UN TRENO
(Olio
su carta)
di
Diego Fornero
1.
Sondrio
Parla
al cellulare. Glielo stanno giusto dicendo, per oggi non verranno ad
installargli il caminetto. Ma è felice di avere almeno qualcosa da fare. Ha
sempre amato parlare al telefono, vorrebbe ricevere 3 o 4 chiamate all’ora. Ma
col lavoro che fa di telefonate gliene arrivano una, forse due, ogni mesetto.
Traduce
libri. Libri dal russo. Nuovi scrittori. Qualcuno la chiama avanguardia. Ancora
non capisce perché abbia voluto studiare proprio questo. Ogni tanto se lo
chiede, ma vorrebbe chiederlo a sua moglie. L’ha conosciuta là. 50 chilometri
a sud di Pietroburgo, in un paesino di cinquanta anime.
Adesso
è un mese che non la sente, da quando lei è scappata così, con due valigie ed
un gatto. In casa gli ha lasciato quasi tutto, anche i suoi quadri. Lei dipinge,
dipinge animali in mezzo agli uomini. Cani in ufficio, scimmie su un banco di
scuola o giraffe in un campo da calcio. Da ragazzina lavorava in un albergo, ma
adorava leggere in mezzo alla neve. Ha sempre amato il freddo.
Lui
in Italia per la prima volta l’ha portata a Venezia. Ma c’era l’acqua alta
e aveva giusto un paio di mocassini. Hanno passato 10 giorni a fare l’amore.
Ma ora sarà almeno un anno che non le vede neanche un braccio.
Qualche
giorno fa è uscito che era notte, ed è andato con una prostituta. Le ha
chiesto come si chiamasse. Lei gli ha risposto che era tenuta a dargli soltanto
ciò per cui era pagata. Soldi ne ha sempre spesi pochissimi, usa ancora la
macchina che gli ha comprato suo padre dopo la laurea. Una ritmo blu.
Adesso
sta molto male, il padre. Potrebbe campare altri mille anni ma non lo riconosce
più. Ogni tanto capita anche a lui, di non riconoscersi, e si chiede se non sia
una cosa ereditaria. Allora si guarda allo specchio, e pensa all’unica volta
che guardandosi si è sentito davvero bello.
Il
giorno del suo matrimonio. Portava la cravatta che già aveva portato il padre.
Si era svegliato così presto che per trovare la sveglia ha ribaltato la foto
della madre sul comodino. Quel giorno è arrivato in chiesa un’ora prima, alla
radio ancora si parlava dei mondiali ma lui guardava un bambino, seduto su un
marciapiede. Era sporco, e sorrideva. Si è sistemato il colletto, ha
controllato di non avere nulla in tasca ed è sceso. Proprio come adesso.
Aspetta che si apra, poi scende. Si guarda in giro e scompare sulle scale
mobili.
2.
Centrale
Non
era bella, ma sapeva sempre come sembrarlo. Si era fatta crescere i capelli
quando tutti le avevano suggerito di tagliarseli. Un po’ per caso, un po’
perché si divertiva da morire a fare l’opposto di quello che le dicevano. Ha
perso tre lavori in questa maniera. Lavorava in uno studio legale, ma volevano
costringerla a dare più del dovuto. Lei se n’è andata ma ha lasciato una sua
foto, forse la più bella, sulla scrivania del capo.
Credeva
di essersi innamorata, due anni fa. Ad una festa, lui era l’unico che non le
avesse rivolto uno sguardo. Aveva i capelli cortissimi e neri come il carbone.
Non l’ ha mai più rivisto, se non in qualche sogno, quando viveva ancora a
Roma.
Una
notte si è svegliata e credeva che lui fosse lì. Invece era tutto come sempre.
Stava in un monolocale, l’aveva riempito di blu: l’unico colore che le
piacesse davvero. Le ricordava il mare, il mare di notte. Da piccola non ci era
mai stata ma l’aveva sempre cercato. Lo amava, ma non voleva viverci. Le cose
troppo grandi che non poteva capire la spaventavano un po’.
Ogni
tanto aveva paura di non essere capitata nel posto giusto. Si stupiva per prima
di come fosse riuscita a non cambiare mai idea. Pensando giocava ad arrotolarsi
i capelli, così lisci che gli elastici cadevano quando se li legava. Ne aveva
mille a casa, ma non li usava mai. Da ragazza glieli regalavano le amiche, o
meglio, l’amica. L’unica con cui andasse davvero d’accordo.
Ma
ora sta in America, ricerca qualche cosa sul codice genetico. Vive a Houston ed
ha 3 figli. Li ha visti in foto, due biondi e uno bruno. Ha una casa tutta di
legno e una coupè rossa.
Chissà
com’è pulita, pensa, guardando la parete del vagone. C’è scritto panda. Ci
fa caso raccogliendo la borsa. Poi sorride ai riflessi del vetro, si spinge
indietro i capelli e scende giù. Guarda davanti a sé e scompare sulle scale
mobili.
3.
Repubblica
Leggeva
Gogol’, “Le anime morte” e sembrava davvero divertito. Un po’ perché
davvero lo faceva sorridere, un po’ perché si chiedeva come avesse fatto a
non leggere più un libro da almeno trent’anni. Era il suo primo giorno di
pensione. Amava pensare che avrebbe avuto davanti un mondo. A casa dipingeva
paesaggi ma non aveva mai viaggiato. Aveva una casa sul lago, ma la usava quasi
soltanto il nipote, per portarci gli amici. E qualche ragazza.
Era
stato in Svizzera una volta, a Locarno. Si era dimenticato la macchina
fotografica ed è tornato a casa con un centinaio di cartoline. Le ha ancora
tutte lì. Qualcuna attaccata al frigo, qualcuna alla credenza, altre dentro una
scatola di scarpe con le lettere ingiallite di sua moglie, anche quelle del
militare. Ogni tanto le legge e si risponde in testa, pensando che lei lo
ascolti da lassù.
Ha
passato giornate intere ad immaginarsela, quando lavorava all’ufficio oggetti
smarriti. Si chiedeva se lei, anche lì, avesse qualche fiore da curare. Era la
sua passione. Sul balcone ha ancora gerani ovunque, petunie, ortensie, viole e
ciclamini. E un vaso di rose che le aveva regalato il figlio. Credeva che
sarebbero morte senza tutte quelle cure. Poi si è accorto che bastava
innaffiarle, lo faceva ogni giorno tornando a casa. Accendeva la tivù e si
preparava qualcosa, ogni tanto ordinava la cena dai cinesi, ma arrivava sempre
troppo calda, o troppo fredda.
Il
libro che teneva in mano lo aveva letto il figlio al liceo, assieme ad
un’altra tonnellata di carta che era sempre rimasta in camera sua. Il nipote
ci ha giocato un po’ ma in breve si è accorto che i russi non facevano per
lui. Preferiva le avventure, e continuano a piacergli. Fa il medico in Africa,
ogni tanto telefona. Ha comprato al nonno un computer per potergli scrivere
e-mail ma è sempre stato spento. La tastiera ha ancora il cellophane attorno.
Vorrebbe
stare ancora ore a leggere ma guarda l’orologio e segue per un po’ la
lancetta dei secondi. Poi si attacca ad un paletto, fa forza e si tira su.
Infila in tasca il libro, rilegato azzurro, e si scuote un po’ il cappotto che
si è appena sporcato. E’ vernice nera, andrà via, si dice. Andrà via.
La
porta si apre e scende. Abbassa un po’ gli occhi e scompare sulle scale
mobili.
4.
Turati
Dalle
spalle le pendeva un vecchio scialle, rosa e blu. Con dei bei fiori stampati. Lo
ripiegava ogni mezz’ora, sventolandolo ad aprirlo, per riassestarselo con
calma. Quasi a stirarlo con le dita, lunghe e sottili, con la pazienza di una
mamma.
Da
bambina aveva un’arpa, ci giocava da sua nonna quando viveva in campagna.
Voleva che le insegnasse qualcosa ma era sempre troppo stanca. Lei invece amava
correre. Correre sotto la pioggia. Faceva chilometri. Dicevano che sarebbe
andata forte, la prima volta che l’hanno messa su un tartan. Ma era Luglio, e
sotto il sole non riusciva a fare un passo.
Un
giorno ha lasciato la scuola e ha preso l’aereo. E’ partita per Dublino ed
è tornata con un figlio e una medaglia. D’argento. Ma casa della nonna non
c’era più. L’ha venduta, le han detto. E’ una galleria d’arte adesso.
In camera sua c’era un enorme ritratto, di un gabbiano con una zampa ferita.
Ha
vissuto un po’ in città, dalla sorella del parroco. Una casa di due piani con
una ventina di letti. Poi hanno iniziato a farle un sacco di domande, a venirla
a trovare spesso. Alla fine le han detto che il bambino avrebbe dovuto
andarsene. Stare con loro. Una notte sono venuti a prenderselo e non l’ha più
visto.
Lei
ha preso le sue cose ed è andata con una carovana. Erano Rom. L’uomo che
l’ha ospitata aveva un’Audi senza il sedile dietro. Lei ci ha dormito. Hanno
viaggiato per sei giorni, ogni tanto si davano il cambio al volante. Poi la
porta si è aperta. Lei ha imparato a cucinare. Comprava piselli e fagioli, ogni
tanto pure i ceci. Ogni volta ne teneva uno per se. Se lo metteva in tasca,
nella giacca nera. Diceva che un giorno li avrebbe dati a suo figlio. Uno per
ogni pianto che non aveva ascoltato.
Ora
raccoglie monetine agli angoli. Quello che le danno. Le piace fermarsi fuori dai
negozi, dove mettono la musica. Si siede e aspetta. Poi si alza, si ripiega lo
scialle, sventolandolo ad aprirlo, per riassestarselo con calma. Proprio come
adesso.
Mette
una mano in tasca e tintinna. Poi scende. Fa per contare e scompare sulle scale
mobili.
5.
Monte Napoleone
Ha
iniziato con dei semplici roller. Glieli ha regalati la nonna ai suoi 11 anni.
Giocava in una pista un po’ fuori dal centro. Usava un bastone e una pallina
da tennis. Poi si è comprato la sua prima mazza ed ha sotterrato il suo bastone
là a due passi. Un suo amico ha trovato un puck un giorno. Rosso fuoco. Passava
giornate intere in pista, anche da solo. Anche soltanto seduto a guardarlo. Per
poi alzarsi e sentire che sarebbe andato davvero dove voleva farlo andare.
Tirarlo con tutta la forza che aveva in corpo. Distruggere il plexiglass che
recinta la pista. Con un colpo. Questa era la sua sfida, e diceva a tutti che ce
l’avrebbe fatta. Quando gli altri ragazzi sognavano San Siro o qualche set di
Hollywood lui voleva soltanto il ghiaccio. Il ghiaccio di una pista di Hockey,
di quelle come si vedono nei videogiochi. Si era disegnato una maglietta su di
un cartone colorato. L’aveva appesa in camera, sopra il letto di suo fratello
che tanto a casa non ci tornava mai.
Poi
le magliette le ha viste davvero. E’ entrato al palazzetto la prima volta,
pagandosi il biglietto coi soldi della cresima. La partita non l’ha vista.
Nemmeno un minuto. Voleva soltanto vedere il ghiaccio. E sentire che cosa avesse
da dirgli.
Amava
cadere. Cadere e guardarsi intorno, perché gli altri vedessero che non aveva
paura. Quando ha detto al padre che voleva comprarsi dei veri pattini voleva
soltanto sentire cosa si prova a buttarsi a terra e lasciare che sia il ghiaccio
a decidere per te.
E
il ghiaccio per lui ha deciso che in sette mesi di allenamenti, sarebbe
diventato il migliore. Tanto che nessuno ci avrebbe mai creduto. Giocava con un
cappellino al contrario, sotto il caschetto. Tutte le firme dei suoi amici,
glielo hanno regalato alla sua prima partita nell’under 17. Sembrava di essere
in un film.
Un
giorno ha pianto. Ha tenuto il puck in mano per ore mentre lo portavano in
ospedale. Si è distorto una caviglia e credeva che il ghiaccio si fosse stufato
di lui. Invece ha ricominciato, ore di fisioterapia e palestra. Ci ha messo un
anno ma è tornato in pista. Con una firma in più sul cappello. Suo fratello,
che non vedeva da così tanto tempo che da sotto non l’ ha neanche
riconosciuto.
Adesso
quel cappello ce l’ ha in mano. Non ha avuto il coraggio di toglierselo
neanche ieri, quando è stato chiamato in federazione. Non capiva perché.
Temeva una squalifica, un rimprovero. Qualcosa. E’ uscito con una borsa blu ed
un biglietto aereo in mano. Nazionale under 21. Parte per Oslo, la settimana
prossima. Lo stringe a sé, poi se lo mette su, sistemandosi il colletto della
tuta. You’re as cold as
ice…
Sta
tornando a quella pista un po’ fuori dal centro. Quella dove cercava il
ghiaccio senza accorgersi che era il ghiaccio a cercarlo. Cercherà il suo
vecchio bastone. Vuole partire con del plexiglass in borsa. Stringerlo e sentire
che ci sono sogni di cui non si può avere paura. Il ghiaccio. Il ghiaccio.
Chissà
che effetto fa cadere adesso. Ci pensa e raccoglie quella borsa blu. Poi scende.
Guarda in alto e scompare sulle scale mobili.
6.
Duomo
Quelle
calze le piacciono da impazzire. Le ha notate a Londra, in un negozietto a
Poland St. e non se l’è fatte scappare. In Italia non ne aveva mai viste di
così. Nemmeno quando torna, ogni tre mesi più o meno, e fa il tour di tutti i
negozi che conosce. Quelli che frequentava da ragazzina, con le sue amiche, se
decidevano di tagliare la scuola. Adesso per darsi un po’ di vacanza deve
smollare col college, studia ad Oxford ed ha una camera soltanto per sé, da
quando la sua compagna di stanza è tornata in Giappone.
In
bacheca ha appeso un sacco di foto. La più grande è quella di sua sorella.
Vive da qualche parte vicino a Napoli, con un tizio che ha incontrato in
vacanza. Lui aveva un mobilificio. Vendeva divani e sedie, poi le cose hanno
iniziato ad andar male. Adesso preferisce sedersi al bar. Ma sono anni che non
la vede. L’ultima volta si sposava lo zio. Cantavano un sacco di canzoni quel
giorno.
Ora
invece è lei a cantare. Ad Oxford tutti la chiamano Cherry. Credevano fosse
inglese, con quei capelli rossi e quella coda alta che non cambia dall’asilo,
ormai. Faceva la cameriera per pagarsi un po’ le spese, ma non le è mai
bastato. Ha scoperto che in Inghilterra adorano l’Italia. Adesso canta vecchie
romanze napoletane, con un gruppo jazz, tedesco per metà. Un giorno ha deciso
che si sarebbe fatta un segno sulla borsa per ogni persona che gli avrebbero
presentato. In un anno l’ ha riempita di nero.
Ha
frequentato un ragazzo del Congo, uno che suonava per strada ma si era fatto un
bel gruzzolo col crack. Poi ha conosciuto uno che lavora a Londra da un po’ ma
che è nato a Trieste. Fa l’assicuratore e lei si è subito fidata. Ha una
specie di loft a due passi da Regent St. Il padre gestiva un ristorante là,
specialità pesce. Poi l’ ha venduto e ha comprato una grande barca a vela.
Del mare conosce soltanto i gamberetti, lei. Li adora. Trova sempre un modo
nuovo per cucinarglieli. E’ sempre lei a cucinare qualcosa là.
Ma
non sa se diventare una donna di casa. Lui le ha chiesto di sposarlo, ieri.
All’aeroporto. Ha scaricato i bagagli dalla Volvo e l’ha guardata negli
occhi. Lei non sapeva, non sa. Vorrebbe fuggire, andarsene. Ma in fondo non vede
l’ora di tornare in quel loft a guardare la gente che passa. Aprire la porta e
reinfilarsi i lacci degli anfibi. Dargli un bacio e correre giù. Proprio come
adesso. Solo che adesso lui non c’è.
Da
un calcetto a terra, è ancora fango inglese, pensa. Passa una mano sulla coda e
la fa scorrere giù, giù. Fino alla fine.
Poi
scende. Gli occhi a un cartellone. C’è ancora qualcuno che scrive lettere al
mondo? Si ma chi pensi le legga? Si chiede. Poi si mette una mano in tasca.
Riparte e scompare sulle scale mobili.
7. Massori
Comprava
il Corriere ogni giorno. Dava un’occhiata al titolo e si sedeva. Poi prendeva
una vecchia biro, di quelle che regalano ai supermercati, di uno strano nero
brillante che da lontano pareva d’oro. Si infilava il cappuccio nella tasca
del cappotto, affianco a un pacchetto di sigarette lì da chissà quanto. Fumava
soltanto quando fuori pioveva, senza l’ultimo ombrello che aveva perso due
anni prima, ad una mostra.
Tracciava
i contorni della testata, poi partiva a disegnare punti. Tutti i punti che gli
venissero in mente. Punti. Da quando era un bambino, ha sempre amato i punti.
Nessuno può misurare un punto. Eppure sono così importanti, pensava. Li
incastrava e li faceva scorrere come treni attorno alle lettere. Fra una A ed
una M, un punto. Corre così in fretta che nessuno ha mai avuto la pazienza di
stargli dietro.
Ma
lui di pazienza ne aveva all’infinito. Ogni giorno faceva colazione al bar. Un
caffè senza zucchero e una Brioche alla crema. Poi tornava a casa e si sedeva
per terra, nel suo studio. Un vecchio capannone tutto vetrate. Se l’era
costruito con suo padre, quando ha iniziato a lavorare. Era il suo lavoro,
costruire. Costruiva mosaici. Per grandi palazzi o per fondazioni culturali.
Aveva milioni di tessere di vetro. Le ritagliava quando faceva sera e non poteva
più lavorare. Non aveva lampade nel suo studio. Un mosaico è come uno
specchio, diceva. Ma può riflettere soltanto la luce del sole.
E
proprio il sole era la sua passione. Aveva imparato a leggere l’ora, soltanto
dall’ombra della quercia che aveva davanti alla finestra. Il suo orologio era
fermo da secoli, alle 15.25. Ogni mattina si alzava e faceva una foto
all’alba. Proprio mentre sorgeva. Poi le portava a sviluppare e le raccoglieva
in album enormi, come raccoglitori di ufficio. Ne portava sempre uno con sé. Lo
mostrava a chiunque gli dicesse che i giorni sono tutti uguali.
Ogni
anno prendeva l’aereo e accompagnava un suo mosaico da qualche parte. Venivano
con due camion, lo dividevano in due parti uguali e lo portavano via. Non aveva
mai fotografato nulla di suo, è il sole a dargli vita, diceva. Il sole. Look
up in the sky recognize it’s sunshine.. Un giorno un giornalista ha
deciso di fargli un catalogo. Ma lui si è rifiutato. A chi vuoi che interessi?
Chiedeva. Ma sempre più spesso qualcuno gli telefonava e gli proponeva un
lavoro nuovo, lui sorrideva e metteva giù. Non voleva che si parlasse di lui,
ma era diventato sempre più richiesto. Un giorno sul Corriere l’hanno messo
in terza pagina, ma come sempre non l’ ha neanche aperto. Dopo averlo riempito
di punti lo ripiegava e si sistemava la sciarpa che portava anche in primavera.
Poi si alzava, sempre qualche secondo prima che il treno si fermasse. Proprio
come adesso.
Scende,
sta un attimo fermo e si guarda intorno. Poi va verso una panchina, guarda i
suoi punti per l’ultima volta e li lascia lì. Devono correre, correre da
soli. Si volta, riparte e scompare sulle scale mobili.
8.
Crocetta
Teneva
aperto un libro d’arte sul velluto dei pantaloni, uno di quei libri tutti
lucidi che aveva recuperato un po’ in giro per l’Europa, nei lunghi
pomeriggi in cui non faceva che passeggiare, passeggiare e disegnare. Kandinskij.
Una coppia a cavallo, e le luci di Mosca andavano a braccetto coi neon su cui
puntava gli occhi prima di cambiare pagina ogni volta. Aveva le scarpe
allacciate in un grosso nodo e giocava a slacciarsele, una con l’altra, solo
con i piedi. Come faceva da bambina, mentre si dava ai compiti con la testa
china sul tavolo che aveva trasformato in una scrivania.
Non
si era mai sentita brutta, ma non sopportava di guardarsi allo specchio. Diceva
che gli occhi la tradivano, che gli altri ci leggevano sempre qualcosa di
diverso. O forse ogni tanto era lei a confondersi, a pensare di essersi tradita.
Si era innamorata una volta soltanto.
Una
volta soltanto ma ci aveva messo degli anni a capirlo. Un po’ perché non ci
credeva, un po’ perché non sapeva se volesse crederci o no. Diceva, beh,
capiterà a tutti prima o poi no? Erano passati anni ormai. Eppure ogni tanto
ricominciava a pensarci e a porsi tutte quelle domande a cui allora la risposta
era sempre e soltanto una,così semplice. Ti stai sbagliando.
Ma
poi non aveva il coraggio di parlarne con nessuno. Temeva che qualcuno le
dicesse che non avrebbe avuto alcun senso. Innamorarsi di una persona che
conosci da così poco. Una persona che ha già il cuore impegnato chissà dove.
Una persona così tanto diversa da te. Ma soprattutto. Temeva che qualcuno le
dicesse no. Non ha senso innamorarsi di una persona, se questa persona è la tua
migliore amica.
Eppure
a lei sembrava che per una volta gli occhi non potessero tradirla. Era bella,
si. Aveva il sorriso di chi è in corsa e ha preso il ritmo. Ogni tanto si
fermava. Ed era proprio in quei momenti che si accorgeva di amarla. Poi,
l’ultimo giorno di scuola del terzo anno le ha scritto un biglietto ed è
scomparsa. E’ partita subito. Ha finito la scuola in Australia. Là suo padre
aveva un amico d’infanzia, è stata lei a chiederglielo. Ancora non sa se sia
stata la scelta migliore, ogni volta che ci pensa le torna in mente suo nonno.
Il passato è passato, diceva. Banale, si. Però sono le ultime parole che le ha
detto, prima di morire.
Non
l’ ha mai più rivista. Forse sapeva dove avrebbe potuto andarla a cercare.
Sapeva dove, ma non perché. In fondo sarebbe stato soltanto farsi del male, e
perché poi? Aveva soltanto una sua foto, scattata in gita al liceo. Erano
sedute su una scalinata, sorridevano con una bottiglia di birra in mano. Era
stata male, e da quel giorno beve soltanto succhi di frutta. Somebody
told me that this planet was small…
I
suoi libroni patinati li tiene tutti in una mensola, ha una bacheca sotto. Una
bacheca dove tiene le lettere a cui deve ricordarsi di rispondere. La sera, si
siede davanti al suo computer e mette un po’ di musica. Di solito Jazz, oppure
qualcosina di classica. Magari qualche pianista di quelli coi capelli sugli
occhi, quelli che ogni tanto, quando le dita vanno giù pesanti, si danno uno
scossone all’indietro e riportano le ciocche a posto.
Perché
anche lei vorrebbe darsela una scossa. Vorrebbe fermarsi e guardare tutti gli
altri senza essere vista. Vorrebbe giocarsi l’identità. Le carte
dell’orgoglio contro il titolo troppo noto. Quello di diversa. Ma diversa da
chi?
Le viene da dirselo, poi chiude il libro. Beh, per oggi tocca scendere. Si alza e si riassesta le braghe. Poi fa una corsetta alla porta, si è già fermato. Salta giù e si infila il libro nella borsa. Poi si passa una mano nei capelli, corti e duri come tanti piccoli spaghi. Riparte e scompare sulle scale mobili.
9.
Porta Romana
Teneva
stretto in mano un piccolo berretto di lana. Azzurro, con un grande fiore
ricamato. Una margherita. Giocava facendo scorrere il dito su ogni petalo, come
accarezzandolo. Lo tastava e lo tirava un po’. Era abbastanza resistente, si.
Sorrideva e lo stringeva a sé, alzando gli occhi a pubblicità a cui non
avrebbe mai fatto caso.
L’aveva
cucito lui, con le sue mani. Usava l’ago da quando era soltanto un ragazzino,
ma soltanto in carcere ha imparato ad usarlo per cucire. Un anno. E’ rimasto
un anno in una cella tutta verde, di un verdino da ospedale. Il suo compagno di
cella aveva una barba lunghissima. Veniva dall’Algeria, gli aveva raccontato
tutta la sua vita. Aveva un figlio, in Francia. Non lo vedeva da quasi sei anni.
Poteva anche non esserci più.
Lui
sorrideva e si sentiva fortunato. Aveva un figlio anche lui, sapeva che c’era.
Un mese prima era arrivata una lettera. Prima di aprirla se l’è tenuta una
notte sul petto. Ogni tanto la alzava e la metteva a riflesso con la luna,
trafitta dal ferro delle sbarre. Era lei, pensava. Era lei. Poi l’ha aperta
con le unghie e l’ha letta tutta di un fiato, sputando via con gli occhi la
polvere che si era lasciato cadere addosso. Una bic rossa, comprata apposta per
lui. E le sue parole che scivolavano sulle righe di un vecchio quaderno di
scuola. Con quelle “e” lunghissime e quei puntini di sospensione che non
finivano più.
Lei
parlava così, con tante pause. E tanti punti di domanda, che spesso era lui a
metterle perché lei non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Temeva che
soffrisse, che si preoccupasse. Lei, diceva, avrebbe potuto cavarsela da sola.
Tranquillo. Per sei mesi non era andata a trovarlo, neanche un’occhiata. Poi
è riuscita a scrivergli, anche se sua madre non è mai stata d’accordo.
Sarà
da lei, pensa, dalla madre. Starà cambiando un pannolino o scaldando un
biberon.
Sarà
sdraiato, pensa, sdraiato sul suo letto con un libro. O la gazzetta che arrivava
ogni giorno, del giorno dopo.
E
invece lui sorride, sulle sue scarpe da calcetto che han comprato insieme. Vuole
suonare il campanello e dirle che era tutto solo un brutto sogno. Dirle che gli
hanno aperto e ha detto addio alle sue pareti verdi. Che. Che vuole soltanto
darle un bacio, e stringere la mano a quello strano bambolotto. Ciao, io sono il
tuo papà! Daddy's here, and
I ain't going nowhere baby...
Suona
bene papà! Papà! Si gratta un po’ il mento rasato perfetto. Poi scende. Tira
per l’ultima volta il berretto e lo infila nel tascone dei pantaloni. Papà!
Poi riprende il passo e scompare sulle scale mobili.
10.
Lodi
La
chiamavano cicogna. Le classiche cattiverie da studenti, è vero, ma ogni tanto
veniva proprio da chiedersi cosa aspettasse a aprire le ali e volare via.
Leggera com’era, forse, sarebbe finita chissà dove, un isola deserta da
qualche parte in qualche oceano. O un piccolo pezzetto di terra in qualche posto
del nord, dove metter su il suo berrettone di pelo e i suoi guanti caldissimi.
E
invece era come se vivesse in grecia, circondata da uomini barbuti che passano
giornate intere a parlare e parlare. Anassimene e Anassimandro. Pitagora e
Protagora. Socrate e Platone. Aristotele e Zenone. Sempre lì, costretta da
qualche caso del destino ad insegnare filosofia alla bellezza di cinque classi,
tutte e cinque del medesimo terzo anno.
Che
poi, lei questi uomini barbuti scolpiti solo nella pietra, li aveva forse amati
più di quanto avesse amato un qualunque altro uomo in carne ed ossa. Usciva con
un ragazzo, ai tempi del liceo. Lui era biondo e capellone, con una risata che
si era studiato davanti alla TV. Voleva fare Fonzie. Diceva ehi a tutti. Ma
soltanto lei gli aveva risposto, lo aiutava anche a farsi i compiti. Un giorno
lui si è messo in testa che voleva andarsene in America. Ha messo tutto ciò
che aveva in un borsone da militare del fratello ed è partito.
Lei
è tornata al De Anima. Si è letta nel suo lettone praticamente tutto ciò che
ha trovato di Aristotele. Avvolta in quelle coperte enormi, che la madre gli
sistemava ogni mattina. Gli piaceva arrivare a scuola almeno mezz’ora prima,
con la bicicletta che usava il padre quando faceva il postino. La legava sempre
ad una specie di inferriata a cui i bambini giocavano a tirare calci, perché
qualcuno aveva detto che sarebbe venuta giù. Invece era lì da almeno
trent’anni, ed ogni tanto era la bici a prendersi dei bei scossoni. Ma lei
tornava e la tirava su sorridendo.
Anche
adesso sorride. Ogni volta che qualche ragazzo la saluta e le chiede qualcosa.
Ogni volta che qualcuno alza la mano e le risponde. Anche quando deve urlare
sorride. Alza un po’ il braccio e poi batte sul tavolo, ma senza. Rumore. Poi
si ricompone e ricomincia con i suoi uomini barbuti. Guardando fisso nel bel
mezzo della classe, perché tanto sono le parole a dargli gli occhi. E’ questo
che i barbuti le hanno insegnato.
Quando
l’hanno vista a scuola per la prima volta qualcuno diceva che era come se
avessero preso tanti pezzi a caso. Poi l’avessero montata. Ma con qualche
centimetro qua e là che ha preso il volo, con qualche pezzo un po’ più
lungo. E qualcuno un po’ più corto. Lei lo sapeva. Sapeva che da bambini
c’era sempre stato qualcuno pronto a ridere. E sapeva soprattutto che i
bambini non sono poi così diversi dai grandi.
Ma
sapeva anche che in fondo i suoi uomini con la barba erano un po’ proprio come
lei. Qualcuno non li capiva. Qualcuno non li poteva capire. Qualcuno non li
voleva capire. Ci pensava ogni volta che si toglieva gli occhiali e stava un
po’ ferma a guardare la classe che piano piano andava sfuocando. Ecco, diceva
che tutto in fondo era un po’ così. Bastava un secondo per perderlo di vista.
Ma
poi ricominciava a parlare. E a sorridere senza che nessuno le avesse mai
chiesto di farlo. Soltanto così. Prendeva la sua bici e tornava a casa, dove la
madre ancora ogni tanto le rifaceva il letto. O le sfilava qualche libro da
sotto le braccia, quando si addormentava ancora con la luce accesa e con la
serranda su. Da quel balcone al dodicesimo piano.
Torna
a riprendersela ora, a riprendersi quella bici che qualcuno questa volta a preso
a calci al posto dell’inferriata. Sono bambini, pensa. Chi. Non lo è?
Si
rimette su il berrettone di pelo e i guanti caldissimi. Poi si guarda a terra,
quasi a controllare di essere davvero in piedi. La porta si apre e lei è sotto
con un passo. Sorride. Poi raccoglie un volantino a terra. Ryanair. Riparte e
scompare sulle scale mobili.
11.
Brenta
Aveva
ai piedi una grossa bandiera arrotolata, di un rosso che un tempo doveva essere
stato acceso. Negli anni si era un po’ lasciata andare ma ci teneva davvero
tanto a quel pezzettone di tela. Gliel’ ha regalata il nonno, era la sua,
quando è venuto a trovarlo alla festa di leva. Qualcuno ha tentato di alzargli
le mani quel giorno, ma lui se l’è tenuta stretta. Con quell’orgoglio di
chi fa qualcosa senza sapere bene perché, ma sapendo che è la cosa giusta.
La
teneva appesa al suo armadio, quello dove stipava i cappotti e le vecchie
camicie che piano piano sono passate di moda. Ma lei è sempre rimasta lì. Lo
ha visto crescere. Il giorno che i suoi sono partiti è rimasto a fissarla per
ore. Siamo io e te, diceva. Io e te. Lei lo ha visto quando ha finito di
scrivere il suo primo libro. Lo ha visto quando ha fatto la prima volta
l’amore. Ogni tanto la prendeva e la portava con sé da qualche parte.
Manifestazioni. Collettivi. Scioperi e qualsiasi posto in cui quel pezzo di tela
avrebbe potuto parlare per lui.
Non
ha mai perso un’occasione. Qualche suo vecchio amico gli dava del pazzo,
diceva, sei grande, trovati un lavoro. Lui si è iscritto all’università ed
è andato fuori corso prima ancora che capisse cosa un corso fosse. Passava le
giornate in biblioteca, e si guadagnava da vivere dando lezioni d’Italiano e
Latino a qualche studente del liceo. Ogni mattina prendeva la sua vecchia bici e
passava a metter volantini fuori dalle scuole. Lo conoscevano un po’ tutti
ormai. Johnny, così lo chiamava qualcuno di quelli più grandi, perché
somigliava a un qualche personaggio di un qualche film. Con quei riccioli
biondissimi e quegli occhi di ghiaccio.
Lui
sorrideva, sorrideva e salutava. Credevano spacciasse. Un giorno lo hanno
fermato dei carabinieri, gli hanno svuotato lo zaino e hanno trovato soltanto
libri. Documenti? 26 anni. Trovati un lavoro, coglione. Così gli han detto.
Tutti uguali, siete. Tutti uguali.
Eppure
lui si sentiva diverso. Anche se non sapeva poi bene chi fossero gli uguali e
chi i diversi. Sapeva soltanto che a lui la vita piaceva così. Con la sua bici,
il suo eskimo, i suoi vecchi mocassini e quel piccolo appartamento pieno di
libri.
Aveva
conosciuto una ragazza a una riunione. La più bella che avesse mai visto. Ma
non era mai riuscito a dirle nulla più di un come va. La incontrava ogni martedì,
quando prendeva la metro e andava dall’altra parte della città. Lei. Era
l’unica cosa che avesse davvero temuto di veder sparire in tutta la sua vita.
Non ha senso, diceva. No. Stringeva la sua bandiera e le chiedeva, scusa, per te
ce l’ha qualche senso?
E
lei sapeva rispondergli. Perché era il simbolo di qualcosa che aveva passato
una vita intera a cercare. Senza sapere se volesse proprio trovarlo o il bello
stesse proprio lì. Cercare. Correre e cercare. Oppure soltanto camminare, o
andare in bicicletta sfidando l’inverno. Come aveva sempre fatto. Guardava la
sua bandiera e le diceva grazie.
Ma
oggi ha deciso. Si è svegliato in piena notte che gli sembrava che qualcuno lo
stesse prendendo a pugni. Invece era lei. L’aveva soltanto appoggiata. E lei
era venuta giù, con tanto di asta, proprio dritta sulla sua fronte. Lui si è
alzato, si è preparato un the verde e ha tirato su’ la serranda. I can feel
the city breathin’... ha acceso il vecchio giradischi e ha messo su i Black
Star. Poi si è seduto sul balcone ed ha iniziato a ridere, ridere, ridere. Ha
aspettato l’alba. Era l’ultima cosa che aveva deciso di aspettare.
Oggi
è martedì. Ha preso la sua bici fino alla stazione e l’ha legata a un palo
pieno di adesivi. Ce n’è ancora uno del suo primo libro. Era poco più che un
opuscolo, ma l’aveva fatto girare per tutta la città. Adesso si alza e tiene
stretta la sua bandiera. Qualcuno lo sta puntando. Ma lui continua a sorridere.
Guarda
negli occhi un ragazzino con uno zaino pieno da scoppiare. Poi gli fa un cenno e
scende. Oggi è il suo giorno. Oggi. Mette un piede a terra e ride. Poi fa due
passi e ricomincia. Ridere e ridere. Ehi, ehi, ma io chi sono? Chiede alla
bandiera. Ma questa volta non aspetta una risposta e parte spedito. Si volta
un’ultima volta e scompare sulle scale mobili.
12.
Corvetto
Non
è possibile! Capitava ormai due volte ogni giorno che quel portatile si
spegnesse così, senza nemmeno una botta, un suono, nulla. Toccavi un tasto e
andava tutto via. E lei ogni volta sapeva di non poterci fare niente. Di solito
si staccava un orecchino e ci giocava da anello. Mi scarico un po’, pensava di
dire se qualcuno glielo avesse chiesto. Ma poi nessuno ci faceva nemmeno caso e
tutto ricominciava come prima.
Il
suo primo giretto in borsa l’ha fatto a 9 anni. Suo padre lavorava là, anche
se non è che fosse proprio un pezzo grosso. Faceva le pulizie. Quando tutti se
la filavano e quei grossi schermi, che non erano ancora computer, restavano lì,
immobili, a aspettare che venisse un po’ di polvere a abbracciarli e a dare
loro un po’ di carezze.
Forse
anche loro hanno un cuore, così si diceva ogni volta che quel dannato XP si
metteva a nanna da solo. Era l’unico modo per convincersi che scaraventarlo a
terra non sarebbe stata la risposta migliore. Che poi in fondo lei non se ne
accorgeva ma sapeva farci proprio di tutto lì sopra. Persino qualche giochetto
di grafica.
Aveva
iniziato a lavorare così, per caso. Perché suo padre conosceva un po’ tutti
ed era quasi una mascotte. Col suo metro e quarantadue e il basco tutti i
giorni. A tutte le ore. All’inizio pensavano che avrebbe dato di che ridere in
fretta. Una ragazza coi computer, ehi, cosa vuoi che faccia? Poi si è scoperto
che, forse si, piano piano, con un ritmo tutto suo, lo stesso di tutto ciò che
aveva fatto nei suoi 29, ma non lasciava mai una mezza virgola al caso. Non le
sfuggiva nulla. Un salterello in su, uno piccolissimo in giù, di un’azioncina.
E subito sapeva come far saltare, lei, le sue dita per non perderla di vista.
Niente di enorme e clamoroso. Si muoveva sulle mezze misure. Quelle che tutti
ignorano e un po’ a tutti poi vanno addosso. Così ogni giorno. Ogni giorno
col suo profumo.
Perché
cambiava sempre boccetta, più di quanto si cambiasse d’abito che, è vero,
non era certo il suo forte. Non abbinava i colori, ma non riusciva a uscir di
casa senza un profumo che non sentisse suo. Suo. Si colorava di profumo.
Qualcuno se lo creava lei, in casa, con alcool ed essenze che le portavano le
amiche, da qualche parte del mondo. Aveva due grandi amiche, ancora delle
superiori. Erano inseparabili. Quando tagliavano scuola andavano sempre per
vetrine a cercare boccette. Una sognava di diventare modella. L’altra un
medico famoso.
Lei
invece ha sempre soltanto sognato di trovarsi un lavoro che la facesse
sorridere, come suo padre. Sapeva che non capita spesso di uscire alle 7 con il
sorriso in fronte, ma voleva che fosse così, qualsiasi cosa le toccasse fare.
Qualcuno la chiamava quotidianità. Per lei era semplicemente quel che aveva
sempre sentito. Non un obbligo, nemmeno una scelta. Semplicemente così, si
diceva, questa è la mia vita.
Viveva
ancora col papà, in un appartamento non molto più grande dell’ufficio dove
l’avevano promossa. Ogni sera tornava a casa, si toglieva quei tristi tailleur
a cui era quasi costretta, e si metteva su una tuta fra tutte. Poi una fascia in
fronte, un paio di guanti se serviva e via, si metteva a correre per un’ora
almeno, ogni sera prima di cena. Tornava, una doccia, e si infilava sotto le
coperte. Spegnendo la luce del comodino che illuminava soltanto qualche vecchio
romanzo francese e una fotografia di un bambino biondo che sorride.
Oggi
non vede l’ora. E’ un giorno esattamente uguale a tutti gli altri, ma non
vede l’ora di tornare, togliersi via tutto e correre. Correre. Chiude il
computer con mano esperta. Poi il suono metallico della valigia che si chiude.
Stacca sui tacchi e fa un piccolo balzo per superare uno zaino poggiato per
terra. Poi le porte si aprono e scende. Si riassesta la gonna. Porta un polso
fin sotto il naso e inspira. Vaniglia. Si guarda avanti soddisfatta. Poi riparte
e scompare sulle scale mobili.
13.
Porto di mare
Le
aveva scritto una lettera. Sapeva che le lettere non le scrive più nessuno, è
vero. Ma gliel’aveva scritta lo stesso, con quella stilografica che aveva
recuperato chissà dove, a cui si era affezionato talmente tanto da non
lasciarla mai sola. In qualche tasca, o in quel vecchio zaino blu che aveva
sempre sulle spalle. Gli chiedevano sempre che cosa ci portasse. Oggi avrebbe
risposto. Niente, niente, tranquilli. E’ soltanto un cuore.
Aveva
strappato un foglio da un’agenda, quella dove scriveva i testi delle sue
canzoni, incorniciati da qualche foto, appunti e numeri di telefono dimenticati
il giorno stesso. Data 2 di febbraio. Si era seduto su una panchina appiccicosa
di pioggia, col suo cappuccio su e col walkman spento, una volta tanto. Era lei
la sua musica. Il più potente dei beat che avesse mai potuto sognare. Uno di
quei beat da cui non sai mai cosa aspettarti. Un beat che ad ogni battuta tira
fuori un loop diverso. Quel beat che ti obbliga in freestyle anche quando hai
mille testi pronti.
E
lui di testi pronti credeva di averne così tanti che ogni tanto si chiedeva chi
glielo facesse fare. Poi lei arrivava, una o due volte a settimana, non di più.
Con quelle scarpe rosse che avrebbe riconosciuto dall’altra parte del mondo. E
nei suoi occhi scopriva ogni volta un suono diverso. Ogni volta qualcosa di
nuovo per cui perdere la testa.
Era
difficile, si. Perché non è da tutti avere sempre qualcosa da inventarsi,
avere sempre una nuova carta da giocare. Ma fino all’ultimo, all’ultimo,
sentiva che ci sarebbe riuscito. E invece il tempo passava e quei mille suoni
piano piano iniziavano a confonderlo. Quel rullante secco che dava il ritmo ai
suoi pensieri andava sempre più forte. Talmente forte che una sera l’ ha
fermata e ha tirato fuori tutte quelle voci troppo basse, quasi sussurri, di cui
nessuno avrebbe potuto accorgersi.
L’orchestra
si è fermata. Ha suonato un piccolo triangolo. Il piccolo triangolo di quelle
mille piccole parole che nei grandi discorsi e nelle grandi passioni lasciamo
sempre correre via, come se nulla fosse.
Ma
è durato poco. Un suo sguardo, è bastato un suo sguardo, perché il piccolo
triangolo si mettesse a correre. Correre via spaventato. Sotto la pioggia dei
rimorsi che non si ferma mai. Quasi vergogna. Vergogna che un piccolo strumento
si sia permesso di fermare un’orchestra per dire la sua.
Poi.
E’ venuto il silenzio. Il silenzio delle domeniche d’inverno in cui tutto
sembra immobile. Quel silenzio che solo un bacio riesce a colmare. Quello che
spegne i fuochi ma gioca a soffiare sulle ceneri per tenerle accese.
Soltanto
così. Una mattina lei gli ha mandato uno di quei messaggi troppo scottanti per
essere tenuti in memoria. Ma troppo importanti per essere cancellati. Lui. Lui
ha capito. Era giunto il momento di suonare per quel piccolo triangolo. Il
momento di correre dalla sua orchestra. E dimostrargli che tante volte le rose
possono nascere pure fra le crepe dell’asfalto.
Per
questo ha lasciato camera sua. Ha lasciato il sole timido di questo pomeriggio
riflettersi su quel letto dove credeva fossero le lacrime a risolvere tutto. Ha
lasciato i suoi libri, i suoi mille dischi sparsi sulla scrivania, neri come le
notti senza stelle in cui tocca inventarsi tutto.
E
si è inventato di uscire. Uscire, prendere in mano quella penna e dirle che
qualcuno ha inventato la musica proprio per questo. Perché una nota da sola non
è nulla.
Negli
occhi ha la luce di un pianto che non uscirà. Nelle mani un futuro con cui sa
che dovrà fare a pugni. In spalla uno zaino, che si sistema per uscire e fare
un passo in giù non appena la porta si apre.
Lei
gli chiederà: perché mi guardi così? Lui ha sempre tirato fuori tutte le
parole del mondo. Ma questa volta le dirà. Soltanto.
Perché
ti amo.
Sorride,
si ferma e si rimette gli occhiali. Poi riparte e scompare sulle scale mobili.
I
woke up this morning, feeling brand new.. and I jumped up, feeling ma highs, and
ma lows in ma soul, and ma goals...
Tutto questo dedicato a tutti quei passi falsi che mi hanno insegnato ad amare le strade, a tutti quei volti su cui ho visto i miei stessi occhi, a tutti quelli con la testa rivolta all’insù, a chi aspetta da una vita e a chi si illude di avere già trovato tutto; a mia madre, la persona che più mi ha dato senza mai chiedere in cambio per tutte quelle volte che avrei voluto dirle anche soltanto che le voglio bene; è dedicato ai miei dubbi, alle mie paure e ai miei rimorsi, è dedicato ai perché che non si trovano e a quelli che conosciamo come le nostre tasche. Alle mie due scuole. A Fedor e Alberto, Franz e MDJ+. Dedicato agli angoli che mi conoscono, alla mia città e ai suoi lampioni. Dedicato alla mia finestra e alla linea gialla, a tutti quelli che hanno passato metà della propria vita ad un finestrino del 30. Dedicato a chi lascia tracce di se’, al nero inferno dei marker e alle montana che non ti abbandonano. Dedicato all’hip hop e alla sua forza, dedicato alla musica che mi accompagna e a tutti i suoi figli. Dedicato a chi mi capisce e a chi no, a chi sa di non riuscire a farlo eppure in fondo mi vuole bene, a chi mi illude e delude, a chi mi ha dato forza soltanto coi suoi occhi. Alla persona che più ho amato e a tutte le sue incertezze. Stampato un fuoco un grosso non importa nel cuore, anche se stona con tutto. Dedicato ai miei amici, a quelli con cui passo ore a parlare e a quelli che saluto soltanto. Dedicato. Dedicato in fondo, in fondo dedicato soprattutto a me. Diego.
Colonna
sonora:
The
Roots, Things fall apart
Rachmaninov,
Piano Concerto No.2 in C Minor, op.18
Aleksandr
Skrjabin, Le poeme de l’extase
Dj
Krush, Zen
Falsalarma,
La misiva
Mos
Def & Talib Kweli, Black Star
IAM,
L’ècole du micro d’argent
Common,
Like water for chocolate
Frederic
Chopin, Nocturnes
Supervirzi
Korporation, Zonastretta
The
Roots, Illadelph Halflife
Mobb
deep, Hell on Hearth
Talib
Kweli, Quality
Dj
Krush, Milight
Chet
Baker, In Paris (Barclay Sessions, 1955/56)
Common,
Electric Circus
Reflection
Eternal, Train of Thought
E
semplicemente il rumore di una statale, gli urli dei miei, la mia vicina al
telefono con vari ragazzi, il bip bip di un telefono che ogni tanto tintinna e i
beat che saranno di Destino.
26
Dicembre 2002.