IL RIMORSO DI UN ASSASSINO

di Cucciolo

Pomeriggio. Lui sullo sfondo, immerso in un panorama tardo autunnale, il mare scuro, folate di vento che fanno luccicare nell’aria i granelli di sabbia della spiaggia levigata, il cielo è grigio e azzurro, va incontro ad un tramonto non rosa, non poetico: la malinconia. Lui si guarda attorno e con gli occhi grigi più del cielo osserva le onde che bagnano i fianchi della spiaggia, la schiuma sotto lo scoglio su cui è accovacciato, le gambe incrociate e una mano sulla testa per liberare il viso dai capelli lunghi e scuri che riflettono i raggi superstiti di questa fine giornata. Lui tira sassi contro le onde, fendendole trasversalmente, rimbalzano una, due, tre volte e poi la marea le inghiotte. Le nuvole opprimono il sole che lentamente scende, spento, pallido. Il vento accarezza i pensieri di lui e alza spruzzi salati che luccicano e spariscono in un battito di ciglio. Lui è silenzioso, viso serio e schiena inarcata, il mento sopra il petto e si mostra le mani vuote. Decide di alzarsi e con passi lenti e pesati rimane in equilibrio sullo scoglio, sopra il mare che si adesso si mostra ancora più scuro ed inquieto. Il freddo si insinua tra i vestiti di lui che si avvia piano verso la strada. L’asfalto polveroso, a tratti scuro si snoda in un lunghissimo nastro, attorno ci sono degli alberi che sfilano lenti e scompaiono nella penombra della novella sera. I lampioni illuminano il centro della strada, oltre la scarpata mostri del buio, un luccichio di acqua che scorre senza fretta, la terra grigia, quasi carbone. Lui cammina a passi lenti ma decisi, sguardo basso lungo la linea bianca laterale, non passa nessuna macchina. Il silenzio è rotto solo dal respiro di lui e dal vento che annusatigli gli abiti si nasconde tra gli alberi, le foglie. La luna è bassa sull’orizzonte e si nasconde tra le nuvole grosse, preludio DI un temporale autunnale. Lui rallenta, si ferma, si guarda attorno per qualche istante. Infila la mano nei jeans e tira fuori dalla tasca posteriore un pacchetto ammaccato di sigarette, un pacchetto bianco con le scritte e le rifiniture grigie. Prende una sigaretta, sfila dalla tasca un accendino turchese e accende il fumo. Rimane fermo, scruta in alto, cerca la luna che non vuole farsi vedere. Sorride amaramente, è forse triste, forse malinconico. Si passa una mano tra i capelli pieni di vento, sulla fronte e poi la mette in tasca, il pollice fuori. Un rumore che lentamente si avvicina, una luce che si materializza davanti a lui e che nel più silenzioso rumore lo supera e sfreccia nel buio, incontro alla luna. Torna il silenzio, lui ricomincia a camminare, stavolta più rapidamente, lo sguardo sempre basso e la sigaretta fumata a metà tra le labbra. Prosegue, il buio non si avvicina mai, i lampioni gli illuminano la profondità degli occhi che guardano ancora verso l’alto, verso la tenebra che si va facendo sempre più inquietante. Un brusio lontano lo avverte della vicinanza della città, lui con due dita butta via il mozzicone della sigaretta, rosso, ancora acceso e accelera ancora. Si ferma in un angolo, si appoggia ad un muro tappezzato di manifesti scollati, si lascia scivolare sulle gambe fino a ritrovarsi seduto, con le mani tra i capelli…un pianto sommesso lo assale, il singhiozzo echeggia nel vicolo buio, le luci delle case sono grigie, le tv, lampeggiano colori nei vetri delle finestre. Lui continua a gemere, si dispera, le lacrime scendono scavandogli le guance, scendendo sul mento e tuffandosi sul suo giubbotto di pelle. I capelli adesso sono spettinati, i suoi occhi rosso sangue, passa della gente davanti al vicolo, senza accorgersi della sua presenza nell’ombra di un cassonetto. Rimane lì. Rimane fuori dal tempo, non parla, non piange più. Gli occhi sbarrati, a fissare distrattamente un tombino dall’altra parte della strada. La mattina arriva in poco tempo, il sole pallido illumina appena il vicolo, poi lo inonda di luce chiara. Lui si guarda attorno, gli occhi sempre sbarrati, ancora accovacciato, poggiato con la schiena al muro, si ripara dal freddo mattutino. Esce rapidamente dal vicolo, attento a non farsi vedere e si avvia verso casa. Apre la porta,la richiude alle sue spalle con un piede. Si guarda a fondo nello specchio del bagno, lava le mani sporche, rossastre. Piange, beve dell’acqua dal rubinetto. Si stende sul divano verde, merlato a fantasia floreale, al centro della stanza con le tapparelle completamente abbassate e le tende da cui filtrano quadratini di luce che si appiccicano al soffitto candido. Si addormenta…

Il buio si sta riappropriando del giorno, lui si sveglia di soprassalto, gli occhi incrostati di lacrime prosciugate. Il volto è tirato, stanco e sconvolto. Si alza, esce di casa e corre, corre veloce. Piange di nuovo mentre percorre il nastro di asfalto polveroso, mentre vede sfrecciare attorno a se gli alberi, il luccichio dell’acqua di un fiumiciattolo, la terra grigia, quasi carbone. Torna alla spiaggia, rimane pochi minuti a guardare le prime stelle, la sera è abbastanza limpida. Le lacrime continuano a solcare il suo viso, lui ricomincia a correre, ancora in mezzo al buio, su un sentiero di terra, tra gli alberi ai lati della strada. Scende nella scarpata, rallenta, cerca di mantenere l’equilibrio con le mani mentre un passo dopo l’altro raggiunge uno spazio pieno di erbacce alte, di cespugli. Piange ancora, singhiozza e il petto gli sussulta, si tiene la testa con una mano. Si infila tra i cespugli, si fa largo tra l’erba. Due gambe distese sulla terra umida, l’inguine, il sesso scoperto, salendo pian piano con lo sguardo vede la vita snella, coperta da un vestito bianco tutto infangato e sporco di sangue, due seni sfrontati in bella vista, l’abito è strappato. La testa, i capelli scuri. Piangendo disperato, quasi ululando alla luna alta nel cielo limpido e umido di novembre, gira quella testa verso di lui e scoppia in un pianto straziante, si inginocchia gridando di dolore al capezzale del corpo:

“Ti amo…Oddio, sono un assassino!” e rimane lì, abbracciato al suo rimorso.