MATER DOLORIS

mama de sa suferentzia

parte II

di Giovanna Mulas

 

-Hmmm hmmm. Papà ha detto che era appartenuto ad un ebreo  che aveva dipinto l’interno coi simboli della sua fede. Quando voleva pregare, di nascosto di tutti, lo apriva e VOLA’-

-Voilà. Si dice voilà-

-Vabbè.Volà.-

-Quel canterano era il segreto dell’ebreo. Era la sua libertà, capisci Virgi?-

-Allora non sarebbe male avere un nostro segreto-

- No, se può servire a renderci libere-

-Lei non lo fa perché è cattiva. E’ solo molto…malata. Sono sicura  che basterebbe che si curasse un poco. Appena un poco-

-La sua non è una malattia che può essere curata,Virgi. La si ha e basta. L’altra sera ho sentito dire a quell’idiota di Vincent Cody che la…pazzia-

-MAMMA NON E’ PAZZA!-

-Vincent ha detto che suo padre aveva ricoverato il fratello per lo stesso, identico motivo…perché aveva cominciato a dire e fare cose che non si dicono e non si fanno normalmente. Gli erano scappate fuori le sacrosante rotelle, ecco. Ha detto proprio così: gli erano scappate fuori le sacrosante rotelle, a quel pazzo ubriacone di mio zio. E l’hanno rinchiuso in una stanza coi Muri Senza Rumore-

-Mur…?-

-Già. Perché così le sue urla non si sentissero fino a fuori. Eppoi ha pure detto che la pazzia è una cosa ereditara. E così, adesso, Vincent sta bene attento a non far perdere la bussola a suo padre che non si sa mai che gli scappino fuori le rotelle pure a lui-

-Allora anche noi dobbiamo stare attente a non far perdere la bussola a mamma-

-Noi dobbiamo scappare, Virgi-

-Non possiamo lasciarla sola. L’ha già fatto nostro padre e mamma dice che starà danzando all’inferno, per questo, adesso-

Sandy Ann scrutò l’ultima canoa all’orizzonte e la scia morbida, istantanea e fluttuante sulle acque.

-Papà non è all’inferno, stanne certa. E’ una persona debole…si dice debole di carattere, Virgi-

L’altra, che alla figura trista e perennemente curva del padre per istinto non era mai stata realmente affezionata; fece spallucce.

-Io sto con lei-

-Non l’aiuteremo a stare meglio, così. Bisogna farla curare-

-Abbiamo undici anni, Ann! Undici!-

-Ho accennato qualcosa alla signorina Jefferson-

-COSA HAI FATTO?-

-Lei ci aiuterà, ha parlato…-

-COSA HAI FATTO, ANN?-

-Ha parlato di affidamento temporaneo. E’ una cosa per la quale ti portano in un’altra…famiglia-

-…Avevi promesso, Ann…AVEVI PROMESSO CHE NON NE AVREMO FATTO PAROLA MAI CON NESSUNO!-

-Ascoltami…ha detto che ci porteranno in una famiglia più sicura, adatta ad uno sviluppo psico fisico sano del bambino e…-

-COSA HAI FATTO JO…SE LO SA LA MAMMA!-

-Virgi, è una cosa TEM-PO-RA-NE-A!!! Significa svelta, veloce ecco. Il tempo che nostra madre stia meglio e sia in grado d’accudirci-

forse

-L’hai detto prima che non starà MAI meglio, tu…TI SEI FIDATA DI UN’ESTRANEA, ANN!-

-Non è un’estranea. E’ la nostra insegnante. Ed è la persona più buona che io abbia conosciuta-

-Si, ma…-

-Giura che TU  ti fiderai di me. Ti prego, Virgi-

La bambina ciondolò la testina scura e le trecce fatte con tanta attenzione oscillarono sulle spalle gracili.

-Cosa le faranno?-

-Miss Jefferson ha detto che verrà curata da specialisti e ha detto che, per come vanno queste cose, è un bene per entrambe le parti che ci allontanino da lei. Ha detto che non è bello che ad ogni marachella lei ci faccia passare

(-…vi fa passare intere notti chiuse in cantina, al buio? Ho capito bene, tesoro? Ann?-

-S…si.-

-No, non piangere bambina…Oh Signore, vieni tesoro, su. Sei con me,adesso-

-Se i miei compagni lo…sapessero io…-

-Sono in cortile per la merenda, siamo io e te sole,Ann; non ti sentirà nessuno se non lo vuoi-

La signorina Jefferson era cerea adesso. Le labbra contratte e violacee e gli occhi sbarrati pareva invecchiata di vent’anni d’un solo colpo.

-Vi vedevo infelici, bambina mia, e pensavo che fosse colpa dei problemi economici legati alla partenza di vostro padre…dovevo capirlo prima!-

(non si dice sempre così in questi casi?”Dovevo capirlo prima”, prima che accadesse, prima che il male spezzasse in due corpo ed anima innocenti, prima che…prima che…)

-Ascoltami bene, Ann.Non sarà facile,tesoro, ma degli assistenti sociali vorranno parlare con voi, farvi visitare e tu, VOI dovete assolutamente dire tutta la verità. In caso contrario nessuno sarà in grado d’aiutarvi-)

-E noi?-

-Dice che è probabile che temporaneamente (ma può darsi di no!) ci affidino a due…due famiglie diverse-

-NO!-

-Dàmmi la mano, Virgi-

L’altra si voltò verso le catapecchie che affollavano la spiaggia, immusonita.

-No-, ripetè in un soffio.

-Rammenti ciò che ti ho detto, Virgi? Io e te siamo legate ed il nostro è un filo magico. Dài, facciamo il gioco del pensiero-

-No-

-Ti prego, Virgi-.

Allora Virginia strizzò gli occhi ed il lago e le catapecchie e le canoe sotto il tramonto scomparvero come anche la figura rassicurante della signorina Jefferson e quella spaventosa di sua madre.  Il pensiero schioccò veloce, fulmineo come una frustata che colpì Sandy Ann in ogni fibra:

Ti voglio bene.

Ann sorrise ad occhi chiusi, scuotendo la zazzera scura.

Anch’io Virgi ma non devi dire nulla alla mamma lei non sarebbe d’accordo e’ il nostro segreto è la nostra libertà Virgi.

Virginia riaprì gli occhi esausta.

-Andiamo?- fece Ann.

-Hai detto che la pazzia non può essere curata-

-Eh?-

-Prima mi hai detto che la pazzia non può essere curata. La si ha e basta. Hai detto proprio così. MI HAI RACCONTATO UN SACCO DI BALLE ANN! E la signorina Jefferson è una bugiarda peggio di te…ti…ti ho letto bene prima, dentro…c’era scritto…c’era scritto che mamma non può essere curata!  E’ una certezza, vero Ann? VERO?-

-Io…è per il nostro bene. Lo capisci questo? E’ per noi!-

-E a lei non ci pensi?-

-In uno scatto d’ira potrebbe ammazzarci…metti che non riesca a controllarsi e che da un momento all’altro non le basti più buttarci in mezzo ai topi…metti che accada!-

-Io starò con lei-

-VIRGI!-

-Starò con lei, Ann. Ha bisogno di me-

-Gli assistenti soc…-

-Appena torno a casa le dico la verità. Mi porterà a Londra, nella casa di città dei nonni, lo so. E’ da molto che lo vuole fare…portarci tutte e due lì. Gliel’ho letto tante volte-.

Virginia arrossì violentemente. Spiò la sorella con sguardo timido e fiducioso.

-Non devi dire alla Jefferson dove può trovarci-

-Cosa?-

-Non voglio. Vieni con me,vieni con noi Ann. Siamo una famiglia!-

Ho bisogno di te

-Non posso. Non chiedermelo, io…non posso. Non rientro a casa,Virgi. Stanotte dormo dalla signorina Jefferson. Le avevo dato la mia parola che saremmo andate da lei assieme-

-E mamma?-

-Non se ne accorgerà neanche-

-A modo suo lei ci ama-

-Ci fa del male, Virgi. Come la nonna l’ha fatto a lei…addio-

-Mi…mi lasci così?-

-S…si. Buona fortuna.-.

Sandy Ann accennò qualche passo, tirando calci ai sassetti bianchi sulla rena. Si voltò. Corse incontro alla gemella.

-Chiudi gli occhi, Virgi- le intimò, e l’altra li chiuse, strizzandoli fino a farsi male.

Sarò sempre con te.

Le strinse la mano per l’ultima volta. S’allontanò trotterellando, pulendo rabbiosa le lacrime colle mani chiuse a pugno.

Non lasciarmi Ann

Oddio Ann ti prego

Pensaci bene, pensaci ancora Ann

Pensaci ancora

Ann.

Percorse circa tre miglia di sentiero sabbioso ed evitando le baracche in cartone e lastre sbilenche di legno marcio divise dal lago da un reticolato spinato, prima che le implorazioni di Virginia smettessero di saettarle il cervello.

Passò all’asfalto bene attenta nell’attraversare correttamente da un ciglio all’altro del marciapiedi. Camminò per una buona mezz’ora lasciandosi alle spalle la stazione ferroviaria, un parco giochi incolto, due pub e la Caffetteria Italiana ( solo qui The Very Italian Capucino!), i palazzi degli sfrattati, monotoni e sporchi, disposti in fila, uguali. Trotterellò fino alla casa su due piani della signorina Jefferson, circondata da un fazzoletto di terra rossa coltivata a lilium ed edera rampicante. Sandy Ann si morse il labbro inferiore. Era stanchissima, certo che si. Se le avessero dato un letto avrebbe dormito tre mesi di fila se per tre mesi di fila è possibile dormire. Ma era anche preoccupata per Virgi. Erano sorelle gemelle ma delle due Ann era sempre stata la più indipendente, la più forte. Quella che se c’era da prendersi una bastonata sulla schiena se l’addossava, pur di risparmiare un ennesimo dolore a Virginia. Ora che lei era andata via (scappata) cosa sarebbe accaduto a sua sorella? Come avrebbe sfogato la rabbia cieca sua madre, questa volta? Il pensiero la fece inorridire. S’affrettò a salire gli scalini legnosi, bussò così forte al portoncino laccato di verde da farsi male alle nocchie. Non avrebbe dovuto. Non avrebbe dovuto lasciare Virgi sola; avrebbe dovuto trascinarla con sé, volente o nolente.

Era stata una bambina cattiva, si.

Si era fatto molto caldo e l’aria brulicava di api.

Sandy Ann lanciò un’occhiata di lato, fissando lo sguardo sulla facciata di specchi di un albergo e all’impeccabile portiere che, in marsina, sorrideva ad una vistosa donna bionda in Porsche, in sosta dinanzi l’ingresso. Ann sentì uno scorrere di chiavistello e la porta, finalmente, si aprì. La figurina esile di Stephany Jefferson s’inquadrò sulla soglia. A Sandy Ann sfuggì un sospiro troppo sommesso per essere un gemito; qualunque debole opzione della signorina, in quel momento, l’avrebbe fatta scoppiare in un pianto disperato. Ma l’altra sorrise e allargò le braccia. Ann ci si tuffò in un ansito convulso, aspirando beata il dolce profumo di vanillina e biscotti cotti al forno.

-E Virginia?-

-Non ha voluto seguirmi-

-Mmmmh. Andremo noi a prenderla. Non devi avere più paura,Ann. Farò tutto il possibile per aiutarvi…hey? No, piccola. Non piangere-. Stephany Jefferson raccolse delicatamente il visetto spaventato e pallido di Sandy Ann tra le mani.

-Che ne dici di una bella tazza di cioccolata calda con una montagna di panna sopra?-

La bambina acconsentì docile, indugiando rigida come un ciocco di legno, le pupille dilatate. E l’insegnante fu assalita dal desiderio di cancellarne completamente, con un abbraccio ed un colpo di spugna il passato. Ma non era possibile. Poteva però aiutarla ad affrontare serenamente il futuro. Questo si; questo le era consentito visto che in un certo senso considerava quella bambina come un dono del cielo; l’unico, da quando sette anni prima aveva perduto il marito ed il loro bambino di appena dieci mesi in un terribile incidente stradale. Aveva cambiato stato, lavoro ed abitudini di vita ma non era bastato a cancellare il resto. Stephany Jefferson sapeva benissimo quanto, a volte, la vita può rivelarsi crudele.

-Vieni dentro, tesoro-, insistette, -C’è una persona che desidera scambiare quattro chiacchere con te. E’ il signor Edmonds; l’assistente sociale di cui ti ho accennato ieri in classe. Prenderà la cioccolata con noi, che ne dici?-. Ann annuì stancamente e la signorina Jefferson fu decisa e ferma e sicura : -Aiuteremo anche Virginia. Non aver paura, ci sono io vicino a te-.

Gli occhi della bambina divennero vacui e il pallore si fece mortale, le guance si colorirono di due chiazze rosse e febbricitanti.

-Ann?!-

-Non si può più fare niente per mia sorella.

E’ lontana, adesso.

E’ troppo lontana…-, cantilenò Sandy Ann.

E svenne.

 

 

DE  SA

  “Bentu, tue chi carinnas custa terra ischidada dae su sole

Chi bessit intra sos montes.

Sas perdas antigas ti connoschen bene e si lassan

Mudare a intro e a foras.

Bentu che s’alenu de Deus ses durche che fortalesa

De Deus ses poderosu.

Bentu làssa-ti inténdere che a melodia ca est sa boghe de Deus,

sa ch’intendo a intro de mene.

Tue ses un’alenu ch’incrispat su mare comente alenu divinu

Chi baddat subra s’abba.

Ispiritu fogosu chi faghes trémere irriga s’àrbure dae sa terra.

Bentu, tue chi carinnas custa terra ischidada dae su sole…” .

 

   Ventiquattr’ore prima che l’alluvione avesse la meglio su uomini, bestie e campi come un castigo del Signore, - e castigo era stato anche per colpe mai commesse, neppure pensate- correva il 1951, in Santu Aine*, e dopo che per settimane intere il sole aveva spaccato s’ Oleastra*, sa terra mea amada*, in sul colle di Santa Maria di Navarra* affondata nei rosmarini e le lavande; la pioggia aveva preso a scendere malinconica e continua, molesta, nauseante. Thia Elvira l’ ammentava* come fosse ieri: i cavalli dietro i recinti e le pecore s’erano fatti strani; fizos ‘e su dialu*, grugniva suo marito. E figli del demonio parevano davvero gl’ irrequieti; scalpitanti, furiosi i primi e balentesbelanti* le seconde, dengosas*, una attaccante l’altra, sovrastarla di spinte autocrati, snaturate. Pressate, le zampe anteriori ad inanellare ciottoli e sabbia, la lingua di fuori e pupille grifagne, mammelle vuote di un latte che sapeva d’ acqua; malumaladiu*, saliu*. Elvira aveva anche chiamato Padre Pasquale per darci una benedizione a tutti quanti, casa compresa, ma non era servito a niente. La Madre vedeva –ed eccola col ricordo riportata lì, al secondo canto di gallo in cima alla collina dove poggiava sa domo Mele ed i bulbi d’aglio appesi all’ingresso principale a code lavorate a treccia, la tavola coi fichi secchi e le cipolle sopra, agli angoli, un paniere di uova di seconda scelta ( le invendibili al mercato chè troppo piccole) a dare il benvenuto ad ogni visitatore di buone intenzioni- oltre quel podere chiuso da siepi, alberelli di mirto e corbezzoli, ed i monti intorno, corone danzanti striate di giallo/purpureo a quell’ora,austere, prospicienti alle coste; il grasso prete impettito e severo sbucare dalla selva di querce, carrubi, roveri e lecci col breviario stretto a croce e paramenti, stanco di sicuro, su meschinu*, delle troppe opere buone già compiute (l’orlo del camice, visto da lì ed Elvira ci vedeva assai bene, andava imbastito meglio, strisciava su terra e di quando in quando, in acqua. Domenica, prima ‘e sa missa,* gliene avrebbe cantato all’orecchio a thia Magenta Deriu)e  a testa china, sofferto come un Cristo in passione. Eccolo percorrere con la scorta di chierichetti saltellanti e vociosi (unu fiat Angelu, su fizu piticu de Adelina Tilloca e del pastore Nanni Boi che collezionava curiosi idoletti in bronzo raccolti in tempi diversi nella terra dove tracimavano le pecore*. Padre Pascale gli diceva ad ogni confessione che quegli idoletti erano peccato, nella forma ignuda e bellicosa e fiera, e nella morale.E andavano “Resi alla giustizia”, ricoverati in un qualche museo casteddaio, insomma.”E probabilmente, Nanni meu, per ricoverarli ti daranno moneta di che camparti.”. Nanni non capiva perché per ricoverare le sue statuine, e quindi per fargli un favore, qualcuno avrebbe pagato. Quando avevano ricoverato thia Millia in ospedale da ricchi a Roma, in su continente, perché la sua testa non funzionava più in grazia di Dio e aveva presa l’abitudine di correre per le mulattiere, la notte, scalza e senza fazzoletto a coprire i capelli; era stato lui ed i suoi sette fratelli, unici eredi diretti, a dover pagare. E salato, pure. Perciò la cosa non gli suonava bene. Così sosteneva che se Iddio glieli aveva fatti trovare, allora voleva dire che quei bronzetti, quelle statuine, doveva tenersele in casa. Angelu, di Pascale, s’era messo in capo di seguirne le orme;ed ora appunto lo faceva con un sacco caricato sulla schiena) il sentiero che procedeva a serpe per la campagna confinando con gli erriargius* ed il timido Riu* de Preda, al pascolo le greggi di capre all’osso. Giù, dove l’occhio arrivava a fatica, l’impronta della strada statale a collegare Ogliastra e Barbagia, sos sirbones* come formiche diffidenti e radure e arbusti di lentisco e oleandro. Ancora voltando a sinistra, cicatrice tra ulivi e ulivastri,  il passaggio a livello delle ferrovie complementari e la cantoniera tenuta da Lillino Pisanu, fornitore di carne all’unica macelleria de Lanusei . Dal canto suo sfiancato dagli sbuffi, vuoi per l’età, vuoi per la pancia prominente, vuoi per la ripidità della salita; Padre Pasquale “peppeddu” Deriu non poteva dire a quei figli del Signore dal cuore semplice e povero quanto le tasche che durante la notte era stato, nel giro di cinque ore, a benedire altri sette ovili per scacciarne le paturnie ai padroni. E ognuno dei suoi parrocchiani aveva ringraziato come poteva. Pure Maria Vittoria Contu nominata “Sa calledda”, la cagna, ché bella come il fuoco ( fuori della luce del Signore e dentro quella di qualcun’ altro, più di uno si diceva in paese) aveva voluto ringraziarlo per la benedizione alle tre capre a modo suo, non avendo altro. Ma Padre Pasquale che non conosceva peccato, alla tentazione del demonio aveva fieramente resistito, senza sapere di resistergli.

“Datevi una sistemata alle vesti o prenderete freddo, Maria Vittoria”.

E la donna, che degli uomini  assieme alle varie misure di piede e quant’altro ne conosceva anche quelle del cervello,variabilissime; aveva sorriso alzando gli occhi al cielo e calando le gonne, e fatte spallucce. Aperta la dispensa , una forma di casu marzu ne aveva tirato fuori e infilatala lestra nel sacco di Angelu Tilloca.

“Siete anima buona davvero voi, Pascà.”.

Si. Don Pasquale era anima pura, dopotutto. L’ unico neo che poteva vantare il curriculum celeste era quello legato alla gola. Ma uomini siamo e che caspita, preti o non preti. Dunque don Pasquale, ultimogenito del tenente medico Tonino Deriu, ucciso in Libia nel 1911 nell’assolvimento del proprio dovere; sorrise fissando più che la schiena di Angelo Tilloca –destinato anche lui, come gli aveva confessato in occasione della festa della Madonna delle Grazie di Ilbono*, a povertà e astinenza-  il sacco di cibarie caricato sopra. La sua vecchia madre sarebbe stata contenta, pro dominiga*, de mannicare porceddu* buttato a tranci disordinati in su taggéri*, tacculas* e miele ancora nei favi, di cardo e asfodelo, l’amaro di corbezzolo di Melchiorre Cannas, avvezzo a pressare la cera in un recipiente da ricotta di forma tronco/conica schiacciata. Il Cannas, riflettè don Pasquale, che ogni anno dava a gratis le candele senza stearina a chiesa, fedeli e padre Pascale, Dio l’abbia in Gloria. Pure in casa a quella povera femmina perduta di Maria Vittoria, s’incaricava di portargliele personalmente.

Miele e binu bonu; rubizzo e rubino,reduce della fillossera di quell’anno infame.

“De su mundu in generali/ses vera speranza e vida,/Ses, Maria, conzebida/Senza culpa originali./Eva su primu peccau/fait po pagu obbidienzia,/Sa Divina Onnipotenza,/Hat a Tui preservau:/E cun tui hat riparau/Sa ruina universali…”. Hmmmh. Siii, si. Duncas  pro Pascale Deriu  e gratzias a Maria, a su Signore e sos cristianos in primis fiat fatta sa jerronada sua*.

Aveva cominciato il vento, appena passato il tramonto, quello appresso la visita di Don Pasquale. Elvira tornava dal paese in calesse con Anna addormentata sulle ginocchia che sobbalzava mesta ad ogni affossamento del sentiero ghiaiato, avvolta nello scialle di lana nero che la copriva fino alle caviglie. La madre le teneva la mano libera sopra, carezza voluta ma involontaria che si spostava ora sul viso magro della bambina, ora sui capelli raccolti a treccia, ora sulle spalle di sonno inquieto. Aveva assistito fino a tardi Giuseppa Serra al parto della terza figlia, un’altra femmina (“tra qualche mese ci facciamo su mascru*, aveva dichiarato con solennità religiosa Vincenzu Nonnis, sollevando il corpicino nudo e piangente al cielo, ché tuttiisantidelparadiso potessero soffiargli in cuore ognuno la sua benedizione. Anna, alla vista della nuova cugina, aveva saltellato per tutta la camera spoglia, odorosa di alcool.Poi si era fermata a scrutare assorta l’Elvira. “Perché piangi, mamma?” “ perché grazie a Dio è andato tutto come doveva andare. Ora usciamo  di qui…puru tue, Vincè*. Giuseppa e la sua bambina devono riposare.”. L’uomo aveva tirato fuori dalla cantina il suo vino migliore e, stappata la bottiglia davanti ai compari Milia e Cabiddu, in orgasmo quanto lui e senz’altro più per la beozia* che per la venuta al mondo di un’altra bocca da sfamare e neppure produttiva; aveva versato da bere a tutti, donne, parroco e bambini compresi.). Il parto di Giuseppa era stato lungo, e difficile.

Il cavallo s’era arrestato all’improvviso in mezzo al sentiero. Aveva rizzato le orecchie, odorato l’aria e sbuffato, scalciato a vuoto. 

S’ era alzato, Eolo, che pareva un rigurgito d’aria, fiato bonaccia da prossima quiete; eppure, subito, quello stormire di foglie e l’orizzonte scomparso alla vista ( neoplasia di caligine l’avvolgeva), lo squilibrio delle bestie, erano già epifania di demoni per le contrade a ballare e ululare, a scornarsi d’orge crescenti di Satiro e Ninfe. Elvira aveva tremato; la pelle sua sentiva ciò che la mente non invasava ( e l’ Janas i piccoli capi coi diademi celavano negl’antri sicuri da uomini e tempi).

Ssssssssssssh, soffiava il vento. Nella cucina di thia Bonaria Canu fu Francesco, di anni 66; la padrona di casa, d’intelligenza vivace e lingua lunga, s’inginocchiava nel pavimento in preghiera, segnandosi. Nonostante l’ora tarda e la mole s’alzò lestra, raccolse come stabilito sa tascedda de pistadorgiu*, versò all’interno una grossa manciata di ghiande sgusciate,le lande ‘e perra dalla quercus ilex, serbate ad asciugare per l’occasione per 21 giorni in una sporta appesa al caminetto. Prese il sacco per l’imboccatura ripiegata, lo battè con forza sullo scalino di pietra della cucina e la gatta e i gattini attorno fecero ala, indolenti. Bonaria aprì sa tascedda, verificò che la camisòla* fosse staccata del tutto dai frutti.Richiuse il sacco, battè, e battè ancora. Col grembiale tamponò il sudore dalla fronte, versò le ghiande in un caddargiu e a parte, in un impastera*, del torco*, raccolto dalla cava di Bau ‘ Porcu. Con la tulla agitò il contenuto per sciogliere i grumi, aggiungendo acqua. Ecco, l’infuso schiumoso di Bonaria è color caffellatte. Parte di questo liquido –grazie al colatori* ed una murga di unundenti de linu*- finisce nella caldaia, a vestire le ghiande. La vedova scruta oltre i vetri della finestra; (e da questo momento comincia la cottura vera e propria. Il colore delle ghiande da rosso mattone diventa nero) al vento e la pioggia che batte incessante da troppe ore. Non aveva mai conosciuto in vita sua una pioggia così. Se tutto va bene e se Dio vuole, per domenica, i nipotini in visita dal continente assaggeranno focaccine di lande cottu* e Bonaria farà loro credere di averle fatte con le prugne secche e non col cibo dei maiali*, come faceva con Giacomo suo figlio e padre dei ragazzi. Si. Se Dio vuole.

SSSSSsssh, parlava il vento a streghe e folletti e i bambini sotto le coltri di lana grezza e la cenere nel focolare che dormivano accovacciati l’uno all’altro per darsi calore (Elvira frustò il cavallo, lo frustò ancora)e Frantziscu de Loceri serrava i recinti a doppia mandata e guardava giù della valle, a bucare, sondare quell’angolo tra buio e nebbie dove sua moglie riparava.La ripensò, chissà perché, durante il periodo del loro fidanzamento e prima (“Francesco ha da farti una domanda”, aveva detto ad Elvira sua suocera, seduta in mezzo a loro, ed Elvira aveva scrutato il giovane soldato con aria timorosa ma seria, bambina.

“Vorreste sposarmi, Elviredda?”

La ragazzina s’era aggiustata il ritaglio di stoffa sulla crocchia di capelli di modo che le punte di quello andassero a coprire, perfette, l’accenno prepotente di seno. La madre aveva annuito solenne, rigida nel suo busto, nello scialle scuro.

“Se mamai lu cheret lo cherzo puru deo* “.).

Lei sedici anni e lui ventidue, mai lasciati soli fino al giorno del matrimonio. Lei, bella degli occhi sardi di carbone ardente e l’odore del mirto tra i capelli dai riccioli lunghi, selvatici, tenuti a bada dal fazzoletto di signorina, di sposa, di madre.

“Torra, beni in domo nostra, Elvì”, pensò Frantziscu segnandosi e stringendosi nella giacca di velluto scuro, troppo leggera per quel periodo dell’anno. E fu l’ultima volta che lo pensò.

      Le donne erano scemate, in silenzio composto. Padre Pascale chiuse il breviario e sospirò alzando gli occhi al cielo, smorzò i ceri. La modesta chiesa dominava la valle e aveva pianta a tre navate, divise tra loro da quattro arcate, sostenute da rozzi pilastri. La nave centrale sopravanzava le laterali ed era conclusa nel fondo da un’absidiola semicircolare, d’un raggio di circa 1,45 metri e, in alto, aveva tre finestrelle per parte, che davano luce all’interno.La copertura era realizzata con tetto a capanna sostenuto da capriate di legno di ginepro dov’erano ancora visibili, in rosso, i disegni profani di alcune varietà di pesci, soli e lune, piante. L’altare era di dimensioni modeste, in pietra arenaria, nel cui interno era custodito un reliquiario d’argento. Il pavimento era costituito di lastroni di pietra e mattoni mentre una pila per l’acqua benedetta , nella cui sommità era collocata una rozza vaschetta di arenaria, spiccava tra i sedili in muratura a ridosso dei muri perimetrali e i pilastri. All’esterno della chiesa tra olivastri, fusti di fichi d’india ed il canto assordante delle cicale in estate; ecco is posadas, dove trovavano alloggio i pellegrini che vi affluivano in occasione della sagra. “Ancora piove”, cogitò Don Pascale non senza preoccupazione.Mosse per uscire dalla chiesa e chiuderla, tornare da sua madre che a quell’ora l’aspettava inquieta per il pasto serale. Poi spiò il reliquiario, armeggiò con la vecchia chiave, l’aprì. Il gioiello aveva la forma di un cuore, d’argento. Era venuto alla luce trent’anni prima, gli era stato detto, a seguito della rimozione della pietra del primo altare, spezzata in più punti per l’esplosione di una mina tedesca, a venti minuti di cammino da lì.La struttura della chiesa era rimasta miracolosamente integra; solo l’altare s’era spaccato, come a voler rivelare l’antico tesoro. “Sa terra s’est tremia tota* e le nostre due vacche al pascolo c’erano scappate a gambe levate. Due giorni dopo, s’erano fatte trovare” diceva sua madre segnandosi, ogni volta che ricordava l’accaduto. Il cuore era conservato in un urnetta di pietra chiusa da un coperchio pure di pietra, sigillato con cera vergine.Era d’argento niellato, cavo e dorato internamente, dov’erano celate le reliquie di un santo ignoto. Don Pascale lo raccolse con dolcezza, le mani un po’ tremolanti. Il gioiello aveva il coperchio movibile con le attaccaglie originali e, tutt’intorno, in scritta cubica: “benedizione perenne e favore persistente e beatitudine crescente al suo possessore”. Don Pascale lo mirò.Lo mirò ancora.Lo baciò, lo fece scivolare in una tasca della tonaca. Poi l’occhio suo cadde sul crocifisso severo obbligato lì, sulla parete di fronte. “Signore, c’è bisogno”, cincischiò l’ometto. “Tu sai quanto c’è bisogno, Signore mio”, soffiò, “Vero che sai? Questa pioggia interminabile…”. Ma il Cristo, se possibile, al terzo sguardo gli parve più accigliato di prima. Don Pascale allargò le braccia e sbuffò,arrossì, annuì con le spalle curve. Levò la reliquia dalla tasca e la ripose ben bene al suo posto. La mano non tremava più. Due giri di chiave ed un’ ultima occhiata al Cristo ,“Signore mio…si, si, uomo anch’io sono”, si scusò il prete. E, tra un inchino e l’altro retrocesse, senza mai dare la schiena al crocifisso, verso il portone legnoso della chiesa, battuto dal vento. Camminando come un gambero e, come un gambero, rosso.

Appena fuori della chiesa Don Pascale notò il silenzio irreale intorno a lui. Non un uccello cantava né un cane abbaiava. Il vento s’era chetato d’un colpo.

Nell’aria echeggiarono le grida acute e disperate, ch’erano di cristiani. Don Pascale indietreggiò e fu con orrore crescente che vide le quattro case raggruppate sul costone opposto alla valle accartocciarsi tra pini e fango,ondularsi, ansimare per un lunghissimo istante, in una frazione di secondo scivolare rotolandosi giù, ammiccare fino alle pendici del monte e perdersi in un fragore che nulla aveva di terreno, il fiume di fanghi sopra, a sudario. Don Pascale non emise sillaba e, sacco vuoto di pensiero e speranze, occhi spalancati e vitrei e pallore mortale, giunse le mani in sulla fronte, pregò finalmente d’anima per le anime e, di preghiera, pianse a sìngulti. 

      Pardula, quel gattino smilzo regalato ai bambini dell’Elvira dal dott. Alfonso  Fabbri, il veterinario continentale sposato a Lanusei con una bella e onesta figliola del luogo conosciuta a Firenze durante il suo corso di studi; grattava la porta per uscire (non ne voleva sapere di partire), miagolava d’ epicèdio ( con la bambina tra le braccia abbandonò cavallo e carretto in mezzo al sentiero e i VorticiEolici alzarono vesti, e foglie e pensieri e scialli e capelli) e a mezzo miglio da loro Iside Mureddu, vedova e attitadora*, e la sua unica figlia, brutta d’aspetto e di modi che s’impiegava quotidianamente per adeguarsi allo stato d’animo della madre; pregavano forte (“troppaacquatroppaacquatroppaacqua…”) ad ogni grano del rosario ché la notte precedente Iside aveva fatto un sogno strano, di mare e di morte. Pregavano per abitudine, fissando il centro della parete di cucina come che il Cristo dovesse materializzarsi dinanzi loro da un istante all’altro. Pregavano aspettando che passassero il vento e la pioggia, e la paura, l’abitudine alla solitudine.

La crepa tagliò in due la parete e ne seguirono altre in uno scricchiolìo sinistro. Le mura grinzirono ed espandettero a fisarmonica, rivoli d’acqua putrida colarono tra gli anfratti nuovi.La crepa s’allargò come una bocca spalancata. Iside allungò la mano verso Gavina, non parlò e la guardò soltanto e la parete di fronte esplose in uno schiocco come di sparo, le travolse di fango gelido e mattoni.

SSSSSSssssh…vieni fuori (e giù, nella valle, ecco un primo tumulto.E un secondo. Elvira si volta e stringe forte al petto la bambina e la bestia nitrisce e parte col carretto all’opposto del bosco, gli uccelli notturni si alzano in volo in gruppi sparsi, la pioggia che picchia i cinghiali, nuvole e siepi)

SSSSsssssh …non è l’uomo padrone (è il fiume che scalpita e ora scavalca, la pioggia chè forte, più forte che arranca… Frantziscu e sos pitzinos*!)

Ssssssssh…chi è padrone? Padrone è chi comanda (Tra i vetri e finestre e i tronchi e le bestie… “Anna, svegliati…SVEGLIATI!” “Mà…ite ba*…?” “In su troncu…toca, monta inie…DERETA!”. Anna, spinta dalla madre, s’arrampica sul ramo alto del faggio…NaturaNaturaNatura, “PERCHE’,Signore?Dovevo capirlo prima che stava per accadere…DOVEVO CAPIRLO PRIMA!”)

Sssssssh…adesso sono io, Dio, e tu sei gatto e io sono vento e solo la terra può farti da grotta, prima che l’acqua t’invada.

“Ma…BENI MAMAI!”

(e nel cimitero appena fuori del paese thia Pillotta ch’era lì a sistemare i crisantemi al figlio defunto ulula alla convulsione improvvisa della terra sotto i suoi piedi, cade all’indietro e la voragine si spalanca davanti, grande è la crepa e dalla crepa zampilla acqua, schizza fuori più forte e le lapidi rovesciano una ad una, cadono come birilli avanti e indietro e di lato sui vasi e i graniti e i cipressi attorno s’ergono sbilenchi scoprendo radici che sono denti neri e thia Pillotta stringe il capo con le mani e tiene gli occhi chiusi e balbetta le ultime preghiere e l’unica statua del San Michele Arcangelo si mòve, tentenna, è un boato e thia Pillotta apre gli occhi e vede che tra i sassi e il fango le bare stanno saltando fuori delle fosse “GesusuGesusumeuuuu!” grida ma non ha fiato e San Michele Arcangelo ancora trema, s’inchina, si spezza alla base del tronco. Va incontro alla donna. E thia Pillotta l’accoglie.)

Elvira punta la bambina in salvo sul tronco e in direzione della sua casa e il bosco, il cielo con occhi, sensi spalancati da leonessa all’erta, punta l’aria e l’odore Elvira, la pioggia…acqua…odora di acqua e morte e fango e fa per lanciarsi verso la valle e il marito e i figli e il rumore e…

“MAMAI!”

Il rombo

SssssssGaaaattoooooh… .

Elvira saltò sul tronco; unghie ficcate, piedi incespicanti sulla corteccia su, a raggiungere Anna accovacciata in cima. Un istante prima che l’immensa onda d’acqua e detriti arrivasse, in un rombo furioso, a mangiare terra e cristiani.

Sssssssiiiiiissooscriistianoooos… .

“NNNNOOOOOOooooooooo, MALAITU  SIAS, DEU!!!” ruggì Elvira.

Passò la notte e passò un giorno di pioggia, prima che i soccorsi poterono giungere a salvare la donna e la sua bambina aggrappate fradice e stremate all’albero immerso nei fanghi.

Passarono ancora due notti prima che Elvira potesse rivedere ciò che restava della sua casa e della terra d’intorno. E Mama de sa Suferentzia* cadde in ginocchio sul deserto di fango, pietre e legni, non un cadavere da piangere, e strappò il fazzoletto dai capelli e i capelli li strappò a ciocche e le ciocche le affidò al fango perché potesse inghiottirle come i figli suoi, e a Iddio chè potesse serbarle, battè i pugni sul cuore e allargò le braccia, crocifissa, il volto alto al cielo, e fiero, nessuna lacrima, non un sospiro, né più un urlo suo echeggiò. E così rimase, e rimase. E rimase.

 

 

*   *   *

 

Bentu…*= “Vento che carezzi questa terra risvegliata dal sole/che nasce tra le montagne./Le antiche pietre ti conoscono bene/e si lasciano trasformare dentro e fuori./Vento come l’alito di Dio sei dolce,/come la forza di Dio sei impetuoso./ Vento fatti sentire come una melodia/che è la voce di Dio che sento dentro di me./Sei un respiro che agita il mare/come soffio divino che danza sull’acqua./Spirito impetuoso che fai tremare sradica gli alberi dalla terra./Vento, tu che carezzi questa terra risvegliata dal sole…” (“Su bentu” – canto della tradizione popolare sarda. ), Santu Aine*= ottobre, S’Oleastra*= (o Ollastra) L’Ogliastra. Sa terra…*= la mia amata terra, Santa Maria di Navarra*=Il Tenente Generale Angelino Usai, primo storiografo d’Ogliastra, così scrive  sul suo “Baunei”,Ed. Fossattaro, 1968: “La chiesa di Santa Maria di Navarra sorge vicino al mare su una dolce collina ricca di colori e di profumi, serena  e tranquilla, fra olivastri plurisecolari”. Il Fara così ne dipinse la storia, risalente al XI secolo: “Altero deinde anno, nempe 1052, regis Navarrae filia, e  paterna domo rapta et tempestate in Sardiniam acta, sedes suas cum sociis collocavit in regione Ogugliastri, ubi Sanctae Mariae, Navarrese indi dictae, templum ab ea conditum adhuc cernitur. Has sedes postea ob malignitatem loci, mutare coacta, in Arborensem regionem maritiman encontratae, Sancti Marci de Sinis dctae, secessit et oppodum a Saracebis desertum incoluit”. Desidero a questa notizia aggiungere, per il piacere del Lettore, una trista leggenda riportata in un manoscritto conservato nella biblioteca comune di Cagliari; “Cartulari de Arborea” – f. 55 V (cronaca inedita del 1585): “Nell’anno 1036, il Re di Navarra indignato verso la figlia amatissima, caduta in peccato d’amore con un cavaliere del Regno, dava ordine di ucciderla. Poi, indotto dalle lacrime della Regina e di altri familiari, consentiva che fosse esiliata presso certi parenti che stavano nel Levante. Così, in compagnia di molti cavalieri e donzelle, la giovane partì. Le navi, sfuggite ad una tempesta nel Golfo del Leone, approdarono in una località detta Ollastre. Quivi sostarono per riposarsi. La giovane, affranta dai dolori e dal viaggio, meditò allora di uccidersi prima che gli altri ripartissero, ma essendosi confidata col suo precettore, questi, accordatosi con altri cavalieri, fece scaricare dalle navi tutte le vettovaglie e gli effetti, prospettando l’opportunità di prolungare la sosta per dar modo alla principessa di riprendere forze. Poi di notte, valendosi di uomini fidati, fece affondare le navi, così che tutti rimasero sul posto con la principessa. Dopo una diecina di giorni, riuniti a consiglio, decisero di elevare una chiesa cui posero il nome di Santa Maria di Navarra, e ultimata questa cominciarono a costruire le case. Resisi però conto che la terra non era troppo buona, tutti, o quasi tutti, decisero di partirsene; ed infatti postisi in marcia giunsero e si stabilirono ‘en contrada de Sancto Marco de Sinis’, ove erano molte case costruite dai mori.”,  Ammentava*= Ricordava,  Fizos ‘e  su…*= Figli del demonio, Balentes*= sbruffone, prepotenti,  Dengosas*= Noiose, lagnose, lamentose, (vogliose di attenzioni) , Malumaladiu*= CattivoMalato, Saliu*= Salato, Meschinu*= poverino (semplice),‘e sa missa*= della messa, Pecore…*= mi riferisco indirettamente ad una curiosa figura d’uomo, della quale ho sentito parlare  spesso dalle vecchie del luogo e di cui ho trovato traccia nello stesso A. Lamarmora in ‘Itinerario di Sardegna’ del 1868: “Un antico parroco di Baunei, il Rettore Marcello, è stato il primo a raccogliere una certa quantità d’idoletti in bronzo nel territorio di sua parrocchia; questa collezione venne in seguito collocata nel Museo particolare del Viceré, il Duca del Genovese (Rif. Carlo Felice / Duca del Genovese, dal 1799 al 1821 -di fatto, solo fino al 1816- resse la Sardegna come Viceré).Essa ha servito d’incominciamento alla bella e numerosa serie degli idoli sardi, che attualmente formano il più ricco ornamento del R. Museo d’Antichità di Cagliari”. Trovo interessante la teoria di Angelino Usai, primo storiografo d’Ogliastra, in merito alla vera identità del parroco in questione. Ancora da ‘Baunei’, 1968: “Finora si era ritenuto che il benemerito Rettore fosse Don Pedro Josef Marcello Carta che nel registro dei battesimi amministrati l’8 novembre 1768 si firma ‘Vicario Parrocchiale della villa di Baunei y su annexa Triei’, mentre il 5 luglio 1790,nell’atto di nascita di Maria Efisia Murru, si firma ‘Rettore’. In data 28 dicembre 1793 troviamo Vice Rettore di Baunei don Francesco Marcello, che firma l’atto di battesimo di Giovanni stefano Incollu, mentre il 15 febbraio 1795, l’atto di nascita di Maria Grazia Murru è firmato dal Rettore don Brontu Cadello. Il Lamarmora ha certamente commesso un errore, perché se la raccolta degli idoletti fu fatta dal Rettore di Baunei egli avrebbe dovuto scrivere ‘Don Carta’ o ‘Don Pedro Josef Marcello Carta’ e non ‘Don Marcello’ (che era uno dei tre nomi e non il cognome del Rettore); se invece voleva riferirsi na ‘Don Francesco Marcello’ avrebbe dovuto scrivere ‘dal Vice Rettore Don Marcello’. A meno che non si tratti addirittura di Don Juan antiogo Pau Marcello, che fu curato di Baunei nel 1740. Nella relazione del primo battaglione, formato dallo stamento Militare e comandato dal Marchese Rippoll Neoneli, è detto :’ oltre ai suddetti Capitani ed Assistenti di Campo si presentarono spontaneamente in qualità di volontari senza menomo soldo … Don Francesco Tolu di Seni (forse Seui –NU-), il quale presentò seco 15 uomini di Baunei, spesati dal M.to R.do Don Pietro Marcello, suo zio Rettore di detto villaggio, coi quali prestò servizio finchè esistì il battaglione’. Anche qui si è ripetuto l’errore di scrivere ‘Don Pietro Marcello’ anziché ‘Don Pietro Josef Marcello Carta’. A questo punto sorge il dubbio se sia stato Don Carta a modificare il proprio cognome o altri che preferivano chiamarlo ‘Don Marcello’ … . Il Reverendo don Pedro Josef Marcello Carta, fu il primo a comprendere il reale valore storico ed artistico degli idoletti in bronzo e, a differenza di altri religiosi che per toglierli alla vista dei convertiti al cristianesimo li sotterrarono nelle chiese o li fusero per farne campane, ne raccolse alcune diecine … fra questi bronzetti, che ebbero illustrazioni anche all’estero, il geologo e paleontologo tedesco Georg Munster riconobbe le figure del Dio Luno e Diana con stimoli siderali ai piedi, la Venere di Cipro di Macrobio, la Dea Astante con i rapporti della luna e, infine, la Luna e il Sole che rappresentano i due principi fecondatori”. Erriargius*=orti,  Riu*= fiume,  Sos sirbones*= i cinghiali,  Ilbono*= paese dell’Ogliastra nuorese, Dominiga*= Domenica,  De  mannicare  porceddu*= di mangiare carne di maiale, su Taggéri*= vassoio rettangolare di ontano o castagno, ancora molto usato nelle famiglie come piatto da portata o di uso collettivo quando si tratta di mangiare carne arrostita o patate o fave lessate col lardo, Tacculas*=  dolci tipici ogliastrini al mirto, De  su mundu…*= Del mondo intero/Sei speranza autentica e vita/ sei, Maria, concepita/ senza colpa originale./ Il primo peccato, Eva/ compì per disobbedienza/ l’Onnipotenza Divina/ ti ha preservata (conservata): /E grazie a te ha risparmiato/ dalla distruzione (rovina- Rif. diluvio universale), Duncas…*= Dunque per Pasquale Deriu e grazie a Maria, al Signore e ai cristiani in primis; era fatta la sua giornata (il suo lavoro, la sua opera era compiuta.), su mascru*= il maschio, Beozia*= la bevanda, Sa tascedda*…= sacchetto di pelo di capra a striscie alternate di colore grigio e nero, Camisòla*= pellicola gentile che avvolge e tiene unite le due facce della ghianda,Impastera*= conca di terracotta confezionata dai figuli di Tortolì (NU), Torco*= argilla, Colatori*= passino , Murga di…*= pezzo di tela di lino, lande cottu*= pane di ghiande (si veda nota iniziale.),Cibo dei maiali*= le ghiande sono cibo prediletto dai maiali,”Se mamai…”= “Se mia madre lo vuole, lo voglio anch’io”,  Sa terra s’est…*= la terra tremava tutta, attitadora*= prefica. L’usanza di ‘attitare’, cioè di tessere le lodi dei morti prima della sepoltura, occupa una vastissima area di diffusione e sopravvive, oltre che in Sardegna, in tutta l’Italia meridionale, nelle altre regioni è quasi scomparsa. Il canto viene eseguito dai congiunti oppure da donne (raramente da uomini) che posseggono bella voce e buona vena poetica per improvvisare versi di cordoglio o, nei casi di morte violenta, d’incitamento alla vendetta. Anticamente il canto funebre si svolgeva, in coro, anche in chiesa, prima e durante la sepoltura. Pizinos*=Bambini Ma…*= Ma…che c’è?, In su…*= Nel tronco, forza! Monta lì, in fretta!, Beni…*= Vieni, mamma! Nooo…*= Che tu sia maledetto, Dio. Mama de sa Suferentzia*= Madre della Sofferenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      Jim McCarter aveva mani da musicista.

La prima cosa che in Sandy Ann aveva provocato un certo turbamento durante il primo incontro col futuro marito, erano state proprio le mani di lui .

…E nella situazione c’era ben poco di emozionante. Fuori dello Store un incidente stradale aveva coinvolto un Taxi, uno scuolabus ed un centauro norvegese, volgare e sbraitante. Sandy Ann che dall’interno, con la coda dell’occhio e attraverso la grande vetrata, assisteva alla “scena del centauro” ( disarcionato dalla sua Harley faceva gestacci e sbraitava in vichingo epiteti verso autisti, passanti e bobby) e contemporaneamente tirava calci alla macchinetta delle bibite perché, per l’ennesima volta, si era mangiata le sue brave due sterline e mezzo senza in cambio rilasciarle la lattina di Diet Pepsi. Jim, che s’aveva goduta la scena astenendosi dal fare commenti, era infine scoppiato a ridere di gusto.

-E lei che diavolo ha da ridere?- l’aveva minacciato un’Ann rabbiosa che lasciava comunque trapelare tutta la sua vulnerabilità con le braccia serrate al petto e gambe fasciate dai jeans, divaricate da guerriera .

-Lasci stare, signorina.Probabilmente preferisce una mano maschile-

Sotto l’espressione che ora oscillava tra l’ironico ed il perplesso di Sandy Ann, Jim era riuscito ad ottenere, con una semplice pressione del pulsante di selezione, la lattina di bibita incriminata.

-A lei.

Lavoro al Change dietro l’angolo e purtroppo ho a che fare quotidianamente con Diane-

-Diane?-

-La macchina.In ufficio la chiamiamo Diane…un nome aristocratico,sa.

Perché non ama concedersi facilmente-.

Ann aveva accennato un sorriso, infine era deflagrata in una sonora risata buttando all’indietro la lunga massa di riccioli selvatici.

-Credo sia semplicemente masochista, la sua Diane-

-Mmmmh. Ama le maniere forti.

Ma con noi del Change ha trovato pane per i suoi denti. Rendere l’impossibile possibile  è il nostro motto-.

Si.

Jim McCarter aveva mani da pianista ed ora, quelle mani, sfioravano i petali rosso fuoco di una delle tre rose poste a centrotavola tra calici e caraffe di Cristal d’Arques, porcellane Limoges e posateria d’argento.

Il maitre in smoking e fascia di seta nera in vita guidò la donna in un’elegante gimcana tra un tavolo e l’altro, divisi da gustosi e rari separé di lini decorati d’ Hong Kong. Il locale era illuminato a giorno, profumava d’incensi alla lavanda e patchouli, cera bruciata e lusso.Un violinista sulla quarantina con camicia candida, gilet e baffetti perfettamente disegnati allietava i clienti cogl’accordi dolci de La Vie En Rose. Sandy Ann ne notò le unghie macchiate di nicotina.

Jim le lanciò uno sguardo ammirato e fiero. S’alzò dal tavolo, fece un cenno di capo al maitre che si ritirò annuendo e spostò la sedia per farla accomodare.

-Sei bellissima-, le bisbigliò in un orecchio e lei ridacchiò, rabbrividendo compiaciuta.

Sedette anche lui, sistemò il nodo alla cravatta. La fissò.

Ann si accorse subito dell’espressione tesa dell’uomo.

-Sei sicuro che va tutto bene, Jim?-, osservò finalmente.

 

 

*   *   *

 

 

      Tutte le ombre della cantina, per uno strano gioco di prospettiva, le apparivano distorte e spaventose.

All’esterno

(fuori)

udì il rombo di un tuono.

Virginia sapeva che un solo indizio di debolezza da parte sua in quel momento avrebbe potuto rappresentare la fine definitiva della sua sanità mentale.Tre isolati appresso al suo, appena svoltato l’angolo che dava sul parco giochi intitolato a R.L. Stevenson “Padre Amoroso della letteratura d’avventura e dal fascino ambiguo, di forte tensione morale,  Edimburgo 13.11.1850 – Upolu 3.11.1894”; c’era la vetrina di un negozio chiamato  frigidaire dove Virginia, il pomeriggio di qualche giorno prima (mentre sua madre schiacciava un pisolino), aveva adocchiato un abito che non era niente male.Una specie di tubino. frigidaire. Che nome strano.Non l’avrebbe comprato mai, quel tubino, né avendo i soldi per poterlo fare e neppure avendone la misura giusta che, almeno dalla vetrina, doveva essere quella di una terza di reggipetto.Minimo. E il petto di Virginia, ora come ora, pareva avesse mandato tanti saluti al mondo. Comunque il tubino originale frigidaire aveva una stampa che alla bambina era piaciuta moltissimo.Aveva i fulmini.Tanti piccoli fulmini neri su fondo giallo .Una lacrima sgusciò dalle ciglia, le colò sulla guancia. Si. Era un bel tubino; molto allegro. Bello da avere nell’armadio più che da indossare di modo che una mattina, non avendo nient’altro d’importante da fare, si apre l’armadio e si dice “ tò, il tubino”.E si fissano i fulmini del tubino. Fulmini.Cielo. Aria. Libert… .

Virginia strinse i denti. Un borbottìo indistinto al basso ventre le ricordò che era viva.Ancora.E che aveva fame, una fame terribile.Avvertì un fruscio lesto sui piedi. Potevano essere i topi.Ma non ne era sicura. (potrebbe essere…una folata di vento,ad esempio.Vento e non zampine di…)

-La finestrella della cantina è chiusa-, mormorò Virginia per udire un suono familiare alle proprie orecchie ma l’effetto che ottenne fu solo quello di una vocetta aliena, stonata e gracchiante.

(Va bene. La finestrella è chiusa.Ma per tutti gli angeli del cielo…potrebbe essere anche il gatto della signora Smith; quella che ha la casa di fronte al Drugstore.Rammenti la signora Smith, Virgi?).

Virginia annuì.

(Okay. Quante volte hai sentito tua madre gridare alla signora Smith di stare ben attenta a non fare più entrare quel maledetto gattaccio nel suo pezzo di terra o gli avrebbe strappato i peli uno ad uno con le sue mani? Può darsi che oggi il maledetto gattaccio sia riuscito ad intrufolarsi non solo in giardino ma anche nella cantina perché sai com’è, cara,la cantina è piena di topi e i gatti sono stati creati per cacciare i topi).

Virginia lasciò che le lacrime avessero la meglio.La gola secca le faceva male.Aveva sete e un mal di pancia terribile, le dolevano anche i polsi, proprio nel punto dove sua madre

(non era in lei)

aveva avvolto

(pazza.quella donna è)

il fil di ferro

(pazza).

Si sforzò di smettere di piangere, possibilmente di NON PENSARE per non peggiorare le cose.

(Ann)

(ANN)

( A N N  !)

Aiutami Ann aiutami ti prego!

Ancora un fruscio.Buio.E silenzio. Virginia pensò di offrire la mano. Già. Fosse stato necessario, ai topini simpatici, avrebbe offerto la sua manina. Sacrificata, come quel tizio di cui aveva parlato la signorina Jefferson…come si chiamava? Muzio Scevola.Un poco a te e un poco a me. Poi basta perché, cari miei, il resto mi serve.Per vivere. Per continuare a vivere.E a sperare.

Sua madre non l’aveva neppure picchiata. L’aveva semplicemente acchiappata per il bavero della giacchetta.

(-Dov’è Ann?-

-N….non lo so, mamma-

-Siiiiiii, che lo sai-

-Mamma-

-Siete due bambine cattive.MOLTO  cattive. Come vostva nonna e vostvo padre-

-N…o-

-Siiiii che è così.Cattive.E le bambine cattive stanno coi topi-.).

Virginia se la figurò inarcando come al solito le sopracciglia nel modo altezzoso tipico di chi è perennemente convinto di  dichiarare la sacrosanta verità.E sospirò.Un altro tuono.Buio.silenzio.(Ticchettare sui vetri?) pioggia.Ticchettare ritmico della pioggia sul vetro.

Intravide una sagoma più scura in fondo alla cantina.

Apparve la luce fioca e tremolante di una candela, la figura entrò. Le altre ombre danzarono attorno ad ogni suo passo.

Selena Howard andò a sedersi nella sedia a dondolo in mezzo alla stanza, tra ad una lunga pila di vecchi libri ed un consunto orso Teddy rovesciato da un lato, col suo bel papillon a fantasia scozzese ed una zampa strappata.

Virginia sentì la pelle d’oca correrle su braccia e schiena.Gemette.

-Non sei stata una bvava bambina, Vivgi baby-

-Mam…ma-.

Selena dopo un lunghissimo silenzio cominciò a far dondolare la sua poltrona.

-Voi non volete bene alla vostva mamma-. Raccolse l’orsacchiotto, passò le dita sul morbido peluche e fissò la bambina legata al canterano con doppia passata di filo di ferro. E Virginia s’accorse che la follia si era completamente impossessata di sua madre.Ann Ann Aiutami Ann dove sei vieni a prendermi vieni a

distolse lo sguardo dal volto coi tratti corrotti, occhiaie vistose e trucco sbavato,la pelle tagliata da graffi profondi e il sangue raggrumato in più punti.

“Nessuno mi vuole bene”, lesse Virginia suo malgrado in quell’intrico distorto ch’era divenuto la mente della donna.

-Mamma…- bisbigliò Virginia. Tentò di muoversi ma non ci riuscì. Se solo avesse potuto abbracciarla, se solo avesse potuto! Tante volte, in passato, durante una crisi più forte delle altre di sua madre l’aveva consolata stringendola a sé, come fosse lei l’adulto e non una bambina terrorizzata dalla vita e di soli undici anni…se solo avesse potuto. Tentò di divincolarsi dalla morsa ferrosa ricacciando in gola un grido di dolore.Niente. L’odore di umido e muffa si fece forte,insopportabile.Svenne.Riemerse dall’incoscienza senza sapere quanto tempo fosse trascorso, nulla era cambiato. L’odore era ancora insopportabile, non riuscì a trattenere un conato. Si voltò di lato e vomitò convulsamente liquido biliare e sangue, sporcando quel che restava di pulito della sua tuta e la camicetta bianca preferita dalla mamma che non battè ciglio. Ora le guance chiazzate di porpora di Virginia si fecero giallastre. Poi bianche. Sgranò gli occhi.

“Seistataunabambinamoltomoltocattivavivginiavivgibabyechiècattivononmevitapvopvionientedallavitasi.iosonoimpevfettapevciononmiamanessunoetupovevinalamiabambinafavailamiastessafinesipevoiononlopevmettevòpiccolavivginiamia”

-Mamm…a, ti prego-, esordì cupamente Virginia con le ginocchia indolenzite e sanguinanti, -Io ti capisco, mamma.E ti voglio bene e te ne vuole anche Sandy Ann

(Aiutami Ann aiutami ti prego aiutami Ann)

ma è che tu sei…-

(pazza)

-…Sei malata, mamma.Hai bisogno di curarti e-

Ma Selena Howard aveva raggiunto il confine. E valicato.

Si erse dalla poltrona a testa china come un toro pronto alla carica, raggiunse la figlia con passi strascicati.Alla luce della luna che filtrava da una fessura sulla parete sinistra, Virginia notò dell’intera silhouette solo le mani, coi dorsi ricoperti malamente di garza e cerotto macchiati.

AnnAnnAnnAnnAnnAnnAnnAnnAnn

-MAMMA!-, gridò. Si agitò goffamente sul freddo della superficie granitica grassa e polverosa e Selena proruppe in una risata acidula che le gelò il sangue.

“nonavevepauvacavafinivatuttopvestoepoistavemobenefinalmentebenesisisis..”

Virginia la guardò a bocca aperta e fu pervasa da un forte senso di déjà vu.Visto.Tutto già visto come in un film; letto e riletto nella testa di sua madre ogni volta che, per puro sbaglio, ci aveva fatto capolino. Hey, ciao mà,come va? Tutto okay,Vivgi baby. A pvoposito, sai che ho una tevvibile voglia di AMMAZZAVTI? Pevchè ho pevse le votelle,cava.Ho vevamente pevso le votelle e non cvedo pvopvio che sentivò la tua mancanza.Sandy Ann l’aveva  previsto, l’aveva detto

Dove sei Ann?

 e lei non aveva voluto darle retta

Ann!Ann!

Era solo colpa sua e sua madre…

Non è più lei Ann dovresti vederla Gesù non è più lei!

Le dita di Selena, imbrattate di sangue coagulato artigliarono il collo della bambina ficcando le unghie nella carne.

Fu in quell’istante che i vetri della finestra esplodettero in uno schiocco, la porta rovesciò in avanti  e nello scantinato irruppero varie forme in ordine sparso.

-SELENA HOWARD!- intimò il capo degli agenti, un nero sulla sessantina,alto e robusto, puntando la pistola. -GO! GOOO!- urlò e fece cenno con la mano libera perché gli altri circondassero la donna.

Selena li scrutò di sbieco, vacua, mentre Sandy Ann correva ad abbracciare la sorella.Ma prima che la squadra potesse intervenire le mani della donna ebbero un guizzo e apparve una scheggia di vetro.Un fiotto di sangue investì Virginia in pieno viso e la testa di Selena si staccò parzialmente dal collo, ciondolò sul corpo e si rovesciò all’indietro.

-God Damn’t!- Mormorò uno degli agenti, bocca aperta e occhi sgranati.

“final…mente”, pensò Selena Howard prima di morire.

-NOOOOOOOO NOOOOOOOO NO;NO,NO,NOOOOO- singultò isterica Virginia e a Sandy Ann il fiato smorzò in gola, coprì gli occhi della gemella con le mani

-ssssh.shhh,ssssh, Virgi Virgi Virgi è finita è finita è finita Oddio è finita!!!-

-Le bambine, Cristo! PORTATE VIA LE BAMBINEEE!!!- ululò l’ispettore Hewitt agli agenti.

Virginia pianse isterica per ore, terrificata.

Per aver perduto l’unico amore che fino a quell’istante le era stato concesso di conoscere.

 

 

*  *  *

 

 

      Ann nascose il viso tra le mani e chiuse gli occhi senza muoversi, respirò appena.

-…In seguito, le nostre strade si divisero definitivamente-, sussurrò, fissando il petalo screziato della rosa e deglutendo a vuoto.

-Virginia venne data in affido ad una coppia di coniugi senza figli, gente timorata di Dio, mi venne riferito. Marito e moglie trasferitisi in un secondo tempo nell’Arkansas in una fattoria lasciata loro in eredità da uno zio della donna.

Io venni adottata dalla signorina Jefferson. Ma queste sono cose che sai già.-.

Jim posò una mano sui capelli setosi di lei, annuì in silenzio.

Sandy Ann ebbe un debole sorriso.

-Inizialmente ci scrivevamo tutti i giorni. Rammento che quando passava il portalettere e pedalava veloce perché…perché c’era Rhum, il nostro bastardino che ogni santissima volta gli abbaiava appresso bhè; rammento che correvo anch’io e spalancavo la grande porta verde e Gesù…poteva venire giù la neve o la pioggia o tutta l’IraddiDio ma io ero lì che aspettavo la lettera della mia Virgi.-

Represse un singhiozzo. Aprì la pochette argentata, levò una sigaretta e la portò alle labbra.

-Un giorno, all’improvviso, la grande porta verde della signorina Jefferson divenne più piccola e Rhum tanto vecchio da non riuscire più a correre appresso allla bici di Mister Quickly.

R…rientravo dal college, quel giorno. Era la vigilia di Natale e tutto era così illuminato; le strade, le vetrine e la gente. Chissà perché sotto Natale ti sembrano tutti più buoni e belli…che sciocchezza.-

La mano di Ann prese a tremare impercettibilmente.

Sbuffò.

-Fortuna che ho smesso di fumare.-. Tolse la sigaretta di bocca.

-Erano tutti più belli. La sera prima avevo avuto il mio primo appuntamento e quasi mi dispiaceva non poterlo rivedere subito, le sera appresso…anche se era la vigilia. Lui si chiamava Danny, aveva diciotto anni e una Cabriolet scassata e per me, appena quattordicenne, era bellissimo. Non vedevo l’ora di dirlo alla signorina. Sapevo che avrebbe sorriso dicendomi “sono davvero felice per te, Ann.Però stai molto attenta.Ti ho già parlato di…certe cose,no?”. E sarebbe arrossita al posto mio.

Alla vecchia bottega di Mr Paper, tra la ferrovia e la banca, comprai un pacchetto di gomme da masticare alla menta piperita e rosa, volevo assaggiarle perchè le mie amiche ne parlavano tanto; le pubblicizzava alla radio quel sosia di Elvis, quel Woolf che ballava così bene!-

Ann rovesciò il contenuto della borsetta sul tavolo, raccattò il rossetto e la cipria, un flacone di Matricaria Chamomilla concentrata in capsule monodose. Ne ingollò due, buttò giù mezzo calice di Evian gassata.

-Avevo addosso, sotto il cappotto, la nuova maglia siglata dai Chicago Bulls…portata dalla grande mela e solo per me da quella pazza d’una yankee Mary “Cherry” Rhoad. Regalo di Natale alla sua amica di studi. La prima della classe in letteratura inglese.

 Non la cambiavo da due giorni la felpa, volevo che la signorina Jefferson la vedesse e mi dicesse “quanto sei cresciuta stavolta, Ann? E quanto sei diventata bella!”. Ogni volta lo diceva.

Trovai il vecchio Rhum che guaiva furiosamente fuori della porta d’ingresso.

“Rhum, piccolo…bentrovato!”, dissi. “Che ci fai sbattuto qui, in mezzo alla neve?Oggi è la vigilia”, dissi, “e devi essere felice anche tu”.

Poi guardai gli occhi lucidi del cane e sentii. Dentro me sentii qualcosa. Non chiedermi perché o come lo sentii perché non saprei dirtelo. Entrai e pensai ch’era strano che nell’aria non ci fosse il solito profumo di tacchino al forno. No. Salii le scale. Ma …ma non arrivai neppure alla cima della rampa. La signorina Jefferson era lì, tra il decimo e l’undicesimo scalino. Seduta. Era seduta con gli occhi aperti e una mano adagiata sul petto, il capo chino sulla parete. Era bellissima e sembrava…sembrava sorridesse Jim. Sembrava bisbigliarmi “scusami tanto, Ann cara, se non ce l’ho fatta ad aspettarti. Ma l’avrei voluto, questo si.Vai avanti tu, per me, cara”. Il medico legale diagnosticò che era morta da quattro ore. Un infarto. “non ha sofferto”, mi disse, “e’ stato tutto molto veloce”. Come che uno non senta comunque che è arrivata la sua ora, veloce o meno.

Anche se breve, ricordo il periodo passato con la signorina Jefferson come il più bello della mia vita. Il più sereno. Ma come tutte le cose belle, è finito troppo in fretta.

Di mia sorella non seppi più nulla. Ad un certo punto non ricevetti più sue notizie, il signor Benson e sua moglie mi parlarono di cattive compagnie, di strade lontane dalla luce del Signore intraprese da Virginia. Qualche tempo dopo venni a sapere indirettamente di un ulteriore cambiamento di residenza della famiglia Benson ma all’ufficio informativo della Contea non seppero o non vollero dirmi altro in merito…insistetti per anni ma fu inutile.

Personalmente credo che Virginia abbia voluto tagliare i ponti col suo passato e col dolore che questo le ha provocato. E il suo passato includeva…anche me.-.

Gli occhi sfocati fissarono un punto imprecisato nello spazio.

-Usciamo-, mormorò.

-Come?-

Sandy Ann sorrise. Tese il dito indice e il medio, li mosse avanti e indietro.

-Camminiamo, signore. Le va?-

-E l’ordinaz…-

-Un panino. Ho voglia di mangiare un panino. A lume di candela, parbleu-

-Okay, okay- fece Jim con uno sbuffo, allentando il nodo alla cravatta.

-So che se non venissi lo mangeresti comunque, il tuo panino. Magari offrendone uno anche al primo barbone che incroci per strada.-

L’altra sorrise: –Mmmmh, è un’idea.-.

Al giovane cameriere che si avvicinava col vassoio degli aperitivi Jim dissentì col capo.

-Signore?-

-Un imprevisto e dobbiamo andare, Robin. Mettete sul mio conto, grazie-.

Il ragazzo scrutò di sbieco Sandy Ann.

-Benissimo signore-, replicò.

Uscirono nell’aria fredda della sera, costruendo nuvole col respiro.

-Benissimo signore- scimmiottò Ann con la voce in falsetto.

-Fà  il suo lavoro-

-Non lo sopporto, quel Robin. Questione di pelle. E lui non sopporta me. Abbiamo stesse origini plebee, dopotutto. Forse non gli va che lui, nonostante questo, debba essere il cameriere mentre io…la signora. Non mi abituerò mai a…a…-

-Ne abbiamo parlato mille volte, Ann. Ho un nome ed un ruolo da sostenere a Londra-

-Ma ce la farai?-

-Che vuoi dire? Attenta alla pozzanghera.-

-Ad avere accanto per tutta la vita una gatta selvatica come me?-

L’uomo si fermò,costringendo la compagna a fare lo stesso. Le sfiorò dolcemente la guancia con una carezza.

-Guardami negli occhi, gattina-

Ann sorrise. –Mmmmmh. Ti guardo.-

-E tu ce la farai?-

La donna fece spallucce, strinse forte la mano di lui ed il sorriso si allargò.

-Penso che dovrò farcela-

-Ti amo.-

-Anch’io ti amo…calzette bianche-.

Scoppiarono a ridere.

-Allora, dove si va?-

-McDonald’S?-

-Huuuuuuh. Roba fine-

-Vai al diavolo, Jim McCarter-

-Okay.Vada per McDonald’S. Dopo non sorprenderti se, in piena digestione, non risponderò delle mie azioni-.

Ann tentò di colpirlo sull’avanbraccio col pugno. Jim deviò il colpo, le passò il braccio attorno alle spalle. Camminavano rasentando il marciapiedi, ogni tanto accostando i volti in moto inconsapevole, lasciandosi aprire il varco dalle luci basse e calme dei lampioni, in silenzio.

-Voglio sapere perché hai insistito tanto per…sapere-, esordì seria Ann.

-Sarebbe strano il contrario visto che fra cinque mesi devi diventare mia moglie.-.

Jim McCarter sbuffò. –Capisco benissimo che è una fetta della tua vita che non vuoi ricordare, Ann. Lo so. Non ti amerei come ti amo se non lo sapessi. E ho sempre accettato per questo motivo che tu non me ne parlassi. Ma adesso, se le cose stanno come penso io, sarai costretta a ripensare al tuo passato più frequentemente di quanto credi.

E non significa che sarà spiacevole farlo.-

-Cosa intendi dire?-

Erano arrivati dinanzi i tre piani vetrati ed illuminati a giorno del McDonald’S. In mezzo al rumoroso viavai di vetture, autobus e taxi neri; Jim la tirò verso una panchina ferrosa, isola modesta e circondata da etnie in continuo, nervoso movimento.

-Vieni, Ann. E’ meglio che siedi-. Lei obbedì come un automa.

Jim la scrutò con amore, le spostò una ciocca ribelle dalla fronte alta.

-Durante la pausa pranzo, stamani. Alla mensa.

E pensare che normalmente del Times sfoglio solo la pagina di borsa-

-Deformazione professionale. ‘Mbhè?-

-Era appena un trafiletto, Ann. Mischiato ai necrologi e le previsioni del tempo. Mi sarebbe sfuggito se non vi fosse caduta della senape…accidenti a me e alla senape-

Ora Ann lo fissava con aria apertamente interrogativa.

-La prima cosa che mi ha colpito, nella foto, è stata l’incredibile somiglianza con te. Si parlava di una donna, una certa Virginia Benson di trent’anni-

-VIRGINIA!-

-Ascolta, Ann.

Lei è a Londra. In sala rianimazione al Saint James Hospital. A quanto pare si trova in città già da una decina d’anni-

-Virginia-, bisbigliò Ann.

Eri qui e sapevi che ero qui.E non mi hai cercata. …Mai.

Chiuse gli occhi. Il tono si fece duro, l’espressione contratta.

-Perché in ospedale?-

-Ecco, sai come sono i cronisti. Arricchiscono sempre gli articoli di tanti di quei fronzoli che magari-

-Perché?-

-Ha subìto un grave choc. Suo figlio si è suicidato in casa. Si è impiccato ed è stata lei a trovarlo.Vivevano loro due, soli, in uno squallido bilocale affacciato sui Docks-

-Ges…-

-Sarebbe morta d’inerzia col cadavere del figlio nella stanza accanto se l’odore non avesse richiamato l’attenzione dei vicini. E’…lei è in condizioni abbastanza critiche-

-Che….che vuol dire ABBASTANZA CRITICHE, Jim?-

-Vuole dire che è in grave stato di denutrizione e assuefazione. Ha ingollato soltanto Valium e alcool per quasi quattro giorni-.

-Oh no- esclamò Ann, con la vista improvvisamente offuscata e le guance albine, gelide.

Una folata di vento sollevò un turbine di foglie secche, rami e carta di giornale.

Ora gli occhi di Ann scandagliavano la notte.

-Virgi-, mormorò.

 

 

    Virginia dormiva con una copia stropicciata di Vanity Fair abbandonata sul grembo. La rivista si sollevava e riabbassava al ritmo composto del suo respiro.Un’infermiera di colore bassa ed esageratamente tozza armeggiò con l’ago della flebo e la garza.Virginia non si mosse. L’infermiera requisì lestra il Vanity Fair. Lasciò la camera affievolendone le luci. Virginia udì il ciabattare strascicato lungo il corridoio. Sollevò il plaid fino al mento, pregando per morire.

 

      Sandy Ann posteggiò l’auto nelle budelle sotterranee che erano le 21.15. Attese l’arrivo dell’ascensore insieme ad un ragazzino biondo e grazioso con berretto e divisa da college, zaino sulle spalle e Il mondo di star Trek  rilegato in brossura tra le mani. Le porte dell’ascensore si spalancarono.

-Piano?-, domandò Ann distrattamente.

-Ventiseiesimo, grazie-.

Silenzio.

Undicesimo, dodicesimo.

Come stai, Virgi?

Il ragazzino soffiò il naso.

Diciassette. Uno scossone. Le porte si aprirono.

Un infermiere meticcio coi capelli raccolti in una coda di cavallo e sigaretta al mentolo tra le labbra.

-‘Sera-, mugugnò, dando la schiena ad entrambi. Prenotò per il ventiquattresimo.

Ventidue.

Il collegiale ravviò un ciuffetto da sopra l’occhio destro.

Ventiquattro. Scossone.

-‘Sera- mugugnò il meticcio. Gettò la sigaretta ed uscì.

Venticinque

Come stai Virgi?

Ventisei. Scossone.

-Buonasera, signora-, salutò diligentemente il ragazzino.

-buonasera.-.

Ventisette

Ventotto. Scossone.

Ann imboccò un lungo corridoio stretto dalle pareti verde acqua. Dietro un angolo il corridoio s’allargò a spirale, su entrambi i lati le camere in fila come reclute, odore di detersivo per pavimenti, caffè brasiliano ed alcool. Dalle stanze chiacchiericci e pianti sommessi, televisore mignon acceso su La Ruota Della Fortuna. Un carrello di medicinali in un angolo, alla destra tra la cabina di un telefono a scheda e un ficus sparuto di almeno mezzo metro di diametro. Poster malamente affisso su Droghe e C.., allieva infermiera rossa e snella, penna e block notes in mano. Sguardo torvo. Infermiera nera e grassa, copia di Vanity Fair sotto il braccio e siringa sterile in pugno, ciabattone da desaparecida. Sbirciata attraverso i vetri delle camere.

-Signora?-

Sandy Ann trasalì.

Era l’infermiera grassa con le ciabatte deformi.

-L’orario delle visite è passato da un pezzo-

-Lo so, mi scusi.E’ che…cerco Benson.Virginia Benson…l’articolo sul Times…è mia parente e-

-Si-, tagliò corto l’altra scrutandola da capo a piedi con vivo interesse. Non le scappò la straordinaria somiglianza tra le due giovani donne.

-Si-, ripetè, -La bella addormentata. Ho sentito dire che il mondo non è stato molto gentile con lei, ultimamente. Mi segua. Le farà piacere avere un po’ di compagnia; da quando è buttata su quel letto non ha ricevuto neppure una visita…se un certo bancario non avesse pagato per l’assicurazione anche l’assistenza sanitaria le avrebbe dato il benservito.-.

Ann ringraziò mentalmente Jim, e per l’ennesima volta in quella giornata.

-Venga, venga. Spesso le parlo…fesserie, sa. Quattro chiacchere tanto per tirarle su il morale ma è difficile. Quell’uccellino ha perso le ali, creda a me signora e se glielo dico io può crederci. Parola di Claretta Bloom che di gente pronta a camminare sui cornicioni ne ha vista tanta. Ai problemi sono bella vaccinata, signora mia.Come lavare i deretani, ad esempio. Dovesse vedere la faccia di certe allieve,oh signore!

‘E quando dovrete lavare i santissimi di vostro marito, come la mettiamo?’, dico io. Ma i giovani non danno retta a nessuno. Se vogliono lavorare in questo posto –e ne ho visti di peggio,altro che crepe sui muri e blatte nei cessi!- le signorine Alice Nel Paese Delle Meraviglie devono imparare a lavare i deretani. Comunque questo pomeriggio sono riuscita a farle cadere in pancia due cucchiai di sbroda. A sua sorella, intendo.

E’ sua sorella, vero?-

L’altra annuì pensierosa.

Svoltarono l’angolo.

-La camera è quella laggiù. Ha la fortuna di avere una reggia tutta per sé, la bella addormentata. Una stanza discreta. Bhè, forse un poco triste…ma mi dica lei dove mai ha visto una camera d’ospedale allegra. Accidenti. Più passa il tempo e più mi accorgo di quanto sia difficile lavorare in questo posto ma tant’è. Sette figli da mantenere, signora mia. E un marito che fa davvero il marito una volta l’anno e torna a casa solo per dormire.

Per bere gli basta stare fuori.

La mia primogenita è morta di overdose. L’anno scorso di questi tempi, che il Signore abbia pietà della sua anima. So bene cosa prova la bella addormentata ma bontà sua, deve farsi forza. Nessuno può e vuole farlo per lei. Eeeeh, il mondo  è dei vincenti, cara mia.Come quella canzone dei Queen, ricorda? We are the champions. Già già. A mia figlia piacevano molto, I Queen. Ecco la 401c. Faccia in fretta perché se ci passa il dottor Kildare in questione sono casini.  Soprattutto per me.

Al dottor Kildare le infermiere piacciono alte e bionde.

Ah, signora-.

-Mi dica-.

L’infermiera indicò la stanza con le pareti screpolate verde muffa. Accennò un sorriso vago.

-Appena esce da qui la porti su quel  lago. Mentre dorme parla sempre di un lago conosciuto da bambina. La porti su un lago a dondolare la sua brava barchetta di carta e a pescare qualche bel pescione benedetto da Dio, sotto il sole di maggio.

Le farà bene, creda a me-.

Sandy Ann si sforzò di sorridere, annuì.

      Fissò la porta e la vetrata.

Distolse lo sguardo con timore, quasi con fastidio.

Sarà felice di vederti, Ann.

Deglutì, avvertendo la secchezza insistente alla faringe.

Prendi lucciole per lanterne, cara mia.

Come può esserne felice?

Una vita. E’ una vita che non ti vede e posso davvero assicurarti che in cuor suo non ne ha sentito minimamente la mancanza.

Indugiò sulla soglia.

Dentro la luce era bassa, appena percettibile. Se l’avesse trovata addormentata, bhè, se l’avesse trovata addormentata Ann avrebbe lasciato che continuasse a dormire.

Semplicemente.

Silenziosamente.

(“La porti sul lago”)

No problem. La porterò sul lago, signora Clara Claretta Bloom.Certo che la porterò.E l’aiuterò.

Ma siamo certi che lei voglia essere aiutata?

Sandy Ann finalmente s’affacciò all’uscio. Profumo di cedro. Pareti verde smacchiato e una crepa accanto ad un’orribile stampa di paesaggio inglese con due due? Dame che prendono il the in mezzo ad un prato.

Tenne gli occhi incollati alla stampa senza accorgersi di aver cominciato a stringere troppo forte la catenella dorata appesa al collo ed in particolare il ciondolo di questa; un unicorno alato.

-Ciao, Ann-, sussurrò una voce dolcemente afona, nel buio. Ann avvisò una falciata alle gambe che presero a tremolare, inquiete.

-Vienimi vicina, Ann-.

In quel letto giaceva la Bella Addormentata. Che non vedeva da una vita.Quella ribattezzata da sua madre la Bvava Bambina.

Titubante staccò la mano dal ciondolo nel momento stesso in cui

Vide sua madre flettere gli arti per balzarle addosso.

Sandy Ann soppesò il sasso sulla destra, portò il pugno indietro e fece partire il proiettile con quanta forza aveva in quei muscoli di bambina.

Il sasso colpì il bersaglio ad una coscia. Selena Howard mugolò di dolore, vacillò incespicando sull’orlo fuori misura dela vestaglia di cachemire nero. Cadde lunga distesa sul pavimento con la luce della luna ad illuminarle irregolarmente la schiena, i capelli radi e sparsi sulle spalle.

Nella tasca posteriore dei calzoncini rosa il ciondolo dell’unicorno alato pareva pulsare di vita propria..

(brava Ann.Le hai dato ciò che meritava).

Sandy Ann prese coscienza solo in quel momento di ciò che aveva fatto. Strabuzzò gli occhi e s’inginocchiò bruscamente al fianco della madre.

-Mam…ma- sussurrò in un soffio.

(le hai dato ciò che meritava.E forse l’hai anche uccisa.Ooooh, si,baby Ann Baby.La tua piccola e cara coscienza sporca ti fa notare, nel caso non te ne fossi ancora accorta, che la mammina dolce è FERMA.Respira? Non ti saprei dire ma forse l’hai uccisa.FATTA FUORI, come dice quell’idiota di Vincent Cody quando accoppa una mosca. “l’Ho fatta fuori, Ann”.Hai fatto fuori tua madre con un colpo di sasso sulla coscia.E quando Virgi torna dalla messa serale cosa dirà? OdddioDioDio.Non vorrei essere proprio nei tuoi calzoncini rosa, piccola Ann.E i vicini cosa diranno? Diranno che sembravi una bambina tranquilla.”Una bvava bambina, agente Stewart”.E quel Signore con la S maiuscola che stà lassù tra una nuvola e l’altra cosa dirà, secondo te? Povera piccola Ann che ha FATTO FUORI la sua mammina dolce. E nulla da eccepire sul fatto che lo meritasse.)

Sandy Ann respirò rantolando, sibilando come un pesce tolto dall’acqua e lasciato a contorcersi sulla sabbia. Sentì un liquido caldo bagnarle la parte interna delle gambe.

(OdddioDioDio.La piccola ASSASSINA se l’è fatta ADDOSSO. Hai superato ogni limite, cara mia).

-Mam…-, bisbigliò Sandy Ann ormai al culmine della disperazione. Agitò il busto di Selena Howard meccanicamente.

-Maaaaaaammaaaaaa non fare cosìììììììì…alzatiiiii mammaaaaa-

(non voglio andare in cantina mamma.In cantina ci sono i topi che mi rosicchiano le dita e io non voglio lasciarmi ROSICCHIARE a poco a poco, mamma.

Non è stata colpa mia.Non è stata SOLO colpa mia mamma… vuoi sempre pettinarmi sempre sempre sempre mamma e la tua spazzola fa tanto male non voglio più andare in cantina al buio mamma. HO PAURA di te mamma. DI TE.)

-Mammaaaaaa- gemette Sandy Ann.

(l’unicorno alato è mio e di Virgi.Ce l’ha dato papà prima di andare via –scappare- e ci ha detto che saremo rimaste sempre le sue adorate bambine.

“Qualunque cosa accada.” Così ci ha detto papà. E ci ha chiesto scusa “Per non essersi comportato come la circostanza avrebbe richiesto”.Così ci ha detto al telefono papà. Per “non essersi comportato da vero uomo”.)

-Svegliati mam-  (“Ma vedrete che le cose cambieranno, piccole mie; vedrete che tempo un mese al massimo papà tornerà a riprendervi e vivremo assieme in una vera casa”, ci ha promesso così papà. Ma di mesi ne sono passati quasi undici, è trascorso quasi un anno mammina e ieri notte lui ha richiamato per la prima volta e sai cosa mi ha detto mammina? Mi…mi ha detto di scusarlo ma è successo un fatto strano è successo che quella che doveva farci da Mamma Buona, quella con le minigonne che piacciono tanto a Virgi, non ci vuole più.No.Non ci vuole più mammina, e noi dobbiamo scusarlo per “non essersi comportato da vero uomo”.Ha detto così.E piangeva, il povero papà.Piangeva e non ha detto dove vive come vive cosa fa per vivere non l’ha detto però ha detto di scusarlo che ci vuole sempre bene perché io e Virginia saremo sempre le sue adorate bambine. Non posso darti l’unicorno alato mammina e non devi chiudermi in cantina per questo.No.Non è giusto.)

-Seeeeii stata una bvuuutta bambina cattiiiva, ann-, sibilò Selena Howard allungando le dita ad afferrare sua figlia per il colletto ricamato della camicia color cielo.

-E tu sssai dove vanno le bvutte bambine come te, non è vero che lo sai baby Ann? Lo sai?-.

E baby Ann lo seppe.

 Titubante staccò la mano dal ciondolo nel momento in cui sentì l’altra commentare con tono assolutamente privo di energia “Avevo voglia di vederti, Ann”.

Fece una pausa poi aggiunse: -Vorrei tanto che tu mi credessi-.

Sandy Ann udiva il ticchettìo regolare di un orologio sul comodino.

Una brutta imitazione di Rolex.

(sarà dell’infermiera chiacchierona.Ma perché deve essere proprio dell’infermiera, Ann?Che Cristo credi che sei l’unica ad avere i soldi per comprarti un orologio, tra l’altro un orribile imitazione di Rolex?No cara. Non sei per niente l’unica ed anzi, ultimamente gli orologi fino a prova contraria ti vengono regalati.Non sei per niente l’unica però Virgi ha vissuto in un bilocale affacciato sui Docks con il cadavere del figlio appeso a riposare alla trave del soffitto. Non penso che, tra un Fish & Chips e l’altro avesse i soldi per comprarsi una brutta imitazione di Rolex.

E in ogni caso tutto questo ora è relativo, cara).

Cercò una sedia nella quasi oscurità della camera. Non la trovò. Sedette in pizzo al letto, schiena diritta e pancia in dentro, accavallò le gambe fissando la parete di fronte.Cambiò posizione, trovandone una apparentemente più comoda. Evitando di guardare la sorella in volto disaccavallò le gambe e restarono così, in silenzio.

Le mani fredde di Virginia sgusciarono fuori delle coperte, a tentoni giunsero a sfiorare quelle di Ann. Solo sfiorare in una lunga, morbida carezza. Poi le strinse forte, reggendole tra le sue. Virginia percepì il profondo turbamento dell’animo di Ann; lo percepì con la stessa intensità con la quale percepì il suo. Sorrise stancamente.

-Andrà tutto bene, Virgi-

Silenzio.un sospiro.

-Credo…di si-.

Sandy Ann sentì la terribile voglia di una sigaretta. S’alzò dal letto, accostò le tendine di cotone a minuscoli non-ti-scordar-di-me. Contemplò a lungo le squallide pareti in penombra e tornò a migrare lo sguardo alla finestra.

(“Parola di Claretta Bloom che di gente pronta a camminare sui cornicioni ne ha vista tanta”  “Quell’uccellino ha perso le ali,signora”).

Ha perso le ali. Virginia ha perso le ali, Ann signora. E se, da un momento all’altro, quelle ali avessero premuto per uscire fuori di nuovo? Da lì l’altezza era abbastanza anche per chi riesce a camminare sui cornicioni. Ann rabbrividì.

Non può. Non DEVE. Ci sono io adesso, con lei.

Schiarì nervosamente la gola. Era più pallida che mai, le vibravano le palpebre. Era un tremito lieve, certo, ma c’era.

-Sei bella, Ann- disse Virginia e scoppiò a ridere debolmente.

-scusami. Non ci vediamo da-

-Diciannove anni-

-Diciannove anni. Già. E la prima cosa che riesco a dirti è quanto sei bella-. L’aveva mormorato in una voce gutturale e bassa che non le apparteneva.

Sandy Ann risedette sul letto. Fece per aumentare l’intensità della luce.

-No Ann. Lascia perdere.Preferisco di no-

-C…come vuoi-.

L’altra era tradita da un pallore malsano, dalla perdita d’elasticità muscolare che la faceva sembrare vecchia, prevedibile nei movimenti convulsi delle palpebre.

-Non aver paura-, disse Virginia con impazienza, - Non ho nessuna intenzione di buttarmi dalla finestra. Non ancora anche se, appena finito l’effetto del Valium, sono rimasta per… parecchi giorni con propositi non tanto rosei. Fisicamente sto meglio, comunque. E’ un’altra la parte di me che sento spenta, e non ho la forza di accenderla. Non lo voglio e…non devo-

-Ho saputo e-

-Si-

-Mi dispiace-

-S…si.-.

Silenzio.

-Apri il cassetto del comodino, Ann. Il primo.-.

L’altra obbedì, incerta.

E sorrise.

Raccolse il tesoro, lo strinse forte nel pugno.

-La scatola cinese!-. Ann avvertì il forte tremito nella propria voce.

Sorprendentemente provò l’eccezionale impulso di scappare, imboccare la porta a vetri e darsela a gambe da quella stanza che trasudava angoscia, dalle malattie, da quell’ospedale e chi s’è visto s’è visto. Da Virginia Vivgi baby. Aprì la bocca ma la richiuse subito, trovandosi del tutto incapace di parlare. Gli occhi di Virginia catturarono i suoi.

-Sei sempre stata con me, Ann-.

La porta cigolò leggermente, Jim McCarter fece per entrare.

Virginia battè le palpebre più volte per mettere a fuoco la figura alta e slanciata di lui. Sollevò il mento e sulla bocca si disegnò un sorriso timido.

-Vieni-, lo invitò Ann, sentendosi inquieta. E senza comprenderne il motivo.

 

      Jim allacciò la cintura di sicurezza, mise in moto la Rover Coupè marrone.

I tergicristallo spazzavano la neve con gli scatti noiosi di un metronomo.

Lasciarono il parcheggio.

-Perché me lo chiedi?-, ribattè seccato.

-Bhè, se ne sarebbe accorto anche un bambino, credo. Ti guard-

-ALT. Fermati qui, Ann. So dove vuoi andare a parare e non è così, te lo assicuro. Per quanto mi riguarda ho provato la strana sensazione che può provare qualunque uomo trovandosi di fronte l’esatto doppio della donna amata. Virginia ti somiglia più di quanto avessi immaginato. Fisicamente, intendo. Quando ci ho parlato ho compreso immediatamente che la vostra somiglianza si ferma lì-

-Scusami, Jim.

Ho sempre creduto di essere più forte di lei ma… dopo tutto quello che ha passato, sinceramente non so se crederci ancora-.

-Hmmmmh.-. gli occhi di lui erano fissi sulla strada.

Aveva ricominciato a nevicare.

-Che vuol dire “Hmmmm”?-

-Devo essere sincero?-

-Sempre-

-Fino in fondo?-

-Jim-

-Okay. Mi ha dato l’impressione di una bomba ad orologeria. Prendila come una semplice impressione legata all’ istinto, Ann.-

-Una bomba ad orologeria-, ripetè lei in un soffio.

-Una semplice impressione.Tutto qui. Ma, come hai detto tu, dopo quello che ha passato penso sia normale il suo atteggiamento. Molto normale-.

Si sistemò meglio nello schienale. Ann studiò la sua espressione con un miscuglio di scetticismo ed interesse. Si sforzò di sorridere, di allentare quel filo di tensione che le aveva cucito i pensieri dal momento in cui aveva rivisto Virginia. L’atteggiamento della sorella era stato rassicurante ed in tutti quegli anni passati lontane l’una dall’altra l’aveva comunque pensata. Così aveva detto e Ann le credeva. Voleva crederle, e disperatamente; perché Virginia rappresentava il microcosmo dei suoi affetti, l’unica cosa bella del suo passato. O ciò che ne restava. Lei era, adesso assieme a Jim, tutta la sua famiglia e avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non perderla ancora.

Ma gli occhi.

I suoi occhi… .

Il silenzio invase l’abitacolo dell’auto. Nel tempo che era occorso alle sue elucubrazioni d’inseguirsi frenetiche, le lacrime avevano fatto il loro bravo ingresso trionfale tra le ciglia di Ann. Le asciugò con un dito sperando che il gesto sfuggisse all’uomo.

Ma lo scoprì a scrutarla di con la coda dell’occhio. Alzò le mani in segno d’impotenza, scosse la testa.

-Ann- mormorò lui dolcemente.

-Davvero, Jim. E’ difficile. Ho pensato che-

-Che ce l’abbia a morte con te-

-Non lo so-

-Cerca di capirla. Sei una donna realizzata, Ann. Hai combattuto in nome di tutto ciò a cui credevi, e hai vinto.-.

-Anche lei ha combattuto. Ma non è stata altrettanto fortunata-

-Esatto. O forse semplicemente ha combattuto nella direzione sbagliata-

-Cosa intendi dire?- obiettò Ann.

-Passami dell’Evian…lì nel cruscotto, al solito posto.

Grazie-.

Jim scalò di marcia portando la bottiglia alla bocca. Tracannò avidamente.

-Cristo…i toast di Mr Benth. Avrei preferito il tuo McDonald’S…tieni. Chiudila bene. L’altra mattina ho trovato l’ultimo romanzo della scrittrice sarda…-

-Mmmmh. Non ricordo mai il nome-

-La Mulas.-

-Mulas.Già.

In pieno naufragio da Titanic.-.

-Ammiro Virginia. Ha amato molto qualcuno ed ha avuto il coraggio di crescere da sola un figlio, in mezzo alla miseria-

-Non sappiamo esattamente come si siano svolti i fatti.-.

-Si, ma…insomma anche lei ha dimostrato che gli ideali aiutano ad esistere-

-Sai benissimo che anch’io la ammiro per il suo coraggio, Ann.

Ma vivere per gli ideali non porta da nessuna parte. Forse avrebbe dovuto mettere da parte l’orgoglio e chiederti aiuto. Dopotutto, sei l’unica persona che ha al mondo. Le saresti rimasta accanto-.

Accese l’autoradio senza aggiungere altro. I Police suonavano Every Breath You Take. Ann notò che aveva smesso di nevicare.

(Sei sempre stata con me, Ann)

Okay. D’accordo.Sono sempre stata con te ma… perché?

Perché, Cristo?

Sono sempre stata con te ma i tuoi occhi, Virginia, dicevano un’altra cosa.

Il lato sinistro della strada era costituito da un terrapieno ricoperto di neve ammucchiata, grigiastra e sporca, mista a fango. Una Playmouth voyager rossa sterzò per superare. I fari lampeggiarono.

-Non ci pensare-, tagliò corto Jim.

-Una doccia eppoi a nanna. Domani è un altro giorno-

La spiò, sorrise sornione, -Bhè, se proprio insisti posso restare a dormire da te, stanotte-

-Era a Londra e sapeva che c’ero anch’io-

-Okay. Vista l’insistenza oltre a dormire possiamo fare qualcos’altro-

-Jim!-

-La vacanza a Primrose Lake non le farà che bene, credimi. Hai avuta una buona idea, in proposito. Avrete modo di ritrovarvi e chiarirvi su tutto; passato e presente.-.

E futuro?.

Ann osservò la cima degli olmi intirizziti dal gelo, il planare sparso di corvi affamati su cime ferrose e i fili della corrente elettrica.

Avvisò le palpebre pesanti.

-Ann?-

Riaprì gli occhi che l’auto imboccava la gioiosa confusione di Piccadilly. Un bobby, rigido nella divisa d’ordinanza, fece cenno col capo di passare. Jim non se lo fece ripetere due volte.

Sbuffò.

-Devi essere stanchissimo…scusami. Quanto ho dormito?-

-un’ora, più o meno.

Oggi il traffico è più infernale del solito.-.

-Ho un mal di testa tremendo-

-La solita scusa delle donne… .

Pensi troppo, Ann. Prendi due aspirine e fila a letto-

-E la palestra?-

-Chiedi a Silvie di sostituirti. La paghi anche per questo, no?-

-Teoricamente. L’ultima volta che ha preso il mio posto la signora Cleary-

-Cleary la moglie del ministro?-

-Proprio lei-

-La tua clientela migliora di giorno in giorno-

-So benissimo che sei stato tu a consigliare al marito di farla iscrivere da me-. Ann scoppiò a ridere.

-Che c’è?-

-Niente. “Mio marito mi ha assicurato che la sua è la migliore palestra di Londra.Quanti chili potrei perdere, da qui ad un mese? Sa, mia figlia tra poco compirà sedici anni ed il suo Ballo delle Debuttanti…ecco…comincio a sentirmi vecchia”. Mi ha detto così ma…la vedessi-

E giù un’altra risata

-Embè?-

-Centodieci chili, poveraccia-

-Cent…?-

-La sera che ha fatto aerobica con Silvie ha subìto una lussazione all’anca. Mi ha detto che, a suo parere, “la mia sostituta usa metodi troppo arcaici e crudi, perché funzionino”.

Quando è successo ho saputo che ha inciampato nel suo tappeto ed è rovinata addosso a Steph-

-Stephany Power? Gesù. E’ magra come un chiodo-

-Puoi immaginare il resto-.

I due risero complici. Jim percorse il tratto di strada che li separava dal viale d’ingresso dell’edificio vittoriano dove viveva Ann ad una certa velocità, scalò di marcia e imboccò l’accesso al vasto e curato parco adiacente la costruzione. Posteggiò nella striscia coperta e riservata a Miss S.Ann Benson, 6 H, come riportato dalla fine dicitura color oro, slacciò la cintura flemmaticamente.

-Gesù. Ancora un chilometro e crollo sul volante-

-Ti rammento che anch’io so guidare, basta chiederlo-

-Ooooh, niente da eccepire sul fatto che guidi. Il mio eterno dilemma pencola sul come guidi-

-Al diavolo, Jim. Mi piace la velocità. Tutto qui-

-Lasciamo perdere-

-Sali?-

-Se insisti…-

-Insisto.

Chiamo Silvie e poi ci prepariamo qualcosa. In frigo dovrebbe esserci del tonno-

Jim premette il pulsante dell’ascensore.

-Interessante-, bofonchiò, -e se finissimo la cena lasciata in sospeso al Chéz Maxim?No? Okay, okay.Vada per il tonno.

Tu mi vuoi male.-.

E il pensiero arrivò veloce nella mente di Ann come una frustata:

jim finalmente sarà nostro soltanto nostro senza la schifosa faccia di topo dàmmi il cinque vivginia!.

Ann ebbe un sussulto. Dal naso uscì un rivolo color rubino.

Sei così…puva e bella, bambina.

Ann roteò le pupille verso l’alto ma prima di svenire tra le braccia di un inebetito Jim, nella disordinata catasta dei suoi pensieri se ne ficcò un altro, spina tra i rovi.

-ANN!-, proruppe Jim.

 Ann vagava come sonnambula in un corridoio lungo e nero, avviluppata dai fumi di nebbie di palude. Stringeva l’unicorno con entrambi i pugni e la sua tutina tutina? Rosa aveva le bretelle calate sulle spalle gracili, le trecce disfatte e le guance accese di febbre, la bocca sòcchiusa in una smorfia di terrore. C’era qualcuno, oltre il corridoio, qualcuno cattivo da evitare come la peste, da girarsi e scappare a gambe levate chè le bambine hanno paura del Babau cattivo cattivo. Voltati e scappa, Ann!. Ma quel qualcuno l’attirava come una calamita e i suoi piedini si muovevano da soli. Poi, tra le nebbie prese forma la figura della mamma MadreDolore  e quella più piccola e docile di Virginia aggrappata al suo braccio.

Voltati e scappa, Ann, più lontano che puoi!

-Vieni con me, Virgi-, mormorò tremolante Ann, -Vieni via con me-

-Oh, no- disse la mamma, -Vivginia E’ MIA , cava-.

E soffiò quel “cava” come sibila un vento gelido, in una notte d’inverno popolata di ombre.

-E’ mia e tu non mettevti in mezzo, piccola stvega.E’ inutile che tu ti metta in mezzo pevchè è tvoppo tavdi.Tvoppo tavdi pev tutto-.

-VIRGI!- urlò Ann e fece per buttarsi addosso alla sorella, per strapparla al male, per aiutarla, per… .

Virginia alzò la manina.

-NO!-, la fermò serena e in un sussurro, -Ha vinto, Ann-.

Ann le vide indietreggiare verso una porta di ghiaccio, quella si aprì lentamente.

Le inghiottì.

E le nebbie scomparvero.

Ora Jim l’agitava convulso ed il respiro gli usciva in un ansito roco.

-ANN! ANN!-.

Lei sollevò le palpebre ed il porpora dei velluti dell’ascensore quasi l’accecò, incrociò l’espressione sorpresa e preoccupata di Mr Chippendale, portiere dello stabile, e la sua giovane e dolce moglie indiana Savhi con la bottiglietta dei sali in una mano.

-Sto…bene- farfugliò e Jim la studiò stranito. La strinse in un abbraccio furioso e pieno, rabbrividendo con lei.

 

       Sei così pura e bella, virginia.

Virginia spalancò gli occhi nel buio, girò la testa da una parte all’altra in segno di diniego.

L’ombra aveva un fianco poggiato allo stipite della porta. Sogghignò.

Virginia non lo vide espressamente il suo sogghigno, ma per lei fu come vederlo.

Come l’aveva visto centinaia di volte anni prima.

Sei così pura e…bella  ripetè l’Ombra, così bella da stordirmi ma dio mio,hai dodici anni…sono certo che è stato il signore a mandarti da noi .Per mettermi alla prova, si. E io non lo deluderò ma tu  la mano callosa era scivolata fin sopra la coscia di Virginia. Si era fermata.

Tu non devi più mettere queste gonne così… corte da svergognata. Ra vivi in casa Benson e finchè ci vivi devi attenerti alle MIE regole.sono stato chiaro?

Virginia aveva annuito in silenzio.

Vestirsi così è attirare il demonio sulla nostra famiglia.

-Non pensavo di fare del male, signore. Tutte le mie amiche le portano e-

-Le tue amiche sono FUORI DELLE STRADE DEL SIGNORE,Virginia. Fila a cambiarti, prima che rientri mia moglie.

E stasera a letto senza cena, per purificare lo spirito. E rammenta la Bibbia sul comodino, Virginia-

-La rammenterò, signor Benson-.

Lo rammenterò, signor Benson.lo rammenterò.Non metterò mai più una minigonna.Non mi truccherò mai, signor Benson.I capelli?I capelli li raccoglierò in una sobria coda di cavallo, signora Benson.Si,uguale alla sua.Li raccoglierò perché non voglio tagliarli. Ma da voi non mi farò più vedere coi capelli lunghi sulle spalle.

Dov’è la signora Benson, signore?

E’ rimasta in camera,Virginia; ha la febbre e comunque stasera salirò io stesso a leggerti qualche passo della Bibbia.

Va bene, signor Benson.

Sei così pura e bella,Virginia.

Così pura

E bella.

-Così…pura e bella- balbettò Virginia reprimendo una lacrima. L’ombra era scomparsa. Sentì un tocchéttare incerto sulla porta.

Ecco il faccione scuro di Claretta Bloom.

-Posso entrare un attimo, Bella Addormentata?-

-Oh, avanti-.

La donnona mosse verso il letto strusciando sul pavimento fresco di detersivi le sue maxi pantofole da homeless.

-il mio turno è finito uccellino, ma ho pensato di portarti una cosuccia.

Ti piace la pasta italiana?-

-Grazie. Ha un buon odore-

-Mmmmh. Raviolini in scatola riscaldati…a buon intenditor poche parole, Bella Addormentata. Comunque meglio della sbobba quotidiana che ti passano qui. Mia figlia, che il Signore l’abbia in Gloria, ci andava pazza  per i raviolini, mi diceva: quando è che mi fai un bel piatto di raviolini, Mama Clara Bloom? Una volta ne aveva mangiati talmente tanti (e per carità…erano così cotti da essersi attaccati alla pentola) da aver passato tre giorni a letto coi crampi alle budella, oooh si.

Ecco, sistemiamo il vassoio…mmmh, così. Ti stai riprendendo bene, eh?. Vedo un po’ più di carne, in quel petto.

Buon pro ti faccia, uccellino-

-Grazie-

-Dovere.-.

 

      Smise di pedalare.

Tamponò il sudore su fronte e collo, buttò giù un sorso copioso di Energade al mandarino e sbuffò. Scese dalla cyclette coi muscoli indolenziti ed estremamente tesi, la testa pesante. Sgranchì braccia e gambe con quattro flessioni feroci.

-Maledizione- disse Ann a denti stretti, -Maledizione!-.

S’arrestò, gironzolò un attimo tra un angolo e l’altro della moquette verde scuro, scrutò da una delle due grandi vetrate il traffico impazzito su Kensington, le dita tamburellarono inquiete lungo la coda del pianoforte.

-al diavolo-, mormorò e raggiunse il telefono.

Dalla sua borsa, abbandonata su di una poltrona stile Luigi XV; distillò accendino e pacchetto di sigarette al mentolo. Ne estraette una, l’accese ed aspirò, le parve orrenda. La spense. Dal cassetto sotto il telefono tolse un foglio di block notes giallo, lo fissò pensierosa. Accese un’altra sigaretta, inspirò sforzandosi stavolta di tenerla tra le labbra almeno un minuto. Sollevò la cornetta e lentamente compose il numero riportato sul foglio. Attese.

-Si?-. Rumore di lavastoviglie in funzione, radio col volume esageratamente alto.

-Signora Benson?

Mary Benson?-.

Breve esitazione all’altro capo del filo.

-Chi parla?-

-Mi fa piacere sentirla, signora.

Sono Sandy Ann Johnsonn, la sorella di-

-So bene di chi è sorella…chi…chi le ha dato il mio numero?- tagliò corto la voce, secca.

-La vostra parrocchia; il reverendo…-

-E’ da anni che non ho più niente a che fare con…con QUELLA! .  IBRAHIM… ABBASSA QUELLO SCHIFO DI RADIO!!!-

Ann tossicchiò,  -Ecco, MrS Benson, l’ho chiamata per farle sapere che Virginia è ormai fuori pericolo e…e visti I rapporti che sono intercorsi fra voi-

-AH!

Provi a parlare dei nostri rapporti con quella piccola sgualdrina di sua sorella, signorina Johnsonn eppoi ci risentiamo-

-Ma so che lei e suo marito-

-Mio marito è rinchiuso da quindici anni nel Penitenziario di Could Mountain, grazie alle bugie di Virginia…e pensare che era stato come un padre, per lei!

Quella… QUELLA SGUALDRINELLA CHE NON E’ ALTRO!!!-

Ann non capì, non riuscì a capire e la cornetta restò a mezz’aria, le parole della donna anche.

Sospirò debolmente.

-signora Benson…?-

-Ci lasci in pace, signorina.E per quanto riguarda sua sorella penserà il Signore, a farle pagare il dovuto… e quel giorno sarò io a ridere e ballare alle sue spalle. Soltanto IO-.

Ann rabbrividì, l’altra riattaccò con un Click  ostile.

Provi a parlare  dei nostri rapporti con quella sgualdrina.

Sgualdrina.

Restò in piedi, poggiata allo stipite della porta laccata spiandone caparbiamente i contorni, il pomello dorato sul bianco totale della tinta.

La chiave.

Qual’era la chiave?.

(-Cosa ne sai TU della vita,Ann? Per te è sempre stato tutto così…maledettamente semplice-

-Non è vero, Virgi.Ognuno ha avuta la sua brava fetta di sofferenza-

-Sofferenza. La verità è che ti dà fastidio che la tua sorellina acciaccata e bisognosa d’affetto ritorni a ricordarti cos’eri davvero…ti dà fastidio che il tuo passato ritorni, Ann-

-Virgi-

-La Virgi che conoscevi non esiste più, Ann. E’ morta da un pezzo e ti giuro che non intendo fare nulla per resuscitarla. E non lo devi fare neppure tu. I fantasmi del passato possono essere molto cattivi, credimi.-).

Ann aspirò l’ennesima boccata dalla sigaretta. La scandagliò con odio, la spense sopra il numero scribacchiato del foglio giallo.

 

 

 

      -…Nei momenti di maggiore stress i muscoli della schiena si irrigidiscono e la tensione si concentra in un preciso punto collocato tra la nuca e le spalle. La tecnica migliore per liberare l’energia negativa è quella del Palming: appoggiate le palme delle mani a coppa sulle palpebre chiuse…okay, così.

Poi roteate gli occhi molto, molto lentamente e respirate e

SIGNORA CLEARY!-

-Ma che tipo di ginnastica è questa? Io non riuscirò a dimagrire roteando le pupille, Ann cara!!. E pensare che mia figlia fra meno di un mese ha il suo ballo delle debuttanti, Oh Signore!-

-Questa ginnastica è yoga, signora Cleary e anche se non sono pagata per illustrarvi alcune delle regole basilari di questa antica disciplina penso sia meglio per tutte, riuscire ad essere più rilassate-

-Ommmmpf!-

-Okay, signore.

Respirate in modo costante e profondo riempiendo e svuotando il torace.

La vostra schiena aderirà perfettamente al tappeto diventando un tutt’uno alle gambe. E la tensione si allenterà.

Bravissime.

Un buon aiuto per sconfiggere lo stress può venire anche dalla musica-

Una ragazzetta nera dalla seconda fila alzò la mano.

-I Genesis, Ann?-

Risolini.

Sandy Ann sollevò un sopracciglio, reprimendo un sorriso tenero.

-Non proprio, Alannis. Cerca di respirare più profondamente. Mmmmh. Brani New Age,o Mozart ad esempio. Mozart usa più di ogni altro musicista i suoni acuti, gli stessi che percepiamo nel ventre materno. Nell’uomo adulto quelle sonorità aiutano a ricaricare i nervi.

Così, Tessa. Perfetto.

La tolleranza allo stress fa parte delle 19 capacità che gli uffici del personale valutano nel fare un’assunzione, signore mie. E anche se buona parte di voi non ha bisogno di lavorare è mio dovere farvelo sapere comunque.

Va bene. Per oggi basta.

Sciogliete le righe, su. A venerdì, alla stessa ora.-.

Le donne si ritirarono in buon ordine verso le docce.

-Mmpf-, sbottò Ann.

Praticò una semitorsione del busto allungando la mano destra verso il piede destro. Dondolò un attimo. Con uno scatto tornò alla posizione d’origine. Chiuse gli occhi e prese a massaggiarsi la tempia dolente con la punta delle dita. Il ricordo di Virginia ricomparve ad inquietarla  come dalle prime ore di quella mattina e le tracce del pensiero sentito, profondamente sentito  prima di svenire tra le braccia di Jim le fece scorrere l’adrenalina in corpo.

Provi a parlare con QUELLA.

Sgualdrina.

Da quando era che Ann sentiva i pensieri di Virginia? Non se lo era mai chiesta. O forse si; forse dal giorno in cui suo padre aveva regalato loro il ciondolo dell’unicorno, poco prima di sparire definitivamente dalla circolazione e dalle loro giovani vite. Aveva letto in qualche rivista specializzata che secondo le tribù dei Bangwa, in Camerun, il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è il momento in cui capacità medianiche e poteri magici si manifestano con particolare intensità e violenza. Secondo loro le nascite gemellari sono segni certi di stregoneria. Già. Ma per Dio, Ann, siamo alla soglia del 2005. E non siamo in Camerun.

Ma i pensieri che ci scambiavamo.

Immaginazione. Fervida immaginazione.

A volte capita di fissare intensamente una persona e studiarne i gesti, i movimenti degli occhi. E dedurne come questa persona reagirebbe di fronte ad un evento, positivo o meno. Dedurne. E’ istinto. E’ risaputo, Ann. Qualcuno lo chiama Sesto Senso, il tuo istinto.

Basta una particolare sensibilità per capire se stai sulle scatole ad una persona.

Prendi la signora Cleary, ad esempio. E’ il metodo degli strizzacervelli di qualità interpretare le frasi non dette ma semplicemente gettate lì, come si getta un amo. Sei uno strizzacervelli mancato, Ann. Eppoi non si può trovare una risposta a tutto. Semplicemente perché non c’è.

Giusto.

Era una cosa perfettamente ovvia, a ripensarci qui. Adesso. Eppure, a ripensarci bene l’insieme di tutte le cose era come una papera di gomma che torna a galla ed è inutile spingerla e respingerla sul fondo della vasca. Perché ritorna a galla.

Quella precisa situazione era una papera di gomma.

Il suo passato era una papera di gomma. E anche se Ann pregava i pensieri d’abbandonarle finalmente quella casupola bislacca montata su tra un neurone e l’altro, i pensieri non l’ascoltavano, non volevano effettivamente ascoltarla. Un ammutinamento in piena regola era in svolgimento nel cervello di Sandy Ann quasi in McCarter. E Dio solo sa se avrebbe voluto liberarsene definitivamente.

Dio solo sa.

 

 

      -Dio solo sa se vorrei portarvi con me, bambine-.

Frederick Johnsonn assestò gli occhiali sul naso aquilino, sottrasse lo sguardo e serrò la mascella.

-Ma per ora non saprei neppure dove farvi dormire, cosa farvi mangiare e-

-Non ha importanza papà…possiamo mangiare anche panini tutti i giorni. Non puoi lasciarci così-, fremé Ann percependo una lacrima farle capolino tra le lunghe ciglia scure, -Non puoi-.

-Ascoltate principesse…venite qui, attorno a me-.

Virginia e Ann erano scivolate al suo fianco. L’uomo aveva frugato nella tasca dell’impermeabile fino a tirare fuori due scatoline di plastica rossa.

-Una è per te,Ann. E una per Virginia.

Apritele-.

-Che belloooooo!- aveva cincischiato Virginia rimirando il ciondolo a forma d’unicorno alato.

-SSSSSsssssh, principessa. Non urlare o la mamma si sveglierà…porta il rotolo del filo, Ann-.

Frederick Johnsonn legò le estremità delle rudimentali catenine all’esile collo delle figlie.

-Le ho pescate da un robivecchi, giù a Chinatown. Mi ha assicurato che portano fortuna…leggi qui, Virgi-

La bimba lesse: “divise ma sempre unite”.

Il padre annuì soddisfatto. –“Divise ma sempre unite”, si.

Me ne dia due per le mie splendide principesse, ho detto io.Si vendono solo in coppia, signoLe , ha detto il vecchio cinese.E io le ho prese. Erano destinate a voi-.

Un clacson suonò impaziente, in strada. Frederick Johnsonn contemplò la finestra, reprimendo un sorriso soddisfatto.

-Voglio farvi conoscere una persona, principesse-.

Aveva dato la mano ad Ann e presa Virginia per un braccio era uscito dalla casa per dirigersi al lato opposto della strada verso una Mini Minor dalla carrozzeria di un marrone smorto chiazzato di ruggine. La prosperosa bionda aveva un seno enorme ed il sorriso falso.

-Queste sono le mie principesse, Talisa-

-Mmmh.

 Che Carine.

Si va?-

-Certo, certo-. Frederick Johnsonn aveva lasciato la mano di Ann e poggiata Virginia sul marciapiedi.

-Qualunque cosa accada rimarrete sempre le mie adorate bambine.Vedrete che le cose cambieranno, principesse.Tempo un mese al massimo e papà tornerà a riprendervi, vivremo assieme in una casa vera e Talisa vi farà da mamma.Una mamma buona, non è così, Tali?-

-Mmmh.-.

-E’ così, certo. Fate le brave.Vi chiamerò presto. Vi voglio davvero bene, principesse-

-Anche noi pà-, un singhiozzo, -C…ciao papà-.

 

       Nonostante l’ora tarda, nello spazioso studio del dottor Conrad un’infermiera era intenta ad archiviare documenti, una seconda a scaricare delle pratiche nei files. All’ingresso di Ann e del medico l’infermiera al computer fece una smorfia, s’alzò dalla scrivania.

-Ha appena chiamato Clarissa James, dottore.

Vorrebbe informazioni circa la specializzazione di Albert Ashmore-, represse un risolino complice, -Ha detto che visto che lei qui è verboten,dovrebbe saperlo-.

L’infermiera all’archivio distolse lo sguardo. Sul polso sinistro aveva un minuscolo tatuaggio; una farfalla chiusa in un cuore con un nome: Wesley  ed una rosa inerpicata sulla y.

Il dottor Conrad si strinse sulle spalle, sganciò il cercapersone dai pantaloni.

-Hmmmh.

Non lo conosco personalmente, comunque…- da uno scaffale a muro tirò giù una voluminosa cartella grigiastra.  L’aprì.

-…Ashmore…Ashmore… . Tossicologia. Albert Ashmore è specializzato in tossicologia. Richiami la dottoressa James e riferisca.Ora scusateci e non passate telefonate. Venga con me, signorina Johnsonn. Prego.-.

Entrarono in uno studio comunicante col primo tramite un’unica porta, più intimo e discreto e arredato da un’elegante boiserie in noce, un divano e due poltrone in pelle nera, un’ampia scrivania con computer portatile e fax in un lato del ripiano di cristallo ed una vasta libreria ad occupare l’intera parete destra.

-Si accomodi-, la invitò il dottor Conrad e a sua volta sedette su una delle due poltrone in pelle, di fronte alla finestra. Accavallò le gambe, con una mano sostenne il mento.

Era un uomo sui cinquantacinque/ cinquantasei anni, con le spalle larghe e carnagione e barba scure, da arabo. Ann sapeva che godeva di ottima reputazione tra i colleghi seppure odiasse, come le aveva confermato più volte l’infermiera Bloom, qualunque prassi politica o burocratica. Terribile biglietto da visita, per un medico.

-Gradisce del caffè? E’ una brodaglia incolore ma a quest’ora è meglio che niente-

-Grazie dottore,No. Devo ringraziarla per aver acconsentito a ricevermi così tardi-.

-Non ho famiglia e la mia vita è incentrata esclusivamente sul lavoro. Che amo più di quanto amerei un’ipotetica moglie. Dovrò pensare seriamente di trasferire qui in ospedale la mia residenza.-.

Sandy Ann annuì accennando un sorriso, puntò il soffitto. Giocherellò con l’anello di fidanzamento, sfilando ed infilandolo al dito.

-Lei è mancina?- esordì il dottor Conrad.

-Man…? Si.-

-Sua sorella Virginia ha il braccio destro lievemente più sviluppato del sinistro.

Teoricamente sarebbe destra.-

-Lo è infatti…

amava prendermi in giro per la mia particolarità-

-Sua sorella è mancina, Ann. Come lei. E tutto mi fa supporre che lo sia diventata, non nata. Nonostante abbia la concreta possibilità d’utilizzo della destra, vuole la sinistra.

Sua madre era mancina?-

Si, lo era.

-Non… non ricordo- mentì lei, evitando lo sguardo attento dell’altro.

-Vive a Londra da molto tempo?-.

-Abbastanza da conoscerla come le mie tasche.

Mi sta vivisezionando, dottore?-

L’uomo sorrise, si voltò a metà verso la scrivania. Raccolse la Mont Blanc.

-Ben lungi da me questo proposito, signorina. Ma vorrei riuscire a capire meglio sua sorella e visto che lei rappresenta, ora come ora,l’unico filo col suo passato… . Sono convinto che capisce ciò che intendo dire e non mi perderò in preliminari. Voglio essere sincero con lei fino in fondo.-

Ann strinse gli occhi.

-E’ chiaro che Virginia non è riuscita ad inglobare il trauma subito.E fin qui niente di strano, visto che è accaduto poche settimane fa ed il detto il tempo ricuce tutte le ferite è sostanzialmente vero. Ciò che mi preoccupa è che a lei non interessa interiorizzarlo-

-E’ molto magra, la farò mangiare di più e la costringerò a fare un po’ d’allenamento sa, io ho una palestra e-

-Non ci siamo capiti.

Io non parlo del suo corpo. Fisicamente Virginia è ancora debilitata, certo. Ma penso di potermi sbilanciare dicendo che ha superato brillantemente il peggio. Tenerla qui, adesso, è un placebo. Non le stiamo più facendo alcun esame e ho deciso, di comune accordo coi miei colleghi, di dimetterla presto. Anche domani-

-Oddio…grazie!-

-Virginia ha bisogno di qualcuno che l’aiuti a superare l’ansia e il dolore. Ad accettare finalmente l’accaduto e non a dimenticarlo, attenzione. Accettarlo come un percorso di vita purtroppo comune a mille altre persone come lei, o più sfortunate di lei. Accettare il trauma per maturare, per far nascere una nuova Virginia e con lei una nuova vita.

Deve creare con sua sorella un rapporto tale da poterla soccorrere se avrà bisogno di lei-

-Nostra madre era…-

-Si. Ho letto la relazione sul ritrovamento in cantina di Virginia e il suicidio di vostra madre. Era accompagnata da diapositive-

S’irrigidì, fece una pausa.

-Virginia potrebbe diventare come…lei?- Ad Ann parve di annaspare nella melma.

Il dottor Conrad riflettè un istante; l’atteggiamento rimase freddo e analitico.

-Ho fatto ascoltare a Virginia i nastri delle proprie sedute terapeutiche e ha dichiarato di non trovarci niente di strano. In effetti, apparentemente, sembrerebbe la verità.

Ma è la calma con cui lo dichiara, che non mi convince. Virginia è portatrice di una costituzione psicologica eredo-biologica nella quale prevalgono gli elementi razionali: tende cioè a rarefare i rapporti interpersonali e a finalizzarli.

Dall’analisi dell’intelligenza risulta che il rapporto disposizionalità-efficenzialità è spostato a favore del secondo termine; sua sorella tende a risolvere le situazioni non tanto ricorrendo a risorse personali quanto utilizzando gli schemi che ha appreso e dei quali ha fatto esperienza in situazioni precedenti.E’ sostanzialmente un’insicura; soffre di una marcata tendenza all’autosvalutazione per cui di fronte a stimoli particolarmente pressanti tenta di sfuggire all’assunzione di responsabilità dirette, di farsi da parte. Di non mettersi in gioco.

Virginia ha una personalità complessa, esposta ad oscillazioni. Taluni tratti d’insicurezza e apprensività possono essere controllati fino a che non si trova in situazioni di forte stress.

Personalmente signorina, sono sicuro che c’è dell’altro dietro i problemi d’adattamento di Virginia e i demoni sopiti della vostra infanzia.Ma le mie sono solo supposizioni legati a trenta sacrosanti anni di carriera-.

Sorrise rassicurante,scribacchiò un numero un foglio. lo piegò in quattro.

-Tenga. Qualunque problema si presenti non esiti a chiamarmi. E come un padre, le consiglio di parlare molto a Virginia. Di farla parlare, sfogare su quel pezzo di vita che non ci ha permesso di sondare. Mi auguro che lei, come sorella, riesca dove la medicina ha fallito.-

-Non so come ringraziarla, dottor Conrad-

-Tenti di riconciliarla con la vita. Per farlo con sé stessa può riuscirci soltanto volendolo lei, senza l’aiuto di nessuno-

-crede…crede che ci riuscirà?-

l’uomo sottrasse lo sguardo.

-Aiuti sua sorella a vivere-, disse –E farà bene anche a lei, signorina.

Al vostro ritorno da Primrose Lake intendo visitare Virginia ulteriormente, e magari far avviare un ciclo completo di sedute-.

-Ne parlerò con lei. Grazie dottore-.

L’uomo la scrutò e annuì. Aprì una scatola legnosa sulla scrivania e acchiappò un sigaro. Lo spuntò.

L’accese.

 

 

 

      Ann rientrò nella stanza dalle pareti verde scrostato. Virginia dormiva, Jim era in piedi, di spalle, davanti la finestra intento ad osservare l’incessante lavoro degli spazzaneve giù, su una delle mille diramazioni d’ una Londra illuminata a giorno.

Ann mirò la sagoma sotto le coltri calde, con ansia crescente.

-E’ riuscita ad addormentarsi solo dieci minuti fa-, bisbigliò Jim, -l’infermiera ha dovuto somministrarle un sedativo-.

-Oddio- mormorò Ann.

-Oddio, ripetè portandosi una mano sui capelli.