogna?
E’ mezzogiorno, mi dice.
Scarpe nuove mi aspettano alla porta
lucide a specchio.
***
Senza fede siamo arrivati qui
stamattina a stomaco vuoto
e a cuore vuoto.
Apro le mani per farle smettere
di supplicare stupidamente e invece
si mettono a colare sulle pietre.
Una donna accanto a me scivola
sulle stesse pietre e sbatte
la testa contro la volta della grotta.
Alle mie spalle il mio amore registra
tutto su pellicola a colori, tutto
fin nei minimi dettagli.
Ma guarda!
La donna mugula, si rialza in piedi
e scuote la testa: benedice
quelle stesse pietre mentre noi fuggiamo
da una porta laterale.
Più tardi riguardiamo il film più e più volte.
Vedo la donna cadere
e rialzarsi e cadere
e rialzarsi e gli arabi guardare di malocchio la cinepresa.
Signore francamente
mi sento inutile qui,
in Terra Santa.
Le mie mani soffrono in questa luce accecante
camminando avanti e indietro lungo
la riva del Mar Morto
insieme a un uomo di trent’anni.
Vieni, Signore. Assolvimi.
Troppo tardi sento la pellicola scorrere
e registrare tutto.
Guardo nell’obiettivo.
Il mio sorriso si fa di sale. Sale
qui dove mi trovo.
***
Non accorrerò quando chiamerà
anche se mi dirà ti amo,
specialmente se lo dirà giurando
e non promettendo altro che amore.
La luce in questa stanza copre ogni cosa:
neanche il mio braccio fa ombra
anch’esso consumato dalla luce.
Ma questa parola amore,
questa parola oscura s’appesantisce,
si scuote, comincia
a farsi strada coi denti, con brividi e convulsioni
su questo foglio
finché anche noi scompariamo quasi
nella sua gola trasparente e siamo ancora
separati e lucidi.
***
Dalla sottile valigetta escono
mappe di tutto il mondo:
deserti, oceani,
fotografie, disegni…
c’è tutto, è tutto lì,
basta chiedere
mentre le porte si spalancano, si chiudono
o sbattono.
Da solo
in stanze sempre vuote,
ogni sera, mangia,
guarda la televisione, legge
il giornale con una passione
che comincia e finisce sulle punte delle dita.
Dio non esiste
e la conversazione è un’arte ormai morente.
***
Era il tramonto, a sera avanzata. Era la stagione
in cui il grano cominciava a spigare e i campi
erano pieni di fiori – fiori che chinavano il capo
man mano che la notte avanzava,
la notte che veramente indossava
il suo “manto di tenebre”.
Si apparecchiavano tavole fuori;
candele accese venivano sistemate sui peri in fiore
dove, tra poco, avrebbero aiutato la luna
ad illuminare i festeggiamenti per il ritorno.
Lui continuò ad ascoltare quella voce acuta e folle
sul nastro. “Richiamami”, ripeteva più volte.
Ma lui non l’avrebbe richiamata. Non ci riusciva.
Era meglio non farlo. Lo sapeva. C’erano già passati.
Il suo cuore, che pochi minuti prima del messaggio
era stato pieno di passione
e, almeno per qualche minuto, dimentico e inerme,
si ritirò nel suo cantuccio
fino a ridiventare soltanto un muscolo
grande come un pugno
che compiva il suo dovere senza gioia. Che poteva fare?
Uno di questi giorni lei sarebbe morta
e sarebbe morto anche lui. Questo lo sapevano bene
e su questo erano ancora d’accordo.
Ma anche se molte cose
erano successe ormai nella sua vita,
era da molto che lui sapeva che sarebbero morti separati
e lontani l’uno d’altra, nonostante i giuramenti
che si erano scambiati da giovani.
Uno di loro due
poteva addirittura morire nella follia,
completamente fuori di testa.
Questa sembrava una possibilità concreta adesso.
Poteva succedere qualsiasi cosa. Che si poteva fare?
Niente. Niente, niente, niente.
Non riusciva neanche più a parlarle.
Non solo – aveva paura di parlarle.
La considerava ormai pazza.
Richiamami, aveva detto lei.
No, non l’avrebbe richiamata. Rimase lì a pensare.
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