LA FINE DI UN MITO

 

 

La notte gelida in cui andò a morire, niente gli fu risparmiato: nemmeno la carità ipocrita di chi, all’improvviso, scopriva i torti del destino nei confronti di un uomo fragile. Marco Pantani è stato ucciso  da una società  senza amore : certo ha armato la mano del destino con la droga, rifugio estremo delle sue debolezze. Ma a qualcuno forse rimarrà il sospetto di non averlo aiutato quando magari era ancora possibile. Ricordarlo è occasione di rimpianto, rimpiangerlo però è un dovere.

Pantani il campione non meritava e non merita gli sfregi alla memoria, non merita che si dica che le sue vittorie, meravigliose, erano penosamente figlie degli abusi della chimica : perché lui staccava tutti in salita quando ancora era un ragazzino, quando cioè l’epo non esisteva, se non nelle fantasie perverse di stregoni che si spacciano per scienziati.

Il  Pirata di Cesenatico ha lasciato, come retorica impone di affermare, un grande vuoto. Un vuoto incolmabile per chi gli voleva bene, ma anche per chi, attraverso le sue pedalate, si era visto restituire il fascino di un ciclismo perduto, il ciclismo delle grandi imprese, dei capolavori apocalittici consumati in scenari da tragedia.

Pantani era tutto questo, era un personaggio che radunava davanti alla televisione generazioni distinte e distanti e però unite dalla bellezza prodigiosa delle sue azioni in sella ad una bicicletta. Marco il Pelato aveva nell’anima e nelle gambe lo stesso  Dna di Fausto Coppi e non per niente Gino Bartali, ancora tra noi all’epoca dello shock di Madonna di Campiglio, cioè nel 1999, aveva saggiamente ammonito tutti : “ Può darsi abbia sbagliato, ma adesso lasciatelo pedalare in pace”

Non è accaduto, non è andata così. I pentiti del giorno dopo, il giorno dopo la macabra scoperta nella stanza di un  hotel di Rimini, sono ormai un esercito. A Marco Pantani intitolano strade e dedicano monumenti. Forse perché la sua storia è lo specchio della cattiva coscienza di noi tutti.

 

NICOLA COSTANTINO