Anna Achmatova

 

Sto in ascolto,

come al suono di voci lontane,

ma non c’è d’intorno nulla, nessuno,

e voi deponete il suo corpo

in questa nera, buona terra.

Né granito, né salici

faranno ombra al suo cenere lieve,

soltanto i venti marini del golfo

giungeranno volando, per piangerlo…

 

 ***

 

Tu verrai comunque: perché dunque non ora?

Ti attendo, sono sfinita.

Ho spento il lume e aperto l’uscio

a te, così semplice e prodigiosa.

Prendi per questo l’aspetto che ti aggrada,

irrompi come una palla avvelenata

o insinuati furtiva come un bandito

o intossicami col delirio del tifo

o con una storiella da te inventata

e nota a tutti fino alla nausea

che io veda la punta di un berretto turchino

e il capopalazzo pallido di paura.

Ora per me tutto è uguale;

turbina lo Eniséj,

risplende la stella polare;

e annebbia un ultimo terrore

l’azzurro bagliore di occhi adorati.

 

 ***

 

Bevo a una casa distrutta,

alla mia vita sciagurata,

a solitudini vissute in due,

bevo anche a te:

all’inganno di labbra che tradirono,

al gelo dei tuoi occhi,

ad un mondo crudele e rozzo,

ad un Dio che non ci ha salvato.

 

  ***

 

Già ha coperto la follia

metà dell’anima con la sua ala

e un vino di fuoco mesce

e chiama in una valle nera;

e io ho compreso che devo concederle la vittoria,

dando ascolto al mio delirio

come se fosse ormai di un altro.

E nulla consentirà che io porti via con me

(per quanto possa implorarla

e annoiarla con le preghiere):

né gli occhi del figlio

impietrito dal dolore

né il giorno in cui venne la bufera

né l’ora dell’incontro in prigione

né il dolce refrigerio delle mani

né le ombre scosse dei tigli

né, come un lontano suono lieve,

le parole dei conforti estremi.

 

 ***

  

Il cuscino scotta già

da entrambi i lati

e già la seconda candela

si spegne e si fa più acuto

il grido delle cornacchie.

Non ho dormito questa notte

ed è ormai tardi

per pensare al sonno.

E’ intollerabilmente bianca

la tenda alla bianca finestra.

 

 ***

  

Ti hanno condotto via all’alba,

ti andavo dietro come ad esequie,

nella buia stanza piangevano i bambini,

gocciava il cero sull’altarino.

Sulle tue labbra il freddo dell’icona.

Un sudore di morte lungo la fronte…

Non si scorda!

Come le mogli degli sterlizzi ululerò

sotto le torri del Cremino

 

***

 

Davanti a questa pena piegano i monti,

non scorre il grande fiume,

ma sono saldi i lucchetti del carcere,

dietro di essi  le tane dell’ergastolo

e un’angoscia mortale.

Per qualcuno alita fresco il vento,

per qualcuno si strugge il tramonto,

noi non sappiamo,

siamo ovunque le stesse,

sentiamo solo stridori odiosi di chiavi

e pesanti passi di soldati.

Ci si levava come a una messa mattutina,

si andava per un’inselvatichita capitale,

lì ci si incontrava più inanimate dei morti;

il sole più occiduo

e la Nevà più brumosa,

ma da lontano canta sempre la speranza.

La sentenza…

E subito sgorgano lacrime;

ormai separata da tutti,

come se dal cuore con dolore le strappassero la vita,

come se rozzamente la stendessero supina,

ma cammina…

vacilla…

sola…

Dove sono ora le amiche involontarie

dei miei due anni infernali?

Cosa scorgono nella tormenta siberiana?

Cosa intravedono nel disco della luna?

A loro io mando il mio addio.

 

 ***

  

Sulla dura cresta di un rialzo di neve

verso la tua bianca, segreta casa,

procediamo in un trepido silenzio,

così tranquilli, tutti e due.

Più dolce di ogni canto che ho intonato

è per me questo sogno che si avvera:

il vibrare dei rami che sfioriamo

e il suono lieve dei tuoi speroni.

 

 ***

  

Né mistero né dolore

né volontà sapiente del destino:

sempre quell’incontrarci ci lasciava

l’impressione di una lotta.

Ed io, indovinato dal mattino

l’attimo del tuo arrivo,

percepivo nei palmi socchiusi

il morso leggero di un tremito.

Con dita arse gualcivo

la variopinta tovaglia del tavolo…

capivo fin da allora

quanto è angusta questa terra.

 

  *** 

 

Con semplice cortesia

mi si fece incontro e sorrise.

Tra pigro e carezzevole

mi sfiorò la mano con le labbra.

Mi fissò con occhi misteriosi

come quelli delle immagini sacre.

Dieci anni di grida soffocate,

tutte le mie notti insonni

chiuse nella parola sussurrata,

parola detta invano.

Te ne andasti.

E di nuovo l’anima è deserta e chiara.

 

*** 

 

Sentirai il tuono e mi rammenterai,

penserai: desiderava la bufera…

Sarà una striscia di cielo accesa di rosso

e il cuore come allora in fiamme.

  

  ***

 

Questa città a me cara dall’infanzia

nel suo silenzio di dicembre

oggi mi è parsa simile alla mia eredità sperperata.

Tutto ciò che veniva spontaneo,

che era così facile rendere,

calore dell’anima,

suoni di preghiere

e la grazia divina del primo canto,

tutto si è dissolto come fumo diafano

ed è imputridito nel fondo di specchi,

ed ecco ormai su ciò che è irrevocabile

il violinista senza naso ha preso a suonare;

ma con curiosità di forestiera

io guardavo le slitte guizzare

e ascoltavo la lingua materna

e con freschezza, con vigore

mi soffiava in viso la felicità,

quasi l’amico diletto da secoli salisse con me

sul terrazzino d’ingresso.

 

***

 

Ieri aprii la segreta

del leggero mio prigioniero.

Ai boschetti resi il cantore.

Resi  a lui la libertà.

Egli scomparve annegando

nello splendore azzurro del giorno.

E prese a cantare volando via

come se per me pregasse.

 

 

 

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