IL VENTO DEL VOLERE

di Paolo Fiaschi

Prefazione

Questo libro è dedicato alla volontà, al suo mutare nel corso di una vita, al suo essere in balia del vento ancor più d’ogni foglia caduta da un albero autunnale.

E’ un libro che parla di ciò che l’uomo voleva, di ciò che vuole e subito dopo di ciò che avrebbe voluto, secondo uno schema che solo chi ha disegnato la nostra vita è in grado di conoscere.

Un sincero grazie a coloro che hanno sfogliato questo libro, nella speranza che il “vento del volere” consenta loro di completarne la lettura.

 

 

Il pensiero è il vento che ha preceduto l’inizio dell’universo; discreto e fedele conduce l’uomo per mano senza mai farsi notare.

Non potendo, l’uomo, leggere direttamente il pensiero si è dovuto inventare la parola; con la parola, che esprime il pensiero (o una parte di questo) si è accordato con gli altri uomini per la conquista del mondo intero.

La Terra di fronte a tanta energia, racchiusa in così piccolo spazio, non ha potuto far altro che soccombere.

E così è stato.

L’uomo è il suo stesso pensiero.

O lo era; fino a quando non è giunta la volontà, nemica giurata del pensiero.

La volontà impedisce al pensiero di sgorgare liberamente e trasformarsi in parola.

Il pensiero è l’acqua che cade dal cielo: si raccoglie nei fiumi e ritorna al mare, sua origine.

La volontà prosciuga questi fiumi di parole, o li inquina.

Lorenzo era immobile, assorto nei suoi pensieri.

Il pensiero a volte diveniva incessante, quasi doloroso.

Era un vulcano roboante che sputa fuori il magma incandescente.

Poi la calma; e con la calma dal terreno spuntano dei fiori bellissimi.

Il tempo di ammirarli, di compiacersi e poi di nuovo una colata a spazzar via tutto.

I suoi pensieri fiorivano e subito morivano.

Nell’abbazia dove aveva studiato teologia aveva passato intere notti vittime di questo moto perpetuo.

La notte il pensiero scorre più lento; ha la parvenza di un gas che a poco a poco riempie la stanza, un gas che inebria chiunque lo respiri.

 

Al mattino Lorenzo si svegliava stanco ed agitato come se durante la notte avesse combattuto contro qualcuno.

Urinava, versava un po’ d’acqua nel lavabo e si guardava allo specchio un istante prima di gettarsi l’acqua gelida sulla faccia.

Lo specchio rimandava la sua immagine con una particolare espressione e lui cercava di coglierla e fissarla nella mente.

Da quell’insieme di tratti e lineamenti, ogni volta un po’ diversi, spremeva il succo dei suoi pensieri; quasi che questi, durante la notte, gli si appiccicassero alla faccia e lì rimanessero fino all’impatto col primo getto d’acqua del mattino.

Durante il giorno ripartiva il tempo che Dio concedeva tra lo studio delle Scritture e le varie attività che si svolgevano all’interna dell’abbazia.

Amava in particolar modo curare le piante.

Era affascinato da quel ciclo continuo di nascita, vita e morte che si susseguiva in modo così naturale, lontano mille miglia dalla dolorosa vicenda umana.

Si fermava ad osservare un piccolo seme, immobile, nel palmo della sua mano e, fissandolo, cercava di carpirne il segreto; lo sprigionarsi di tanta energia, che ora appariva inerte, lo rimandava alla bomba.

Era sempre la stessa energia che ora donava la vita, ora distribuiva la morte.

“Il confine è sempre così labile; il genio e la follia, la dittatura e l’anarchia, la santità e la perdizione”, pensava.

“Gli estremi si confondono perché hanno in comune l’esasperazione dello stesso concetto”.

Gli altri fratelli lo scuotevano: - Ehi Lorenzo, non puoi fermarti a meditare per ogni seme che tieni nella mano!

 

Un giorno la musica entrò prepotentemente nella sua vita e vi entrò dalla porta principale.

L’organo a canne della cappella, quello solito, ma seduto di fronte uno sconosciuto.

L’armonia permeò tutto ciò che si trovava all’interno e Lorenzo non poté sfuggirle.

Passò giorni e giorni a conoscere ogni tasto dello strumento e se innamorò perdutamente.

Lasciò che la musica divenisse la sua compagna di tutti i giorni, senza mai tradirla.

Tra tutte la parole spese per Lei, quelle di Shelley lo avevano rapito:

“Musica, chiave d’argento che apre la fontana della lacrime ove lo spirito beve finché la mente si smarrisce; soavissima tomba di mille timori, ove la loro madre, l’Inquietudine, simile ad un fanciullo che dorme, giace sopita nei fiori …………..”

La musica divenne il nutrimento della sua anima al pari delle Scritture e Dio il grande direttore d’orchestra.

Il Grande Direttore d’orchestra, lassù, non esige una composizione all’unisono, ma lascia che ognuno partecipi all’armonia generale nel modo e nel momento più opportuno.

Anche la partitura viene lasciata al libero arbitrio dell’esecutore: un’esecuzione particolarmente bella può ispirare qualcun altro e spingerlo a far lievitare le proprie note.

E’ la Sintonia.

Altre volte l’esecuzione è così in contrasto con l’armonia, che nessuno l’asseconda.

Il Grande Direttore lascia che sia.

Poi l’armonia torna di nuovo.

E’ bello anche solo ascoltare, lasciarsi cogliere da quell’infinità di suoni così diversi e così uguali tra di loro.

Romeo rallentò di colpo.

     -          Signorina, ha del tempo da perdere?

-          Anche se l’avessi non lo sprecherei così!

-          Volevo solo essere un po’ originale, non vendo libri.

-          Spiacente, non m’interessa né l’una, né l’altra cosa.

 

La ragazza allungò il passo; Romeo si soffermò, indeciso sul da farsi, poi la raggiunse di nuovo.

 

-          Mi conceda una sola possibilità, poi sparirò per sempre dalla sua vita (mentitore! Sapeva che non sarebbe stato così).

-          La tua possibilità l’hai già avuta e l’hai già sprecata!

-          Non è possibile: se avessi avuto una possibilità me ne sarei accorto. Posso almeno sapere dove sei diretta?

-          Alla mia auto, vado di fretta!

-          Anch’io vado di fretta, ……… per starti dietro.

-          Ehi, ma non molli mai? (sorridendo)

-          Mai sul più bello. Io sono Romeo, e tu?

-          Io Cristina.

-          Senti Cristina, oggi vai di fretta, ma forse un altro giorno avrai un po’ più tempo a disposizione ……… che ne dici se ti chiamo?

-          Per chiamarmi dovresti avere il mio numero di telefono e non credo riuscirai ad averlo.

-          E per quale motivo?

-          Perché io non lascio il mio numero al primo che capita.

-          Ma io non sono il primo che capita! Questo qui o quell’altro sono il primo che capita; io ti seguo da una vita, e adesso che è capitata l’occasione …………

-          Io sono arrivata, questa è la mia auto, Piacere di averti conosciuto. Se capiterà di incontrarsi di nuovo, potremo bere qualcosa insieme, OK?

-          Beh, se non mi lasci altre alternative ……… (con aria afflitta)

-          Non devi abbatterti, se il destino vuole ………..

 

Ma lui, il destino, lo conosceva bene.

Purtroppo aveva imparato a conoscerlo e sapeva che non concedeva mai una seconda possibilità, o almeno non così spesso come lui avrebbe voluto; così aveva iniziato a truccarlo, il destino.

Rimase fermo sul marciapiede a vederla partire: lei, guardandolo dallo specchietto retrovisore, lo salutò con la mano e lui, fulmineo, salì sulla sua auto e la seguì fin sotto casa.

Poi ripartì senza farsi notare.

Un mese dopo erano seduti, uno di fronte all’altro, al tavolo di una trattoria in collina: tra di loro la luce fioca di una candela, sotto di loro le luci metalliche della città.

-          ………. io penso che l’eternità sia la dilatazione sconfinata del tempo.     Un tempo infinito potrebbe anche essere noioso, non pensi? chiese Cristina.

-          O forse è il tempo che cessa di esistere. Al di là del tempo c’è tutto quello che la mente non può comprendere, aggiunse Romeo.

-          Non credi sia assurdo pensarci?

 

Silenzio.

 

-          Se io potessi dare l’eternità ad un solo istante della mia vita, sceglierei questo.

E la baciò.

 

Sei mesi dopo ripeterono la loro promessa d’amore davanti a Dio.

-          Non saranno più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non separi ciò che Dio congiunse, sentenziò padre Lorenzo.

 

Trascorso un anno osarono separare quello che Dio aveva unito e da una tornarono ad essere due carni.

Romeo aveva un rapporto viscerale con le immagini: ne assorbiva l’essenza con una voluttà sfrenata.

Considerava la bellezza e l’armonia della donna, le manifestazioni più evidenti della Grazia divina.

(Così era stato anche per Cristina).

Il sesso sporcava questa Grazia.

Romeo tendeva verso l’alto, mentre il sesso lo spingeva giù, in basso; ne era consapevole.

Ogni volta sapeva risalire, non vi era problema. Temeva invece per lei, per Cristina. La vedeva scivolare sempre più in basso senza mai risalire.

Aveva smesso di parlarne col suo amico quando questi gli aveva detto:

-          Ehi, ma stai diventando frocio? Guarda che se non la scopi tu, lo farà qualcun altro!

Le donne avevano riempito la sua vita.

Le amava e le desiderava.

Ma più di ogni altra cosa, amava conquistarne l’anima; il corpo era il trofeo che ritirava dopo aver vinto la gara.

-          Cristina, se noi non potessimo più fare l’amore, tu rimarresti accanto a me per sempre?

-          Certo che lo farei, disse lei.

Capiva che non sarebbe stato così.

 

E’ naturale che lo sguardo incontri ciò che all’orizzonte più l’attrae. E’ meno naturale che continui a seguirlo dopo che è uscito fuori dell’orizzonte.

Cristina si irrigidiva ogni volta che scopriva Romeo a voltarsi per una donna.

Romeo, colpito da un’insolita espressione del volto, cercava il riscontro nella retrospettiva.

L’incedere, il modo di alzare i piedi dal suolo, uno dopo l’altro, gli confermavano, o meno, l’intuizione.

Ma il centro intorno al quale ruotava la possibile armonia era il sedere.

Era come ammirare un dipinto di Rubens.

Il tratto più o meno marcato conferiva al corpo un equilibrio diverso, una diversa simmetria.

Le natiche stavano lì, al centro, passive come sacchi di sabbia posti a difesa.

Freud faceva risalire la paura di mostrare il sedere al mancato superamento della fase anale, quella in cui il bambino diventa autonomo dal punto di vista sfinterico.

Il fatto di dover imparare a trattenere le feci, può preoccupare il bambino fino al punto di renderlo frenato, inibito e quindi poco generoso.

Romeo non pensava a tutto questo; si limitava all’approccio estetico e ne soppesava i contorni ed i volumi come se avesse di fronte “La Venere allo specchio” di Velazquez o “Le tre Grazie” del Botticelli.

Non c’era pulsione o desiderio sessuale in tutto questo.

E non pretendeva che Cristina capisse; così finse di assecondare i suoi divieti.

 

Dopo l’ennesima curva Romeo vide finalmente la casa.

Lorenzo se ne stava in piedi, immobile, tra le piante; teneva qualcosa nel palmo della mano, con gli occhi fissi verso l’orizzonte.

Pareva pregasse.

-          Scusa se ti disturbo ….

-          Ma no, figurati.

-          Non sto a dirti che passavo di qua per caso, perché ti direi una bigia. Mi andava di parlare un po’ con te, disse Romeo.

Gli si avvicinò.

-          Quando una coppia giunge a dividersi è comunque una sconfitta, una sconfitta per entrambi. Il problema è che non ho la sensazione di aver perso questa partita, quasi non fossi stato io a giocarla. Forse la mia mente ha già rimosso la negatività della mia storia con Cristina, o forse non l’ha mai accolta, continuò Romeo.

-          Quando studiavo in seminario mi capitava di essere preso da diversi dubbi sul mio futuro prossimo, disse Lorenzo.

-          Tra tutti, quello più ricorrente, era questo: è più giusto cercare Dio nel donarsi al prossimo o nel donarsi esclusivamente a Lui? “Ama il prossimo tuo come te stesso” o “Non avrai altro Dio all’infuori di me”? Non che siano in antitesi. Sono due diversi modi di raggiungere lo stesso risultato: l’incontro con Dio. Ma questo Dio va ricercato nella proprio esperienza personale o attraverso gli altri?

Ad essere sincero non ho una risposta.

Forse chi, nella solitudine della propria anima, riesce ad incontrarlo, non può fare a meno di trasmettere agli altri la gioia di quell’incontro. La testimonianza diretta vale più di mille discorsi: chi veramente riesce a scoprirlo nei propri percorsi spirituali, brilla di una luce tale che nessuno può non vedere.

La strada che tu avevi scelto ti portava dritto verso il prossimo.

Forse non ti sei mai mosso da lì; credevi di andare avanti ed eri fermo.

-          Quando ho conosciuto Cristina sono stato travolto dall’euforia, riprese Romeo.

-          Veleggiavo sulle onde dell’entusiasmo e mi sentivo padrone del mare. L’euforia è una droga naturale che altera la visione del mondo proprio come gli atri stupefacenti.

Prima che l’effetto terminasse, l’ho sposata.

Non mi pento di quello che ho fatto. Ho sempre pensato che si deve vivere il momento e adesso sono qui a guardarmi indietro…

Romeo lasciò cadere nel vuoto le ultime parole.

Poi si accorse che Lorenzo aveva in mano una zolla di terra e la stava sbriciolando.

-          Se siamo solo polvere, presto torneremo ad esserlo; ma se in quella polvere Dio ha soffiato un’anima per ognuno di noi, un giorno saremo giudicati. Ma in base a che cosa? Saranno giudicate la nostre azioni o sarà giudicato il nostro essere? Conterà ciò che abbiamo fatto o ciò che siamo? Non curarti di quello che hai fatto e del perché lo hai fatto; ascoltati ora, in questo momento, e cerca di capire quanto ti è ignoto. Adesso però beviamo qualcosa insieme, terminò Lorenzo.

-          Ti seguo volentieri, disse Romeo con franchezza.

-          Di fronte ad un buon bicchiere di vino, la conversazione è più che mai piacevole. Si perdono le inibizioni e ci si sente più leggeri. La mente allenta il suo controllo sul corpo e qualcosa dentro tende verso l’alto.

-          Stai parlando dell’ubriachezza? Chiese Lorenzo sorridendo.

-          No, non è il mio caso. Io non bevo spesso. Quando lo faccio, però, indulgo sino a procurarmi una gradevole euforia, disse Romeo alzando il calice con la mano destra.

-          Devi stare molto attento all’euforia; potrebbe rivelarsi più pericolosa dell’alcol (con sarcasmo, Lorenzo). Il dottor Fleming, lo scopritore della penicillina, affermava che se il suo farmaco guarisce gli uomini, i grandi vini e liquori riescono addirittura a renderli felici.

-          Bravo il nostro dottor Fleming ! disse Romeo abbozzando un applauso.

-          Del vino di queste bottiglie ricordo ogni singola ciocca d’uva. Non può esserci lo stesso amore nei confronti di una bottiglia che acquisti sui banchi del supermercato. Non dico sia giusto o sbagliato. E’ una situazione di fatto che crea un distacco sempre maggiore nei confronti dei beni di cui necessitiamo ogni giorno. Una volta questo distacco era una prerogativa dei beni superflui.

-          Solo l’uomo, tra tutte le creature, è alla ricerca del superfluo, sentenziò Romeo.

-          Già! (pausa) Desiderare il lusso, da solo, contraddistingue l’uomo dall’animale, ribatté Lorenzo.

-          E noi beviamoci su ! (invitando Lorenzo al brindisi).

-          Cosa importa il mio nome, la mia età, la mia professione, i miei errori; io non sono niente di tutto questo. Ciò che conta siamo io, tu e questo grande vino, ora, concluse Romeo.

-          Bene vedo che stai tornando a concentrarti sul momento. E con la dovuta calma. La velocità impedisce all’uomo di gustare fino in fondo il piacere dell’esistere. Se solo provassimo a pensarci ! Noi crediamo di essere attivi, ma in realtà quello che facciamo non è agire, ma reagire. Gli stimoli sono esterni. Al di fuori di noi. Io amo le persone che indugiano, che non accelerano, che si fanno portare dalla vita. La lentezza è il presupposto della contemplazione. In passato l’uomo lavorava quel tanto che era necessario per vivere, senza mirare al superfluo. Tutto il resto era tempo per riflettere, per pensare. Adesso c’è chi lo fa per noi, ed è tutta fatica risparmiata (con ironia). Tanto più che ……

Romeo non era solito interrompere Lorenzo; aspettava che il suo periodare (a volte un po’ lungo) giungesse alla naturale conclusione. Quella volta, però, prese la parola spinto da un impulso aggressivo.

-          Ma se tutti corrono veloci, ed uno di punto in bianco decide di rallentare, non può che divenire un perdente, un escluso ! Per te è facile vivere qua da solo ed adattarti ai ritmi della natura. La natura è lenta, ma laggiù sono tutti dannatamente veloci !

-          Sicuramente rallentare vuol dire andare contro corrente, se è questo che intendi. E vivendo una vita di relazioni si corre il rischio di rimanere un po’ tagliati fuori. Ma non dovremmo mai permettere a nessuno di manipolarci. E poi spesso i vincenti vincono laddove i perdenti non intendono giocarsi la vita. La vera questione è attribuire il giusto valore a tutto ciò che entra nel nostro tempo.

 

Romeo scese lentamente lungo i tornanti che prima aveva imboccato con l’ansia di chi non riesce a scorgere la meta.

Si fermò, dopo qualche chilometro, in un piccolo borgo.

Parcheggiò l’auto e si diresse verso la piazza. Lungo i percorso incontrò tre o quattro persone e tutte, sorridendo, gli porsero la loro “Buonasera” o la loro “Buona giornata”.

Arrivato nella piazza vide che c’era un solo bar; aveva qualche tavolino fuori, all’aperto.

Attorno ad uno di questi c’erano quattro anziani che, tra un sorso di vino e un’aspirata di tabacco, giocavano a carte.

Romeo si sedette ad un tavolo vicino, calamitando per qualche istante l’attenzione degli ometti.

Attese che la cameriera-cassiera-proprietaria si accorgesse di lui e poi ordinò un’aranciata qualsiasi.

Sul vassoio che aveva in al suo ritorno c’erano un lattina ed un bicchiere vuoto; appoggio questo sul tavolo, aprì la lattina e se ne andò.

Romeo si mise a riflettere sul fatto che le persone che aveva incontrato per strada si erano mostrate cordiali (non la cameriera. cassiera-proprietaria, che forse aveva troppi ruoli da svolgere allo stesso tempo.

In città nessuno ti rivolge la parola se trova davanti (come sarebbe possibile, anche volendo, con tutte le persone che ci sono.

Forse è per via del fatto che dove la natura è più forte e l’uomo più debole (in campagna), gli uomini sentono più il bisogno di allearsi con altri uomini. Si sa, l’unione fa la forza.

Mentre in città la gente si sente sicura tra tutte quell’altra gente che va e viene da ogni parte.

E poi ci sono gli edifici e le grandi costruzioni, per ricordarci  ogni istante che lì, l’uomo, ha dominato l’ambiente.

Tutto questo ci dà fiducia. Una fiducia che qui, in campagna, manca.

E la gente si appoggia l’uno all’altro, come fossero tutti zoppi.

Poi osservò il fondo del bicchiere vuoto; capì di non avere sete.

Mise una banconota sul vassoio e se ne andò.

 

La vera conquista dell’uomo non lo spazio; lo intuì quel gruppo di scienziati che passarono dallo studio dell’infinitamente grande allo studio dell’infinitamente piccolo.

C’è un filo sottile che lega le orbite degli elettroni attorno al nucleo dell’atomo, alle orbite dei pianeti attorno alla massa del Sole.

Lungo quel filo scorre l’armonia.

L’uomo, che ne è attraversato, non può fare a meno di sentirvisi legato.

Quando non sono presenti forze che lo spingono verso altre direzioni, la percezione di questo legame è molto chiara.

Romeo giocava con i pensieri e si innamorava delle proprie idee; se ne innamorava senza sposarne alcuna.

Alcune lo tradivano, e lui le perdonava come si perdona un’amante.

Era un’appassionata storia d’amore, durante la quale riusciva a possedere l’idea.

I pensieri no. Quelli erano di tutti.

Erano tanti fiori in un prato sterminato: il tempo di coglierne uno, portarlo al naso, aspirarne il profumo, e subito se ne apriva un altro pronto a farsi sollevare da terra.

L’idea è una pianta: ha bisogno di cura ogni giorno.

E poi l’attenzione non basta. La pianta muore ogni giorno.

Deve essere così.

Avere senso estetico vuol dire saper lavorare la materia fino ad estrarne tutta la bellezza.

La fotografia è il concentrato della materia lavorata.

Romeo cercava l’essenza in ogni aspetto della vita; si vedeva costretto a vagare attorno al nucleo come un elettrone impazzito, prima di arrivarvi.

Bastare fissare l’obiettivo su qualcuno e …….click, uno scatto e quell’istante era impresso per sempre su di una pellicola.

Centomila di quegli istanti, ogni giorno. Ma solo quello bloccato; gli altri lasciati passare come inutili.

E noi occidentali a ridere degli indigeni africani, per quella loro paura che con l’immagine se ne vada via anche l’anima.

A ridere ! Di cosa ?!

Quando un giorno arriveranno i marziani, quelli verdi, e ci punteranno contro i loro aggeggi spaziali per leggere il nostro codice genetico, saranno gli indigeni a sbellicarsi dalle risate !

 

Era tardi quella sera.

Dopo aver fatto l’amore si erano addormentati.

Romeo si svegliò per primo e rimase per un po’ a guardare Letizia che gli dormiva accanto.

Poi uscì e si diresse a piedi verso il suo appartamento: distava solo qualche isolato.

Le vetrine dei negozi erano illuminate, i marciapiedi vuoti.

Camminava lentamente, attratto da quella sterile esposizione d’oggetti.

Le vetrine erano tante barchette ormeggiate lungo il fiume; la notte il fiume era asciutto e loro toccavano il fondo, tristi e desolate.

Più in là una prostituta:

-          Ciao bello, ti va di scopare ?

-          No, grazie (sorridendo) e tirò avanti.

No, grazie ?! Non gli stava offrendo un viaggio gratis alle Maldive, ma solo di comprare un po’ di piacere, di quello sessuale.

A lui venne “No, grazie” come un bambino ben educato che sa di dover sempre rifiutare, alla prima.

Dopo che la chiave ebbe spalancato il portone d’ingresso, salì i tre piani di scale, uno scalino alla volta, con l’ascensore vuoto ad attenderlo a piano terra.

Si svegliò la mattina dopo al suono delle campane.

Era domenica e le campane dicevano a tutti che quello era il giorno del Signore.

Alzatosi dal letto guardò dalla finestra: era un brulicare di turisti.

Per ognuno si poteva immaginare una storia diversa, fingendo di dimenticare che spesso, troppo spesso, le vite si assomigliano.

Procedevano ordinatamente lungo i marciapiedi; ogni tanto qualcuno indicava qualcosa e tutti seguivano con lo sguardo.

Romeo, istintivamente, lasciò posare la vista sul portale della chiesa che i turisti stavano ammirando.

Lo vide diverso, più luminoso.

“Il condizionamento esterno” disse tra sé e sé.

Poi la guida allungò il braccio verso il balcone dove lui era affacciato: tutti si voltarono e lo osservarono come si osserva una statua greca.

Con la stessa entusiastica ammirazione.

Romeo non poté fare a meno di riderne: dall’alto del suo balcone, in mutande, troneggiava sulla città come una divinità.

Decise poi di andare in chiesa ad assistere alla predica domenicale (in fondo erano state proprio le campane a svegliarlo).

Entrò in silenzio ed in silenzio si mise a sedere nell’ultima fila.

Il parroco stava parlando del perdono e di come tutti si debba perdonare al proprio nemico.

Ci pensò su e si disse che era giusto.

“Andate in pace” e la gente si riversò in strada.

Romeo rimase ancora un po’.

La fede aiuta l’uomo a vivere.

Tu non sei nessuno e Lui è Dio.

Non puoi vivere da Dio, nemmeno se hai tutto (che poi è niente).

Credere in Dio è la scommessa più grande e più bella che un uomo possa fare.

Le sue riflessioni furono interrotte dal suono dirompente dell’organo a canne: era una marcia nuziale.

Forse qualcuno stava provando per un matrimonio.

Poi il tono divenne più triste, quasi un addio.

Romeo ascoltava con gli occhi rivolti alle vetrate colorate, che filtravano una luce bianchissima dalle mille sfumature.

Si sentì il cuore gonfio di tristezza ed ebbe voglia di piangere.

Provò a distrarre la mente, ma le lacrime stavano già traboccando dagli occhi, lungo il viso.

 

Lorenzo fu colto dalla commozione quando si accorse che le rondini avevano scelto il suo tetto, per costruirvi il loro nido.

La mattina vedeva la mamma uscire e salutare i piccoli.

Ritornava al tramonto con qualche vermicello in bocca e tutti si affannavano per prenderli.

L’amore materno; forse quello più grande.

Poi, pensò, i piccoli cresceranno ed un giorno la madre, in silenzio, li vedrà volare via, volare via per sempre.

Ognuno verso alla sua vita.

L’amore più grande rende liberi.

Il resto è egoismo, è amore che chiede, che esige. E’ amore che non riuscirà mai a volare altissimo, sopra le vette del mondo.

L’amore di Dio è quello più grande; quello che ci ha reso veramente liberi, liberi di esistere, liberi di vivere e di morire, liberi di odiare e d’amare.

Dalla casa di Lorenzo si godeva la vista dell’intera vallata.

La sera, al crepuscolo, le luci della città si accendevano un poco alla volta, come piccoli funghi sul prato bagnato.

Il mosaico si componeva a poco a poco, fino a divenire un caldo tappeto di luce.

Il silenzio accompagnava le sue serate.

Quando il tempo era clemente stava seduto su una vecchia sedia di bambù, con un libro aperto sulle ginocchia, a veder passare il tempo.

E come lo seguiva !

Una luce di fari, di tanto in tanto, si staccava dal resto e saliva un po’ alla volta.

Brancolava nel buio, circospetta, e poi n’era avvolta.

Fu una di quelle luci che una sera giunse fino alla casa di Lorenzo.

Quel che vide fu una donna spinta con violenza fuori da un’auto (l’auto ripartì a gran velocità).

La donna era abbigliata in modo piuttosto vistoso.

Quando si avvicinò, capì che era una prostituta.

-          Che stronzo ! Quel grandissimo figlio di puttana mi ha scippato !

-          Ma lei, signora, aveva accettato un passaggio da quel grandissimo figlio di puttana ?

-          Certo, ma io non pensavo che lo fosse. E poi quale passaggio ! Lei non ha capito qual è il mio mestiere ?

-          Eccome ! Il suo è il mestiere più antico del mondo.

-          La pianti con queste stronzate. Piuttosto mi faccia chiamare un taxi per farmi portar via da questo schifo di posto !

-          Io, qualche anno fa, ho avuto la sua stessa sensazione, tant’è che ho deciso di viverci.

-          Mah, contento lei …..

-          Se vuole le offro un goccio di vino.

-          Volentieri, ma prima vorrei telefonare.

-          Mi segua.

E lo seguì. Lorenzo l’accompagnò al telefono, poi a sciacquarsi la faccia ed infine fuori, davanti alla sua solita bottiglia di vino.

Due sedie e due bicchieri vuoti.

Uno dopo l’altro si riempirono. Erano già passati quindici minuti; il taxi non arrivava (la città era lontana).

Primi segni d’impazienza. Il suo piede si muoveva ad un ritmo frenetico.

Sola, quasi al buio; stanca, quasi ubriaca, con un prete di fronte.

-          La gente credi di vederci dentro: “Quella è una puttana”, ed in quell’etichetta ci mettono tutto, dimenticandosi tutto il resto. Quello che facciamo è affittare una cavità del nostro corpo, dentro la quale l’uomo strofina il suo membro. Per me, quest’insieme di cellule è un involucro; è un vestito ancora più intimo del reggiseno e delle mutandine, ma pur sempre un vestito. Nel prostituirmi io do in prestito qualcosa che non mi appartiene. Gli uomini credono di possedermi. Quando mi scopano, spingono ansiosamente, si sforzano, quasi intuissero che quello è solo il contenitore all’interno del quale c’è ciò che loro cercano.

-          Non pensi di detestare il tuo corpo ?

-          No, gli do solo il suo giusto valore. Molti di quelli che mi chiamano puttana, e non nego di esserlo, si privano di qualcosa che gli appartiene intimamente: si privano di una loro parte stessi. Per soldi, fama, successo, ma soprattutto per ottenere l’approvazione degli altri, rinunciano alla libertà del loro pensiero e quindi a loro stessi. Si vedono costretti a dire certe cose e a fare certe cose, solo per ottenerne delle altre, ed alla fine arrivano ad ottenere ciò che ottengono solo per continuare a pensarle. Vittime sacrificali del loro pensiero distorto. Che stronzi !

-          E se questi stronzi non esistessero più, tu cosa faresti ?

-          Io ? …….. m’innamorerei.

-          E perché non provi a farlo ?

-          Non puoi chiedere ad un pesce perché non vola. Ma se tutto fosse diverso ……..

-          O se tu fossi diversa. Il mondo può andare così com’è, non credi?

-          Il taxi è arrivato ……. devo andare. Chissà, forse c’incontreremo ancora……

-          Chissà …….

Lorenzo la vide allontanarsi, poi pensò che non avrebbe avuto i soldi per pagare il taxi e che di lei non conosceva il nome.

Le luci tornarono ad essere dei puntini lontani e il silenzio, il compagno fedele di un viaggio che finisce sempre nello stesso punto.

Le barriere che dividono gli uomini sono milioni, invisibili ed eterne.

Il viaggio è il loro superamento.

Viaggiare è spartirsi un tesoro nascosto, con gli altri e da solo.

Andando verso il mondo s’incontra sempre qualcuno, pur stando fermi.

La sera gli uomini sono all’ombra di Dio.

Lorenzo vide la sua solitudine, fino allora serena.

La vide elegante e leggera, mentre cercava di conquistarlo; poi la vide triste e sconsolata, nell’atto di abbandonarlo.

Capì che in cuor suo stava desiderando una donna.

Un brivido affilato percorse tutto il suo corpo, impedendogli di respirare. Le mani strinsero il vuoto e tutto il freddo del mondo entrò nella sua stanza.

Tremava d’amore: di un amore sconfinato che aveva smarrito la direzione, di un amore nato orfano.

Tutta quella ricchezza che sentiva dentro e nessuno da arricchire fino in fondo.

Il bisogno d’amore era entrato in lui.

Lo slancio naturale verso una donna, la passione, il peccato.

Qualcosa di terribile risuonò in lui.

La colpa, l’accusa, il castigo; la pena, l’indulgenza, la commiserazione.

L’uomo.

Si alzò e scorse le stelle dalla soglia della porta: come diventava piccolo il valore del sacrificio in mezzo a quell’universo sconfinato.

Al tempo stesso la bellezza del cielo lo riempiva, lo saziava.

La bellezza allo stato puro non esiste.

Non c’è donna bella, o bel quadro, o bel paesaggio che tenga.

La bellezza è la pace dell’anima.

Se l’animo dell’uomo è in uno stato d’armonia, c’è bellezza ovunque si volga lo sguardo.

La passione, figlia mai riconosciuta della bellezza, è il turbamento dell’anima.

In quell’eccesso di slancio si crede di cogliere la bellezza, ma ci s’illude.

Il preda all’illusione, Lorenzo visse lo spasimo del cuore.

Si squarciarono tende e credenze, la fede si sbriciolò.

Crollarono le convinzioni più arroccate e sicure.

Un raggio di luce intensa illuminò un percorso diverso, un vita possibile; in questa vita una donna, dei bambini e tanti adulti che gli correvano incontro per abbracciarlo.

Una festa di colori su di un prato, con la musica e tutti che ballavano e ridevano da sembrare felici.

I bambini che giocavano attorno ad una palla ed un cucciolo di cane a corrergli dietro.

Un albero carico di frutti e tutti ad arrampicarsi sui rami ed abbuffarsi fino a riderne.

Una donna sola, bellissima, vestita di lino bianco, che lo aspetta all’ombra del loro albero.

Il sogno svanisce, si dilegua.

E’ acqua versata dentro un fiume; e tutto torna a fluire.

 

Secondo un’antica credenza indù, gli uomini in passato erano dei; poiché abusarono della loro divinità, questa fu loro tolta e nascosta nel luogo più impenetrabile: al loro interno.

Così gli uomini l’avrebbero cercata per mari e monti, senza mai riuscire a trovarla.

Questa la credenza.

Poi gli uomini intuirono che la felicità che andavano cercando poteva essere al loro interno.

Così cominciarono a scandagliare i fondali dell’animo.

Scoprirono molto della psiche dell’uomo, dei vari meccanismi che lo regolano, ma niente che potesse renderlo davvero felice.

Cercavano una verità, una formula magica che da sola cambiasse l’uomo.

Non la trovarono.

Non capirono.

Forse ne videro traccia, ma non lo compresero.

Ciò che Dio aveva riposto al nostro interno era ormai schiacciato sotto il peso dei legami col mondo.

E non bastò scavare.

Conoscevano l’apatia in un’accezione negativa, come assenza di un qualsiasi interesse e non capirono che sarebbe dovuto essere proprio quello il punto di partenza per la loro scoperta.

Solo chi si stacca da ogni interesse specifico può approdare ad un interesse per il tutto, completo e complesso.

L’approccio è di meraviglia, di uno stupore imbevuto di razionalità verso ogni aspetto della vita, anche quello più insignificante.

Spesso è proprio nella banalità degli eventi che si colgono le verità più profonde.

La complessità artificiosa della vita di tutti i giorni ci ha collocati in un mondo appositamente costruito per noi, in un grande albergo dove tutti dormiamo, credendo di vivere.

E forse a vivere veramente sono solo i pazzi.

I pazzi? I pazzi!

Nei giorni di festa Romeo si alzava piuttosto tardi, accendeva la radio e si affacciava alla finestra.

La combinazione musica – tempo meteorologico emanava un po’ del sapore che la giornata avrebbe avuto.

Era il suo modo d’essere fatalista.

Non interrogava carte o sfere di cristallo; si limitava ad accendere la radio e ad aprire la finestra.

Del resto la musica lo aveva sempre accompagnato.

La canzone nasceva neutra, e poi si connotava di una carica positiva o negativa, in base all’umore del momento in cui l’ascoltava per la prima volta.

Romeo abbandonava il letto per andare a sedersi ai tavoli all’aperto del suo Caffè, dove nelle giornate di primavera i raggi del sole giungevano più che mai piacevoli.

Attilio, il cameriere del Caffè (quasi un’istituzione), conosceva i suoi gusti alla perfezione.

Non appena lo vedeva arrivare ordinava un cappuccino con poca schiuma al barman.

-          Buongiorno Romeo, ecco il tuo solito cappuccino.

-          Ciao Attilio, come va ?

-          Alla grande. Il grande capo mi ha appena concesso due giorni di ferie.

-          Bene; così il prossimo fine settimana ti dai alla fuga.

-          Ma che fine settimana, io mi dileguo prima. Il week-end è il momento più bello per un cameriere. Si vedono gli amici e qualche turista …… (volge la testa) …….. in più.

-          ……. Veramente signorina quel tavolo sarebbe prenotato; se per lei è lo stesso può accomodarsi qui.

-          Non c’è problema, dice lei.

Romeo le abbozzò un sorriso e poi corse con lo sguardo a ringraziare Attilio.

-          Se le va di accettare un consiglio da un estraneo, qua fanno cappuccino ottimo, le disse Romeo.

-          Grazie per il consiglio.

-          Signorina, se vuole ordinare ……, propose Attilio.

-          Un gelato.

-          Benissimo.

-          Ah dimenticavo, disse Romeo, qua hanno anche un gelato eccellente.

-          Lo sapevo, mi ero informata !

-          Il suo è un viaggio di piacere o un noiosissimo viaggio di lavoro ?

-          Di piacere, di piacere.

-          Questo è il periodo migliore per visitare la città. Se vuole approfittare di me ……

-          Grazie ma vede, sono qui con mio marito, e non credo la sua cortesia si spinga fino a tanto.

-          Beh, a fare il terzo incomodo non ci penso proprio.

-          Se dovessi ricapitare da queste parti, da sola, so dove trovare una buona guida.

E tutto sfumò con nostalgia di entrambi.

Romeo sorseggiò il cappuccino, chiuse gli occhi, e pensò ad un finale diverso.

-          Sei qui da sola ?

-          No, sono ospite da un’amica; questa mattina era impegnata, così ne ho approfittato per fare un giro da sola.

-          Ammirevole iniziativa.

-          Non mi sembra un’impresa così straordinaria: c’è molta luce e basta solo fare un po’ d’attenzione a quelli che aspettano da soli ai tavoli dei caffè all’aperto (sorridendo).

-          Hai proprio ragione. Bisogna stare molto attenti a quei tipi. Se vuoi posso scortarti, così non avrai più problemi nei prossimi caffè.

-          Veramente gentile, ….. direi quasi disinteressato.

-          Tutta quella fiducia nel prossimo, finirà per rovinarti.

Lei allungò la mano e disse: “Io sono Francesca”.

-          Io Romeo.

Il muro che li divideva era crollato.

Dopo qualche minuto si alzarono e si incamminarono insieme.

Altri discorsi e poi l’appuntamento per la sera, a cena.

Quando Romeo riaprì gli occhi lei non c’era più, ma lui era convinto di avere un appuntamento per quella sera.

L’indomani si ricordò di santificare la festa.

Rimase in piedi, a fianco dell’acquasantiera, ad ascoltare la liturgia di padre Lorenzo.

Quando disse “scambiatevi un segno di pace”, si voltò e vide Francesca (per lui si chiamava Francesca).

Avrebbe voluto dirle “perché non sei venuta, ieri sera” e invece allungò la sua mano verso quella di lei, la strinse e sussurrò: “Pace”.

Lei rimase muta; al suo fianco il marito, muto anche lui.

Lorenzo lo vide dopo. Aspettò che uscisse dalla porta laterale e gli andò incontro.

Lorenzo disse che lo aveva visto in chiesa, ma non era vero; sapeva che ogni tanto passava da quelle parti, così azzardò l’ipotesi migliore.

Decisero di andare a mangiare qualcosa insieme.

-          Per me spaghetti e una bella bistecca con tante patate che le saltano sopra, disse Romeo.

-          Per me, invece, spaghetti con il pomodoro ed una bella insalata.

-          Niente secondo ? chiese il cameriere.

-          L’insalata.

-          Niente carne o pesce ?, aggiunse Romeo.

-          Ho pensato che non sarei in grado di uccidere un animale, così ho deciso di non avvalermi più d’esecuzioni fatte da altri. Se fossi in grado di uccidere un animale, ne mangerei.

-          Preferiresti morire di fame ?

-          Non ho detto questo. Di fronte a situazioni drammatiche l’uomo può agire in modo brutale. Fortunatamente, però, abbiamo molti altri alimenti che la natura ci ha messo a disposizione.

-          Perché non uccideresti un animale ? Credi che possegga un’anima ? La chiesa non dice questo.

-          Quando furono colonizzate le Americhe, la Chiesa sosteneva che gli Indios non avessero un’anima. Non voglio dire che gli animali ce l’abbiano; dico solo che quando sento dire che un cane mette a rischio la propria vita per salvare quella del suo padrone, in una situazione che prima non aveva sperimentato, mi viene da pensare che non può essere solo il frutto della sua intelligenza. L’intelligenza gli serve per organizzare la sua azione, ma ciò che lo spinge è un forte sentimento d’affetto verso il suo padrone/amico, e l’affetto difficilmente si collega all’aspetto razionale della bestia. E’ ovvio che ci sono animali più o meno stupidi, come gli uomini, del resto.

-          Ma tutto questo implica che creda nella reincarnazione dell’anima !

-          Non necessariamente. Ci sono dei misteri che devono rimanere tali. A volerli sciogliere per vederci più chiaro, si rischia di non vederci più niente, o di vedere solo quello che ci sta davanti agli occhi. Il mistero è un fumo che ci impedisce di vedere più in là, o un fumo che ci consente di vedere più su ? Nell’universo tutto è energia. L’energia con frequenza molto bassa è materia. La vibrazione della materia è talmente lenta che non la percepiamo. Ci sono poi energie con frequenze molto alte e, tra queste, lo spirito raggiunge vibrazioni così veloci che non le percepiamo. Ci sono cibi che sono più materia di altri, e questi ci spingono giù, in basso.

-          Ti ascolto con molto interesse, ma non riuscirai a dissuadermi dal mangiare la mia bistecca.

-          Non intendo proprio farlo. Un divieto imposto con autorità ci lega più che mai all’oggetto del divieto. Le nostre scelte devono essere il risultato della nostra elaborazione. Ma se tu invece di me, avessi di fronte gli occhi della mucca che sta per essere sacrificata, cosa faresti ?

-          Cameriere …… ho scoperto alcuni istanti fa d’essere vegetariano. Potrebbe portarmi del formaggio al posto della bistecca ?

 

Dopo aver pranzato e conversato, si salutarono.

Romeo uscì e udì gridare: “Sono le tre”.

E subito seguirono i rintocchi del campanile.

Vespasiano era solito annunciare l’orario qualche secondo prima del campanile.

Era giusto che riflettessero sullo scorrere del tempo, diceva lui.

Vespasiano aveva da poco passato i quaranta ed era un po’ stravagante, a dire il vero.

Quel nome glielo avevano appiccicato addosso per via del suo fervore nell’opporsi allo smantellamento dei cessi ambulanti, piazzati agli angoli della piazze.

Diceva che quella era stata una grande ingiustizia: non era giusto che oggigiorno uno fosse costretto a fingere di aver sete o desiderare delle caramelle, per poter pisciare.

Perché nella città non potevi pisciare che nei bar.

L’imperatore romano aveva istituito il gabinetto veramente pubblico e lui, duemila anni dopo, non era riuscito a salvarlo.

Vespasiano leggeva ad alta voce quello che c’era scritto nella sua mente, senza timori.

Poi guardava in alto: pareva leggesse qualcosa anche tra le nubi; e rideva.

Romeo lo conosceva da quando era un ragazzo.

Suo padre aveva un’azienda, ma lui non aveva mai voluto saperne niente di bilanci.

Alla morte del padre smise di fingere di cercare un impiego, sbarcando il lunario con una modesta rendita che aveva ereditato.

A volte vestiva come un lord inglese, con tanto di cappello e bastone; altre con un artista di strada.

Preferiva dialogare, chiunque fosse l’interlocutore, dall’uomo d’affari al turista per caso.

Sciorinava improvvise riflessioni, anche impertinenti, sulla quali i più lo abbandonavano.

Non che molti lo rispettassero.

-          Come va Romeo ? Ti senti più solo ora che vivi senza una donna ? Voglio dire, se lei non avesse pianto quando vi siete lasciati, perché immagino lo abbia fatto, tu ora forse l’avresti cancellata come si cancella la scia di un aereo nel cielo: senza farci niente; basta guardarla e scompare. E tu l’avresti guardata fissa negli occhi come quel primo giorno e poi l’avresti vista scomparire, per sempre.

-          No, guarda Vespasiano, lascia fare. Tra me e Cristina è finita senza traumi; è stata come una morte naturale.

-          E ci credi tu, ci credi al destino che uno poi ritorna sempre prima o poi e nulla è perduto mai per sempre ? Voglio dire vi siete sposati credendo di fare una famiglia e dei bambini e vederli crescere invecchiando insieme. E tu ora non puoi invecchiare, devi aspettare.

-          Ma dai che le cose cambiano e nulla è per sempre. Credevo lo sapessi !

-          Cosa vuoi che ne sappia io della vita. Dalla vita ho sempre cercato di prendere senza mai riuscirci. Voglio dire ho cercato di capire tante cose e gli altri vedevo che capivano ed io non ci riuscivo, non riuscivo ad entrare nel mondo come tutti gli altri. Nessuno che mi aspettava, che mi allungava la mano e via mi alzava i piedi da terra perché a non staccarli mai diventano tanto pesi.

-          Ora non metterti a fare il malinconico come sai, altrimenti me ne vado. Tu sei un artista mancato che sente il peso di questa mancata realizzazione.

-          Io sono un uomo mancato che cerca l’artista perché gli tenga compagnia. Voglio dire ……….

 

Il tempo è il concetto che, nella mente dell’uomo, impedisce la comprensione dell’eternità.

Il mistero della vita è racchiuso nella morte e non è possibile comprendere la morte, senza possedere l’idea di eternità.

La vita è il regno del provvisorio, del transitorio; con la morte si entra nell’eterno, dove niente può scivolarci via e tutto è per sempre.

Gli uomini di Chiesa cercano di rapportarci all’eternità con l’intento di avvicinarci ad essa, senza allontanarci troppo dalla vita terrena.

In questo precario equilibrio, però, l’uomo fatica a trovare lo slancio per andare al di là del razionale.

Ognuno vive il momento presente in base all’esperienza del passato ed avendo di fronte ciò che intende raggiungere nel futuro.

Il presente è compresso tra un passato influente ed un futuro attraente.

L’eternità è la dilatazione estrema del presente, che finisce per annullare passato e futuro.

Da qui la nostra impreparazione a comprenderla.

Vivere il presente ! E’ talmente naturale da apparirci scontato.

Il tempo nasce dalle falde del futuro, scorre lungo gli argini del presente e poi si getta nel mare del passato.

Vivere il presente è far sì che il fiume si getti nel mare, ma solo dopo avere solcato valli e monti, prati e rocce, ed aver preso da questi qualcosa.

E’ prolungare la corsa affinché l’acqua si fonda perfettamente con l’ambiente, assecondandone ogni imperfezione.

Il presente ci consente di cogliere una varietà di sensazioni, che poi si fissano nella nostra mente e diventano ricordi, proprietà del passato.

Il futuro emana il profumo delle sensazioni, come il vento che trasporta lontano l’essenza dei fiori appena schiusi.

Le sensazioni si moltiplicano, ma i sensi rimangono sempre quei cinque.

Le sensazioni vengono manipolate e così vengono percepite diverse e nuove.

E in mezzo a questo pullulare ci siamo noi, nell’affannosa ricerca di qualcosa di forte ed esilarante a cui aggrapparci, qualcosa che ci faccia sentire dei nuovi esploratori, scopritori di segreti agognati per secoli.

Qualcosa che ci contraddistingua nel gran calderone dell’umanità.

E dal bordo del grande pentolone, con la testa che si affaccia per vedere al di là e i piedi già inzuppati nell’acqua, a convincersi che il nostro vissuto darà più sapore alla minestra.

Mano a mano che pedalava, la strada lo portava sempre più su e sentiva aleggiare, piacevole, il vento caldo che viene dal Sud; poi, uscito da una curva, si fermò ad osservare la vallata (in mezzo a quel vento leggero pensò che le montagne sono i fermacarte della natura).

Alzati gli occhi al cielo, vide che la luce stava diminuendo e si convinse di essere in ritardo.

La puntualità lo feriva.

Ogni volta che capiva di essere in orario, scattava uno strano meccanismo che lo costringeva a rallentare.

Era come se capisse, tutto d’un colpo, che il tempo a sua disposizione era limitato: così ne voleva ancora di tempo da impiegare, da far passare, magari anche da sprecare, ma ne voleva ancora.

Mentre portava a termine le ultime pedalate, Romeo vide Lorenzo indaffarato nel giardino.

-          Quando Confucio ebbe modo di esprimere un desiderio, chiese al Signore una casa piena di libri e un giardino pieno di fiori, ed io non oserei chiedere di più, disse Lorenzo.

-          Sono convinto che Confucio non aveva dei fiori così belli !, ribatté Romeo scherzando.

-          La parola è il dono più bello che Dio ci ha fatto. La famiglia esulta non appena il bimbo pronuncia le prime sillabe, e si raccoglie disperata al capezzale del morente per ascoltare da questi le ultime parole. La parola può tutto: può cambiare una vita in soli cinque minuti o distruggerne un’altra in ancor meno tempo. Spesso mi è capitato dopo una conversazione di dirmi: ho fatto un monologo, non un dialogo. Ho imposto la mia idea senza scambiare. E poiché non ho ascoltato non ho imparato nulla. E poiché non ho ascoltato non ho comunicato. Saper ascoltare è molto difficile. Vivere da solo, quassù, mi aiuta ad ascoltare.

-          Perché è tanto difficile, per tutti noi, dire quello che pensiamo senza prostituire le labbra ? chiese Romeo.

-          La parola non è più verità; è divenuta abilità. Nel mondo vi sono migliaia di scuole che insegnano a parlare abilmente e così poche che insegnano ad amare la verità. Giuseppe Giusti diceva, rivolgendosi ad un ragazzo: “Altri comincerebbero col raccomandarti lo studio ed io comincio col raccomandarti la bontà, e ti prego di custodirla nel cuore come un tesoro senza prezzo. La dottrina, spesso, è una vana suppellettile che poco ci serve agli usi della vita, e della quale, per lo più, si fa pompa nei giorni di gala come dei tappeti e delle posate d’argento. Ma la bontà è un utensile di prima necessità, che dobbiamo avere tra le mani ogni ora, ogni momento. Senza uomini dotti, credilo pure, il mondo potrebbe andare innanzi benissimo; senza uomini buoni ogni cosa sarebbe sovvertita”.

 

“I tesori più grandi dell’uomo: l’amicizia, il viaggio, la musica e il libro”, pensava Romeo.

Ogni tanto capitava di incontrare un amico; non un amico qualsiasi.

Niccolò viveva in un’altra città, sposato.

L’ultima volta che si videro era autunno da un po’: il clima giusto per rendere più nostalgici i ricordi.

Il solito Caffè, il solito Attilio.

Le domande di rito (come va, a casa tutti bene, i figli se ci sono) o poi giù a parlare, a parlare davvero.

Quella sera che videro due ragazze (parevano straniere) a telefonare in una cabina (allora c’erano). Parlavano, parlavano e non la finivano mica; un po’ l’una, un po’ l’altra. Erano francesi. Lo capirono entrando nella cabina a fianco (il vetro in comune era trasparente).

Inserirono i gettoni, alzarono la cornetta e finsero di chiamare.

Ascoltavano, ma non capivano granché.

Erano francesi, questo sì.

Niccolò aveva la cornetta in mano e si girava intorno come un vigile; Romeo fissava l’altra dal vetro ed accennava un sorriso come dire “che coincidenza: anch’io sto aspettando di parlare al telefono, proprio come te”.

L’altra rise e chinò lo sguardo; forse udì quelle parole, nel silenzio.

Quando la prima riagganciò il telefono, il piede di Romeo colpì la gamba di Niccolò che si era distratto.

Si precipitarono fuori e le sbarrarono la strada, proprio come un posto di blocco; e loro, le francesine, cos’altro potevano fare ? Girarono per la città fino a notte tardi; non ci fu niente tra di loro, nemmeno un bacio.

Il giorno dopo tornarono in Francia con una lettera per ciascuna, da leggere in treno, ed una promessa per entrambe.

La lettera fu aperta subito dopo il fischio del capostazione e la promessa mantenuta: un mese dopo, Romeo e Niccolò, erano in Francia.

Lungo la costa gli sembrò di attraversare un giardino, un giardino con un’unica grande fontana, il mare.

Poi la strada deviò e i colori divennero più naturali, più rilassanti.

Non c’erano più gli occhi del mondo puntati sopra, ma solo i loro.

Ad accoglierli un grande viale alberato con i Caffè all’aperto, uno di fianco all’altro, lungo i lati; e sui marciapiedi tanta gente che pareva davvero li stesse aspettando.

La sera cenarono tutti e quattro insieme; un tavolo ovale un po’ retrò, posate d’argento e bicchieri di cristallo, poca luce.

Compresa la magia del momento, iniziarono a rallentare lo scorrere del tempo.

Ogni parola, ogni occhiata, ogni mossa venne sussurrata a bassa voce per amplificarne il senso.

Le tovaglie, le sedie e tutto il resto, alla fine, era imbevuto di quelle scene: avrebbe potuto rivivere le stesse immagini a distanza di anni.

Lasciato il ristorante, uscirono e camminarono abbracciati ( e sarebbe bastato solo quello, invece quella sera camminarono insieme e insieme si bagnarono sotto la pioggia).

Ad un tavolo piccolissimo di un locale seminascosto bevvero vino ed ascoltarono musica dal palco, un gruppo, forse due che si alternavano.

Una scusa (anche banale) e due si alzarono.

Romeo rimase seduto al tavolo di fronte alla ragazza, anche lei seduta: si guardarono e capirono.

Niccolò stava già correndo come un pazzo, tenendo lei per mano; correvano e gridavano, saltavano gradini e poi ridevano e gridavano ancora, di gioia.

Fino ad una camera, buia.

Si stesero sul letto, nudi.

Due ore dopo uscirono e lentamente, tenendosi per mano, smisero di parlare.

Lei camminava e piangeva in silenzio, lo guardava e taceva.

Si alzò un vento molto forte, che pareva volerli spingere indietro, verso la loro camera.

Niccolò si alzò la giacca sul petto e spinse più forte contro il vento.

Quella sera d’autunno il racconto finì così, su una tazza di caffè ormai fredda.

Romeo seppe della morte di Niccolò qualche mese dopo.

Non capiva, non capiva e pensava a quella sera d’autunno, alla tazza di caffè, al racconto spezzato; non era già una morte, quella ?

Nono lo era, e adesso capiva.

 

-          Il tedesco per fare la guerra, l’inglese per cantare e il francese …..eh…..il francese per fare l’amore.

-          E l’italiano, Vespasiano ?

-          L’italiano per tutto il resto !

L’inverno porta con sé anche la nebbia e con la nebbia il cielo diventa più basso, quasi opprimente.

Sotto la cappa tanti omini che si muovono e guardano su, come dalle grate di una finestra.

Ogni tanto un piccolo raggio di sole buca la coltre e giunge fino agli uomini.

Qualcosa del genere doveva accadere nella testa di Vespasiano quando lo vedevano da solo, seduto ad un tavolo, a singhiozzare con la testa racchiusa nei palmi delle mani.

Vespasiano scriveva brevi storie d’amore che dimenticava nei diversi angoli del mondo: accanto al finestrino di un treno, sul sedile di un tram, sul tavolino di un bar, sulla poltrona di un cinema all’aperto.

C’era una donna accanto a lui, in quel momento; una donna che lui non conosceva, ma che desiderava più di ogni altra cosa.

-          Senta, scusi, ha dimenticato questa busta ….

Ma Vespasiano non c’era più.

La signora apriva la busta e leggeva: ………. firmato Vespasiano.

Metteva i propri sogni in una bottiglia di vetro e li affidava alle correnti del mondo.

Questo faceva Vespasiano.

Un pomeriggio di Settembre, Vespasiano era seduto al tavolo di un bar.

Di fianco a lui una signora, seduta.

Vespasiano iniziò a scrivere nervosamente ( Attilio lo guardò da lontano e capì che non doveva interromperlo ), poi si alzò e se ne andò.

Attilio si avvicinò al tavolo e la signora gli disse:

-          Guardi, quel signore ha dimenticato questa busta.

-          No signora, non l’ha dimenticata; questa busta è per lei.

-          Come per me ?

-          Si, lui fa così.

La signora l’aprì e la lesse: ………….. firmato Vespasiano.

La trovò bellissima.

Il giorno dopo tornò al bar e consegnò una lettera ad Attilio:

-          Vorrei che quel signore di ieri, cioè Vespasiano, la leggesse.

Nella lettera c’era scritto che avrebbe voluto conoscerlo e che sarebbe rimasta lì ancora per tre giorni.

Vespasiano ricomparve solo il terzo giorno e, aperta la lettera, si precipitò alla stazione.

Il treno per Vienna era in partenza.

Vespasiano comprò un fiore e corse lungo il binario scrutando ogni finestrino, finché la vide.

Le dette il fiore e le disse:

-          Sono felice di non aver letto la sua lettera in tempo per poterla conoscere, perché adesso non sopporterei di vederla partire.

La signora lo fissò a lungo ed i suoi occhi erano pieni di lacrime.

Poi il treno partì.

 

Romeo adorava stare ad osservare i treni in partenza: con la macchina fotografica davanti agli occhi, cercava di cogliere il momento in cui gli uomini, con le braccia alzate come arresi, si lasciano strappare un pezzo d’anima da quel treno in marcia.

L’immagine è la magia di un momento, diceva Romeo.

E’ l’eterno sogno dell’uomo: fermare il tempo.

La sequenza di immagini filmate riproduce la realtà, così come noi la percepiamo; una fotografia fissa un istante, un solo istante, per sempre, così come noi non vedremo mai.

La fotografia porta con sé i segni del passato e quelli del futuro.

Nella faccia di un uomo rubata dall’immagine, i solchi del tempo ci parlano di ciò che è stato; la luce dei suoi occhi di ciò che sarà.

Un’espressione prelude un pensiero, un’intuizione lo fa nascere.

L’espressione è il pensiero che si lascia guardare; quell’attimo di presente congelato, impresso su di una pellicola, è come un grande papiro arrotolato da entrambi i lati: srotolando una parte si legge la storia, srotolando l’altra, l’avvenire.

“Prima di fotografare occorre ascoltare della musica, diceva Romeo, della buona musica”.

La musica fa vibrare le corde dell’anima, e l’anima vibrando si libra al di sopra del mondo, e da lì vede ciò che umanamente non ci è dato di vedere.

La fotografia è la sorella povera della pittura, arte superiore; e solo combinandola con la musica la si può elevare, solo così.

Niccolò spirò tra le braccia di Ludwig Van Bethoveen.
Quando lo trovarono disteso sul letto, la stanza era piena delle sue note.

La musica è l’espressione di ciò che gli uomini credono di intuire.

Il suicidio ha in sé qualcosa di attraente e sconvolgente.

L’uomo è in eterno debito verso Dio, che gli ha fatto dono della vita; può disporne come crede, ma non può rifiutare il dono.

La vita è un insieme di misteri, ma forse il solo, unico e vero, è la nostra proiezione oltre la morte, comunque la si spieghi.

Niccolò si uccise ingoiando un’intera scatola di sonniferi: ciò che da solo ti salva (dall’insonnia), insieme ti uccide.

Nessuno sospettava niente, così dissero.

Il corteo funebre era preceduto dalla banda dei suonatori, tutti in divisa azzurra.

Suonarono pezzi struggenti e alla fine, quando la bara fu calata nella fossa, arrivò anche Ludwig Van Bethoveen.

 

-          Io ho ucciso un uomo, disse accostando la faccia alla grata del confessionale.

Lorenzo tacque per un po’, poi le disse.

-          Quando è successo ?

-          Non importa, niente importa più adesso.

-          Com’è accaduto ?

-          Io ho spinto un uomo ad uccidersi e quell’uomo era mio marito. Lo odiavo, lo odiavo con tutta me stessa. Mi aveva tradita ed io giurai che non l’avrei mai perdonato. E così feci. Ma non lo lasciai. Finsi di aver dimenticato per odiarlo in silenzio. Rimasi al suo fianco nella speranza di vederlo soffrire, per placare la mia grande sete di vendetta. Una parte di me avrebbe voluto stringersi a lui per piangere insieme e perdonarlo davvero, ma l’altra era più forte. Mai una carezza, un bacio, una parola che scivolasse dolce su di lui. E lui accettò tutto questo, questo mio gioco perverso, questa maledetta rivincita. Soffriva nascosto sotto le coperte; forse credeva che un mattino tutto sarebbe finito. Un mattino avrei aperto le tende e insieme a quei primi raggi di sole, avrei fatto entrare anche tutto il mio amore. Poi, spalancando le finestre, mi sarei tuffata sul letto su di lui e lì avremmo fatto di nuovo l’amore.

Ma lui non aspettò quel mattino, ed una sera si uccise.

 

La primavera, tra le mura delle città, si fa annunciare sempre allo stesso modo: l’aria più tiepida e gli starnuti dei passanti.

Il tempo diventa più incerto e questo consente alla gente di cimentarsi in funamboliche previsioni.

Il tempo è l’argomento preferito di chi non ha niente da dire e, poiché il silenzio sarebbe ancora più imbarazzante, preferisce mettere in fila quelle cinque, sei parole, nel tentativo di colmare un po’ di vuoto.

Quel giorno Romeo era sceso al mare (perché, a meno di non essere allo stesso livello del mare, si scende sempre) per godersi quel primo tepore che la primavera sembrava portare con sé.

La spiaggia era deserta e, volgendo lo sguardo su entrambi i lati, si coglieva una stesa di sabbia e mare, con una sottile line di confine sempre in movimento.

Le orme si imprimevano sul suolo come quelle del primo uomo sulla Luna, tale era la lentezza dei passi.

Udiva solo lo sciabottare del mare, che persisteva con la sua solita tenacia.

In mezzo a quell’insaziabile roteare, Romeo sentì avvicinarsi qualcuno: si voltò e vide un cane.

Era come intimidito; scodinzolava incessantemente come per chiedere scusa di quell’intrusione.

Non era un cane di razza, si vedeva, così come si vedevano due occhi dolcissimi che chiedevano una carezza, un gesto d’affetto o comunque un po’ d’attenzione.

Romeo gli si avvicinò e, guardandolo negli occhi, accarezzò la sua testa ( la coda diceva che in quel momento era tutto così bello ).

Poi Romeo si mise seduto di fronte al mare, ignorando il cane; questi allora gli si avvicinò di nuovo, da dietro, e col muso toccò leggermente la sua schiena: voleva giocare.

Romeo prese un pezzo di legno e lo lanciò con forza; il cane, come un ragazzo all’esame di maturità, corse come un pazzo, impegnando al meglio ogni muscolo del suo corpo, fino a raggiungere il pezzo di legno: lo addentò e lo riportò a Romeo con la faccia di chi ha superato la prova.

Allora Romeo tolse il pezzo di legno dalla sua bocca e fece di nuovo il gesto del lancio, senza però lasciar partire il legno.

Il cane, percorso qualche metro, si fermò, guardando Romeo con la faccia di uno studente di Sociologia cui viene presentato un compito di Matematica, “Ho sbagliato oppure non sono all’altezza ?”, pareva chiedersi con gli orecchi drizzati sul capo.

Romeo non poté fare a meno di riderne e il cane fu felice di sentirsi preso in giro, come un bambino cui s’insegnano i trucchi dei grandi.

Non poteva lasciarlo lì, questo lo aveva capito fin da subito, e così lo portò con sé.

 

Il sogno dell’uomo è la vita domata.

L’uomo sogna di riprendersi la vita, di prendere il toro per le corna e dire “adesso fai come dico io”; una possibilità di rivincita.

Tutto il resto sono incubi; incubi nei quali si soffre ancora di più che nella vita di tutti i giorni.

E Vespasiano ricordava sempre ciò che aveva sognato; lo ricordava talmente bene che, spesso, lo confondeva con la realtà.

Un giorno Vespasiano ascoltò alla radio un pezzo di musica che lui credeva classica, ma non lo era; che non lo era lo disse la voce della radio: si trattava di una pianista svizzera, che faceva una musica particolare, diversa dalle altre.

Si chiamava Martina, solo questo capì Vespasiano, e di lì a poco avrebbe iniziato un giro che l’avrebbe portata in diversi borghi medievali a suonare, da sola, in una piazza.

Lei ed il suo pianoforte.

Quella di Martina era una musica tristissima, e Vespasiano pensò che solo chi conosce i profondi abissi della tristezza, può toccare le vette della gioia; e lui desiderava esserci quando la scalata avrebbe avuto inizio.

Il paesino era tutto un saliscendi e quando Vespasiano giunse in vista della piazza, gli parve sospesa sopra le nuvole.

Le nuvole erano delle grandi conche di fiori sui bordi della piazza, e sopra le nuvole, in paradiso, c’era un pianoforte bianco.

Bianco e solo come un dio.

Vespasiano attese tutto il pomeriggio, poi a poco a poco la piazza si riempì, finché da un angolo comparve Martina, tutta vestita di nero su di una pelle bianchissima: salutò il pubblico ( e quindi anche Vespasiano ) e si accostò al piano.

Fu vera musica, quella ? Nessuno saprebbe dirlo.

Vespasiano s’inebriò di quelle note, fino ad esserne stordito.

Dalla sedia, in prima fila, ne osservò ogni espressione, ogni movimento; la seguiva nelle sue intenzioni.

Attese la fine dell’esecuzione, il commiato dai presenti e si diresse verso di lei con in mano una sola rosa bianca; gliela porse, si complimentò e la invitò ovunque.

Lei accettò.

Gli disse: “Verrò ovunque lei creda”.

Ma purtroppo era un sogno.

 

Un giorno udì un gran frastuono, musica e baccano mescolati insieme.

Era arrivato il circo.

La gioia dei bambini e quella di Vespasiano, che del circo era innamorato.

L’uomo che cammina su una corda tesa, sospesa nel vuoto, senza rete, con sotto gli uomini a testa in su, che sobbalzano ad ogni movimento brusco: l’equilibrista.

Quello era il suo sogno.

Avvicinatosi al grande tendone, chiese di parlare con l’equilibrista e quando questi comparve, gli disse che avrebbe voluto provare anche lui, almeno una volta.

L’equilibrista sorrise, battendogli la mano sulla spalla: “Ci vogliono mesi di preparazione prima di scivolare lungo quella corda” e lo liquidò.

Vespasiano fu presente a tutti gli spettacoli e ad ognuno osservava l’equilibrista come si osserva una donna che per la prima volta si spoglia davanti ai nostri occhi, con la stessa eccitata concentrazione.

La sera dello spettacolo finale era pronto per il coito.

Attese l’arrivo del clown che precedeva l’esibizione in aria e, passando dietro le quinte, giunse alla scaletta che portava alla corda: la salì con grande calma fino alla piattaforma.

A quel punto tutti si erano accorti di lui e anche coloro che pensavano facesse parte del gioco ( un uomo così poco adatto, salire fin lassù ) dovettero ricredersi, quando percepirono l’agitazione dei circensi.

Gli sguardi di tutta la platea puntavano quell’uomo immobile sulla pedana, che sembrava non curarsi delle voci che venivano da sotto.

Vespasiano spostò il primo piede avanti e tutto gli sembrò naturale: sentì il piede avvolgersi intorno alla corda e l’eccitazione lo avvolse.

Un passo avanti, un altro ancora, padrone del mondo, signore della folla, e poi scivolò.

Cadde nel vuoto, e cadendo pensò: “Adesso prima di toccare terra mi sveglio, riapro gli occhi ed è tutto finito”.

Era tranquillo.

Ma purtroppo non era un sogno.

Si schiantò a terra, morendo.

La sua anima, lasciato il corpo, prima di oltrepassare il telone del circo, lanciò un ultimo sguardo sul corpo inerme attorniato dalla folla, poi sparì.

 

La ripetizione è l’atto che consente all’uomo di assimilare un’azione.

Oltre diventa noia, stordimento dell’intelligenza.

A forza di attingere acqua dall’unico grande pozzo, che è l’informazione globale, l’uomo ha perso il gusto di bere; ha smesso di cercare oasi di diversità, lasciandosi plasmare come terra di fiume.

La curiosità stuzzica l’intelligenza.

Allo stesso modo Romeo incalzava Lorenzo con i suoi mille dubbi, ai quali Lorenzo replicava con una sola frase: “Dio sa, l’uomo intuisce”.

E Romeo intuì che Lorenzo era troppo in là, con gli anni, per non invecchiare.

Un pomeriggio d’estate, mentre Romeo lo stava osservando in silenzio con l’aria di chi sta cercando di capire dove si nasconda il segreto, Lorenzo chiese, senza neppure voltarsi:

-          Dimmi, cosa stai cercando di capire ?

-          Niente; ti osservavo e costatavo che gli anni faticano a farsi notare sul tuo corpo.

-          Che Dio non me ne voglia, ma temo che non sarò così dispiaciuto come sembri tu.

-          Tu non temi la vecchiaia, vero ?

-          Che cos’è la vecchiaia ? E’ l’avvicinarsi alla morte ? (nostra unica certezza ) o è la decadenza del nostro corpo ? Il corpo è l’appendice che ci consente di vivere su questa terra. Durante la vita, qualche volta, percepiamo la possibilità di staccarsi da lui, ma il corpo è sublime, una macchina perfetta, che ci attrae come un magnete. E’ durante l’età avanzata che la macchina, alcune volte, s’inceppa, ci dà problemi, E’ molto più facile staccarsi da un corpo che si sta avviano verso la rovina.

-          Ma il tuo corpo non si sta avviando da nessuna parte !

-          Questo non c’entra. O meglio. Il corpo è l’abito che il nostro spirito indossa. Se tu vedi un bellissimo vestito, indossato da una donna sgraziata e goffa nei movimenti, non ti accorgerai del suo splendore. Al contrario, se tu vedi un abito comunissimo, indossato da una signora molto fine ed elegante nei movimenti, ti sembrerà fantastico. E non potrai sottrarti dal tributargli la tua ammirazione.

-          Vuoi dire che quanto più curi il tuo spirito, tanto più il tuo corpo ne beneficerà ?

-          Conosco molte persone che venderebbero l’anima al diavolo, pur di non invecchiare, e invece dovrebbero solo impadronirsene. Acquistano ogni prodotto che promette loro qualche anno in più d’efficienza, si dedicano ad ogni attività che li faccia apparire più in forma, consumano ogni alimento cui siano riconosciute proprietà anti-invecchiamento. La longevità è una condanna, se lo spirito si addormenta.

 

Tra le varie leggi che regolano la vita degli uomini ce ne sono alcune che, pur non essendo state approvate da nessuna assemblea, sono inviolabili.

La Natura, madre o matrigna, ha pensato bene di porre dei limiti al nostro umano progredire, e di farcelo sapere o capire.

Le leggi della natura fissano i confini entro cui l’uomo può spaziare, e tra quelle ce n’è una che riguarda la luce.

La luce, tra tutti gli elementi della fisica, è quella che più ci è familiare; l’uomo, dice la legge, non potrà mai superare la velocità della luce ( salvo smentita ).

Il bello è che noi non riusciamo a cogliere questa grandissima velocità; per noi la luce non si muove: si diffonde, si propaga immediatamente, questo si, si vede, ma che sia così veloce proprio non ci sta.

E’ così rapida che i nostri sensori non ne percepiscono la rapidità.

Quando Lorenzo entrò nella stanza d’ingresso dell’ospizio, ebbe la sensazione che lì, la luce, fosse più lenta.

Faceva fatica a diffondersi, a raggiungere tutti gli angoli, e non era una questione di Watt.

Sembrava ci fosse proprio qualcosa, come una cortina invisibile, che ne ostacolasse la diffusione.

Sbirciando lungo le stanze che si dipartivano dal corridoio, Lorenzo vide ciò che un uomo solo non dovrebbe mai vedere: l’abbandono.

C’erano gli uomini che il mondo aveva dimenticato, preso com’era dai suoi mille impegni; uomini che distrattamente venivano abbandonati al capezzale della morte, ai quali veniva negato il conforto di uno sguardo conosciuto.

Giunto al termine, vide le ultime due stanze: una con la porta chiusa, l’altra spalancata.

Si diresse verso quella chiusa, ma non si aprì.

Allora varcò quella spalancata e là, in fondo, scorse Osvaldo: era seduto, con il capo chino, pareva sul punto di addormentarsi.

Si avvicinò e lentamente appoggiò la mano sul suo braccio.

Osvaldo aprì gli occhi, lo fissò per un istante e poi lo abbracciò.

-          Ho saputo solo ieri che eri venuto qua.

-          Che mi hanno portato qua !

-          Beh, non pensarci; come ti senti ?

-          Né bene, né male. Qui non ci sono giorni buoni e giorni cattivi, qui ci sono solo giorni. La novità è qualcuno che passa a miglior vita: o muore, o scappa. Mi hanno detto che non potevano più tenermi perché dovevano lavorare tutto il giorno e non mi ritenevano più in grado di badare a me stesso. Così sono finito qua, in mezzo a questi altri. Alcuni sono fuori di testa, altri lo saranno tra poco, ma nessuno di loro lo sarà veramente. Credono che cacarsi addosso e dire cose senza senso, siano motivi sufficienti per trattarci come larve. Continuano a darci da mangiare per tre volte il giorno, ma non capiscono che non è di quello che abbiamo bisogno; c’è dell’altro. E sciroppi, pasticche, punture per le nostre mille malattie, ma è l’amore la migliore medicina. Qualcuno che ci chieda qualcosa, che si interessi a noi, a ciò che vediamo, a ciò sentiamo, a ciò che pensiamo.

-          Ti capisco, ma dobbiamo rassegnarci all’idea di una vecchiaia in solitudine; ed io vivo da solo già da un po’.

-          Quando ho saputo che ti eri ritirato da solo come un’eremita, ho pensato che volevi fuggire dal mondo. Poi dopo ho capito che l’eremita si ritira non per fuggire dal mondo, ma per non perdere niente, in immagine, del mondo.

-          Quello che dobbiamo perdere è l’immagine che abbiamo di noi stessi. Nella nostra mente è racchiusa l’idea di noi stessi, e per tutta la vita cerchiamo la conferma di quest’idea. Se ci sentiamo inferiori selezioneremo, nei nostri rapporti con gli altri, tutti i fatti che vadano a confermare quest’idea. Ma noi non siamo la nostra idea; noi partecipiamo dell’idea di Dio.

-          Qua non sono in molti a pensarla così. La sfiducia nell’uomo ha oscurato la loro fede.

-          La sfiducia dell’uomo nell’uomo finirà per impedire al mondo di sopravvivere. Adesso devo andare. Tornerò di nuovo a trovarti.

-          Lorenzo, ………. non credo arriverai a sentirmi morto tra queste mura. Sto pensando di andarmene. Ho ancora qualche risparmio e vorrei cominciare tutto da capo; una stanza, un pezzo di terra ……..

 

Una mattina Osvaldo non fu trovato nel suo letto e da quella mattina il letto rimase vuoto.

C’è chi dice di averlo visto, in un’altra città, allungare la mano ai passanti e vivere di stenti.

La notte dormire chissà dove, la stagione è ancora buona, poi d’inverno chissà ……

C’è chi giura, invece, di averlo visto su, in montagna, davanti ad una capanna di legno, con una grande coperta sulle spalle, provare a riscaldarsi.

Adesso si sa, è ancora inverno, poi con l’estate chissà …….

Ubaldo, il suo compagno di stanza, continua a dire: “Qui ci stava bene, qui ci stava bene, qui ...