RICORDI DI UN VECCHIO CHE NON CI VEDE PIU’ BENE
di Cucciolo
Non
ne ero sicuro, ma credo di aver fatto un’espressione talmente commiserevole
che quell’impiegato, in un eccesso di zelo anche un po’ umiliante nei miei
confronti, mi ha dato una tenera pacca sulla spalla, guardandomi con sguardo da
compatimento:
-Non
si preoccupi, del resto lei è in pensione e qui i servizi pubblici funzionano
bene ma poi, ha dei figli, no?-
Non
avevo voglia di parlare, ma sforzai un “Si” di diaframma.
-Potranno
accompagnarla loro, sono grandi, no?-
-Si-
Così
ci siamo salutati e, credo di avere avuto ancora quell’espressione sul mio
volto, perché lui continuava a sorridermi ed a tenermi la grossa mano liscia da
impiegato, che non ha mai fatto un cavolo nella vita, sulla spalla, fino alla
porta dove, con un “A rivederla” ed un cenno accentuato delle sopracciglia,
mi ha lasciato tornando dietro la sua scrivania.
Avrei
avuto altro da fare, ma siccome non ero più molto in vena e mio figlio Marco,
che mi aveva accompagnato fino alla motorizzazione, doveva andare a lavorare,
decisi di farmi riportare a casa. Avevo voglia di restare un po’ solo, magari
accendere un sigaro e bermi un bel caffè caldo. Mi sono lasciare da Marco sotto
il portone di casa mia e, ringraziandolo per il passaggio, ho girato la chiave
nella toppa del portoncino lasciandomelo alle spalle, mentre quello si
richiudeva sbattendo per via di quella molla sgangherata che sempre, o non lo
faceva chiudere, o lo faceva sbattere. L’ascensore era occupato, così ho
deciso di farmi i miei bei tre piani a piedi. La prima rampa di scale è passata
senza problemi ma alla seconda la lombo-sciatalgia si è riacutizzata, così ho
atteso che l’ascensore si liberasse dalla gente che andava dall’ottavo piano
fino al pian terreno e l’ ho preso un po’ risentito per quel dolore che
aumentava pian piano. Sono entrato in casa e, come faccio ormai da più o meno
quindici anni, ho dato uno sguardo distratto alla foto di mia moglie, lì,
sorridente che mi fissava in uno sguardo pieno d’amore. Ah…era ancora molto
bella a cinquantaquattro anni e chissà come sarebbe stata oggi. Ma sapevo, ed
in dieci anni me ne sono fatto una ragione, che di lei è rimasta soltanto
quella foto e una tomba in uno dei tanti vicoli del cimitero in periferia.
Quell’immagine messa lì, all’ingresso mi scaraventa sempre in mille ricordi
vicini e lontani. Sono sempre stato un po’ restio ad immergermi nel mio
passato perché quello recente non è dei più memorabili e quello più remoto
non so se sarei in grado di ricordarlo, ho sempre avuto terrore di non riuscire
a ricordare qualcosa che mi riguarda. Nonostante questo, ho deciso di farmi
trasportare da ciò che riuscivo a ripescare nel magazzino dei ricordi e, mentre
caricavo la moka, mi sono ritrovato molto piccolo, nel ’45, più o meno a
quattordici anni, al mare mentre giocavo con i miei amici nella battigia, con un
pallone di stoffa, rattoppato alla meglio e delle pietre tondeggianti a
delimitare le porte. Avevo una bella chioma liscia e bruna, la pelle ben
abbronzata. Il mio fisico era molto vigoroso, avevo già qualche muscoletto che
faceva capolino nella zona addominale e nelle spalle. La gambe e le braccia
erano molto forti perché abituate al lavoro nelle campagne con il papà che
intanto se ne stava seduto accanto alla mamma, su una stuoia di paglia
intrecciata. Ricordo che ad un certo punto arrivò un grande sibilo e le onde si
alzarono molto, poi da dietro lo stabilimento balneare spuntarono due aerei a
quota molto bassa che sganciarono forse due bombe, non so, fatto sta che il
pontile a poche centinaia di metri da noi esplose innalzando ancora di più le
onde già alte, increspando il mare e sbuffando in una coltre di fumo nero e
detriti. In quel frastuono e nella paura generale ricordo che mi ritrovai tra le
braccia una ragazzetta magra, capelli lunghi e scuri ed occhioni grandi e neri,
che mi stringeva tremando per la paura. Francesca era una mocciosetta, più
piccola di me di qualche anno, che non sopportavo molto, perché quando era
ancora una marmocchietta di un paio d’anni, mi tirava sempre i capelli fino a
farmi lacrimare gli occhi. In quel momento così terribile per noi giovincelli
trovavo però uno strano senso di piacere nello stringere a mia volta quella
figuretta così gracile e tremante. In poche parole era la mia prima cotta
giovanile, anche se non me ne rendevo conto. Quando tutto finì, i miei ed i
suoi genitori (eravamo vicini di casa) ci presero di peso e ci portarono via,
ancora scossi dall’accaduto. Loro l’avevano vissuta in prima linea la
guerra, papà era un coraggioso partigiano e mia madre, quando arrivavano i
treni dei nazisti, andava insieme ad altre migliaia di madri e nonne a rubare le
derrate alimentari che dovevano rifornire i tedeschi, procurandoci così il cibo
per mantenerci in vita mentre papà era lontano a rischiare la pelle. Mentre ero
immerso nei miei pensieri, ho acceso il fuoco del cucinino sotto la moka e
abbassato un po’ le tapparelle. Il silenzio era rotto soltanto dal crepitio
della fiammella gialla con la punta azzurrina e del caffè che iniziava a salire
dal cannello. La luce adesso era soffusa, la casa mi sembra sempre vuota a
quell’ora, di solito poi tengo la televisione spenta, non la uso molto,
preferisco parole crociate o fare qualche lavoretto casalingo, del resto sono
solo in questa casa così grande e spetta a me pulire e spolverare, adesso che
non c’è più nessuno…Quando ero ancora un ragazzino, la mia casa era molto
più piccola e povera di adesso, io dormivo nella stessa camera dei miei
genitori oppure nel cucinino, in una branda di fortuna. Tra le scatole c’era
sempre quella mocciosa, Francesca, che mi stava appiccicata aspettando non so
che, o forse lo sapevo. Voleva giocare sempre a nascondino, a quei tempi si
giocava ancora così, tra le macerie della guerra appena passata e le montagne
di sabbia e mattoni dei futuri palazzi. Giocavamo nella terra, ci sporcavamo di
fango, andavamo ancora a nuotare al fiumiciattolo a nord della città. Intanto
io avevo finito le medie, avevo sedici anni e adesso lavoravo a tempo pieno in
campagna, con papà. In quegli anni
il diploma di terza media era già molto ed in più io non amavo molto lo studio
(sono stato bocciato due volte!), preferivo giocare, come ogni adolescente
volevo fare conoscenze, amicizie nuove. Ricordo ancora Pippo, il ragazzino della
casa di fronte, ricordo che aveva le scarpe bianche nuove e che le sporcò in
meno di un’ora e il papà lo sgridò davanti a tutti, prendendolo a botte, mi
fece pena, mi stava simpatico e poi con lui marinavamo spesso e volentieri la
scuola per andare al fiume o alla ferrovia a guardare passare i treni. Anche io
ho preso qualche sculacciata, anche se non molte. Mio padre era un uomo con la
mente molto aperta, un pioniere del ragionamento con i bambini, lui parlava con
me e anche se non aveva mai finito le elementari, aveva una grande cultura,
almeno per me che ero ancora un giovanotto svanito che voleva solo giocare.
Ricordo che mi piaceva scrivere, ma più che scrivere mi piaceva intingere la
penna nel calamaio e ricamare parole con quel pennino. A scuola non ero bravo
soltanto perché non mi interessava studiare gli autori del passato, la
matematica, preferivo molto più le scienze, anche se allora non c’era poi
molto da studiare. Ricordo i miei diciotto anni ed una chitarra “Sacco” una
delle più modeste regalatami dai miei genitori, che speravano che potessi per
una volta fare qualcosa di costruttivo, anche se i musicisti non erano ben visti
se non avevano almeno il diploma del conservatorio e non suonassero da
orchestrali. Speravano che sarei rimasto un po’ più in casa, evitando così
il rischio di far brutti incontri. Io però non ho mai saputo suonare quella
chitarra, non sapevo nemmeno accordarla, così qualche tempo dopo la vendetti a
Gianni, un ragazzetto tarchiato, con le guance piene e rosee ma delle dita agili
e veloci. Passavamo giorni interi a strimpellare, lui con la chitarra che gli
avevo venduto e io con un tamburo accomodato. Avevo una bella voce, ero anche
abbastanza intonato. Intanto anche la ragazzetta gracile si era fatta quasi
donna, le sue forme si erano ben delineate, i capelli vaporosi, raccolti su un
spalla e i vestiti leggeri che svolazzavano la rendevano davvero bella alla
vista: Francesca era divenuta da piccoletta e smorfiosa, una bellissima
fanciulla! Eppure per noi due il tempo si era fermato a quando eravamo ancora
dei bambini, giocavamo ancora a nascondino, conoscevamo le nostre nudità e non
ce ne vergognavamo, continuavamo a sporcarci nella terra del viale, a tuffarci
senza niente addosso nel fiume. Le persone però ci guardavano in modo diverso
adesso, a volte ci guardavano storto quando ci vedevano giocare senza problemi,
io un uomo di diciannove anni e lei, una giovane ragazza di sedici anni, che
stanno insieme e così liberamente. A volte però ci guardavano con occhi
sognanti, come fossimo dolci innamorati, che si conoscono da quando erano
piccoli e che rimarranno insieme per tutta la vita, così, felicemente. Insomma
agli occhi della gente non c’erano ancora le mezze misure che ci sono oggi,
prima se due ragazzi come noi si comportavano in quel modo, erano o dei poco di
buono, gente poco raccomandabile o per forza innamorati, pronti per sposarsi.
Eppure lei per me era semplicemente una compagna di giochi, come poteva esserlo
anche un ragazzo e come del resto ne avevo già. E così fui costretto a
sostituire questo rapporto di pura amicizia con un sentimento molto più
complesso e molto meno spontaneo: l’amore. Fui costretto ad includere lei in
ogni mio pensiero sul futuro, a dover abbandonare i nostri tuffi nudi al fiume
per un pudore che fino a qualche giorno prima non c’era, solo perché a quei
tempi non c’erano mezze misure. Credo che lei avesse capito questa nostra
crescita forzata e non mi chiedeva nemmeno più di andare al fiume o a giocare e
così non ci vedemmo per un po’ di tempo. Era strano dover accorgersi che
stavo male senza di lei, senza poter giocare innocentemente con lei, ma sapevo
che mi mancava anche non poter più vedere il suo corpo che si modellava sempre
più giorno dopo giorno, dei suoi seni sfrontati o del suo fondoschiena scolpito
nel marmo, quella linea del ventre così sinuosa e quelle labbra che erano
adesso così carnose ed accoglienti. Sapevo di essermi innamorato, ma ero
arrabbiato per questo, non perché fosse segno di debolezza da parte mia, bensì
perché significava dover cadere nell’ordine d’idee di quella gente che
aveva frantumato la mia amicizia con Francesca.
Il
caffè reclamava un po’ d’attenzione nella moka adesso, così ho spento il
fornelletto e ho messo lo zucchero. L’aroma era buono, un odore di casa,
familiare, un sapore che stimolava ancora i miei ricordi, così dopo essermi
seduto ed aver inforcato i miei occhiali da vista per fare qualche cruciverba,
mi sono ritrovato ancora a ricordare. A ricordare lo stesso odore di caffè, a
casa di Francesca, quando i suoi genitori erano usciti per andare in città.
Ricordo che fu lei a chiamarmi, tirando un sassolino alla mia finestra e
chiedendomi di andare da lei. Ricordo l’aroma di quell’inaspettato caffè,
la strana sensazione che mi pervadeva, mentre vedevo muovere la figura di lei ai
fornelli. Quando si voltò, portando le tazze, vidi in lei uno sguardo diverso,
una strana malizia da giovane donna che sa ciò che vuole, tutto il volto
ostentava questa espressione. Gli angoli della bocca erano leggermente rivolti
all’in su, gli occhi vispi, il naso delicato che sembrava tendere ancor di più
verso l’alto, un corpo florido e giovane, liscio e morbido, accentuato da un
abito a fiori, svolazzante, al vento delle due finestre davanti e dietro noi.
Ricordo di essermi sentito un po’ in imbarazzo, del resto non ci vedevamo da
molto, credo da qualche mese e poi io ero cresciuto e avevo altre voglie
rispetto a quando giocavamo castamente assieme. Credo che anche lei adesso
avesse altre voglie più urgenti, nella sua così sfacciata giovinezza. Mi diede
la tazza e, sorprendentemente per me, si sedette sulla mia gamba. Non ebbi
neppure il tempo di finire il caffè che già mi ritrovavo immerso nella
confusione del mio primo bacio e, da non crederci, fu lei a darmelo, la mia
vecchia amica di giochi, quella stessa ragazza che prima era soltanto una
piccoletta rompi scatole. Ero molto contento, ma d'altronde anche arrabbiato,
perché sapevo che molte cose cambiavano, molte altre cose non avremmo più
potuto fare. Insomma ero già vecchio per poter ancora essere soltanto amico di
una ragazza. Questa considerazione mi ha risvegliato curvo sulle parole
crociate, mentre da almeno cinque minuti leggevo la solita frase, senza riuscire
ad applicarmi. Quando ero riuscito a liberarmi per un attimo dai ricordi, mi
sono accorto che neanche gli occhiali ormai mi aiutavano a vedere bene, era
tutto sfuocato. Ho sforzato ancora un po’ i miei occhi ed ecco che suonano
alla porta. Era mio figlio Marcello, il fratello maggiore di Marco e mi aveva
portato il mio stupendo nipotino Alessandro. Già, Marcello lavora giorno e
notte e anche mia nuora Laura all’ospedale ha molto da fare con i malati. Ho
salutato rapidamente mio figlio che scappava per andare al
lavoro (sempre in ritardo lui, fin da quando andava al liceo la mattina
con il motorino!) ed ho lasciato chiudere la porta di casa alle mie spalle.
Alessandro ha gli stessi occhi di mia moglie, che sono poi gli stessi occhi di
Marcello. E’ una gioia immensa avere di nuovo, dopo così tanti anni, una
ventata di vita in questa casa così vuota ed austera. Era quasi ora di pranzo,
così ho iniziato a preparare la pasta per me ed Alessandro. Mentre pesavo la
pasta nella bilancetta, mi sono perso ancora nei ricordi. Ricordavo che i miei
genitori ed i genitori di Francesca presero molto bene la notizia del nostro
matrimonio e prepararono una grande festa con tutti i parenti ed i miei amici e
quelli di lei. Ricordo che Francesca arrivò puntualissima, contro la tradizione
che vuole che la sposa debba fare aspettare lo sposo e me la ricordo bellissima,
lucente, il viso pulito e così giovane, lì sulla soglia della chiesa. Ricordo
il prete, quello della nostra parrocchia, lo stesso prete che mi rincorreva per
le strade cercando di farmi andare al catechismo, lo stesso che regalava tante
caramelle a Francesca, solo per farmi ingelosire. Ricordo Tutti i parenti, nonno
Franco seduto su una sedia da almeno quindici anni, le gambe perse in guerra,
che sorrideva e faticava a vederci, in mezzo ad una folla alta il doppio della
sua altezza. Ricordavo il viaggio di nozze, Parigi, i campi Elisi, la torre
Eiffel, la baguette e tutti i tratti caratteristici della Francia canterina.
Ricordo la nostra prima notte d’amore. Ah…ero un altro a quei tempi! Ero
molto più giovane, ero forte, ero litigioso, pieno di spigoli che purtroppo col
tempo si sono andati arrotondando. Ero molto curioso, avevo voglia di imparare
ed iniziavo a pentirmi di non aver continuato gli studi, così iniziai a
leggere, ma intanto serviva un lavoro vero, la campagna di mio padre non andava
più bene per me. Così feci tanti e tanti mestieri: feci il muratore, il
commesso, il fruttivendolo, il fruttivendolo finché non mi sistemai come
impiegato alla neonata “SIP”. Già…a quei tempi bastava saper leggere e
scrivere. Ricordo la nostra casa e l’immagine bellissima di Francesca In dolce
attesa di Marcello. Il nome lo scelse lei, io ricordo benissimo quando scoprimmo
che lei era incinta. Fu una gioia immensa, io mi gettai nel lavoro, feci non so
quante ora di straordinario, costruì una culla, un fasciatoio, cercai di non
fargli mancare nulla. Intanto la pasta era pronta ed allora, ancora sognante, ho
scolato la pasta, l’ ho condita, ho messo il bavaglino ad Alessandro e lui ha
iniziato a mangiare da solo. E’ un bel bambino il mio Alessandro, ormai ha
quattro anni, è così piccolo, ha quasi settant’anni in meno di me e del
resto si vede anche! Mentre facevo questa considerazione, mi sono perso ancora
nei meandri del mio passato e ricordavo quanto mio figlio Marcello è stato
geloso del suo fratellino più piccolo, Marco. Sarà rimasto almeno una
settimana senza parlare con nessuno, finche Francesca non gli fece capire che
lui era il più grande e quindi era anche responsabile del fratellino, quindi
era molto importante e che noi gli volevamo ancora bene come prima. Ricordo il
primo giorno delle elementari di Marcello, quanto ha pianto prima di lasciarmi
la mano e di quanto ho dovuto aspettare prima di poter calmare il mio cuore che
andava a mille, non ero abituato a vedere mio figlio così disperato, ma sapevo
che si sarebbe divertito in fin dei conti a scuola. Ricordo che invece Marco
entrò subito a scuola, in prima elementare, il primo giorno senza neppure
tenermi per mano, era felice di andarci. Ricordo la prima bocciatura di Marcello
in seconda media e poi invece la borsa di studio di Marco, sempre in seconda
media. Ricordo quanto tempo perdemmo io e Marcello prima di trovare una scuola
superiore che gli piacesse, anzi lui non voleva più completamente continuare
gli studi e lì forse fu la prima volta che io gli imponevo qualcosa: volevo che
si facesse una cultura andando a scuola, quella cultura che io non ho mai avuto
e che mi pento di non aver mai avuto ne coltivato quando andavo alle medie. Lui
piangeva e sembrava che non capisse proprio quanto fosse importante ed io mi
arrabbiavo ancora di più mentre Francesca ridendo sotto i baffi ripensava che
quando ero ragazzo io la storia con mio padre era la stessa. Già, mio padre
avrebbe venduto anche il proprio sangue per pagarmi almeno le superiori. Ed io
mi ritrovavo a distanza di un bel po’ di anni a fare gli stessi discorsi ad un
ragazzetto svanito che pensava solo a divertirsi (era un semplice dejà vu?).
Ricordavo mio padre, la sua ultima notte di vita, lo ricordo tremante, io avevo
vent’otto anni e lui se n’è andato sorridendo a tutti, senza pensare a
nient’altro che alla sua famiglia, ci volle tutti al suo capezzale e volle
salutarci uno per uno, come un marinaio fa prima di imbarcarsi, come fece quando
tentò di emigrare in Argentina, ci salutò come uno che spera di poter tornare
prima o poi, si! Morì con quella speranza, con la convinzione che sarebbe
ritornato presto da noi. Ricordavo quanto piansi, mi crollò il mondo addosso,
anche se avevo la mia famiglia, mi sentivo perduto senza la guida di mio padre e
poi mia madre, mia madre rimasta sola a casa, il suo rapido dimagrimento fino al
deperimento. Mia madre morì un anno dopo. La seppellimmo accanto a papà. Non
fu un gran bel periodo quello. Mi rimanevano i miei figli e mia moglie. Mentre
trasognavo, osservavo il bell’Alessandro che si impiastricciava il visino di
quella pasta con la salsa di pomodoro e tra una pulita ed un’altra continuavo
a pensare tra i rumori ed l’abbaiare della tv che adesso era accesa in un
canale di cartoni animati. Ricordavo che alla fine Marcello decise di continuare
a studiare, si iscrisse al liceo scientifico e Marco, che intanto lo aveva
raggiunto per via di tutte le bocciature del fratello maggiore, si iscrisse
senza nessun problema o discussione al liceo classico. Ricordavo quanto pianse e
singhiozzò Marcello quando fu bocciato al terzo anno facendosi così superare
definitivamente da Marco che invece portava a casa sempre ottimi voti. Mi
ritornava alla mente l’auto che regalai, una per tutti e due, una cinquecento
azzurra e la felicità nei loro occhi per un regalo inaspettato. Infatti io e
Francesca decidemmo di comprare quell’auto senza dir loro niente, volevamo
fargli una bella sorpresa! Ricordavo poi gli esami di Marco: sessanta
sessantesimi, i complimenti di tutti i professori ed un’altra borsa di studio.
Ricordavo che mentre Marcello doveva dare gli esami per le superiori, Marco
invece si iscriveva alla facoltà di lettere classiche. L’esame di Marcello fu
un disastro, una scena quasi muta ed una promozione appena appena raggiunta.
Intanto Marco continuava a studiare e prendere buoni voti agli esami alla facoltà
di lettere classiche. Marcello che non amava la matematica si iscrisse invece
alla facoltà di fisica, non riuscivo proprio a capire cosa avesse in testa quel
ragazzo, non era intelligente come il fratello e non si applicava nemmeno un
po’. Non di meno lo appoggiai e praticamente due anni dopo era già fuori
corso e con voti molto scarsi. Ricordo Laura, la ragazza di Marcello, una
ragazza molto acuta ed intelligente, forse sprecata per quel ragazzaccio di mio
figlio. Ricordo La laurea ottenuta con il massimo dei voti e con la lode di
Marco e qualche anno dopo quella di Marcello, scarsa, senza grandi acuti.
Ricordavo poi che paradossalmente fu proprio Marcello a trovare per primo lavoro
ed a sposarsi subito. Una cattedra all’università come professore di fisica.
Era molto cambiato dai tempi in qui era studente, adesso sembrava avesse
finalmente la testa sulle spalle e si impegnava nell’insegnamento fino a
partecipare ad ogni convegno e lavorare giorno e notte in ricerche varie.
Ricordavo quanto pianse Francesca al matrimonio, era davvero bellissima anche se
le rughe si facevano sempre più invadenti.
Era
ormai tardo pomeriggio quando alla porta ha suonato ancora Marcello. E’ venuto
a riprendere Alessandro che erano ormai le sette, così ho avuto ancora un po’
di tempo per abbandonarmi sul divano e dedicarmi a quel ricordo che ormai dovevo
schiudere dal torpore della mia mente arrugginita. Mia moglie, si! La
smorfiosetta diventata d’improvviso bellissima, la donna che ha generato quei
due gioielli di Marcello e Marco. Si è ammalata che era giovane, almeno così
dicono ma la sua malattia è peggiorata negli ultimi anni di vita. Distrofia
muscolare, una malattia a quel tempo non conosciuta. Non sapevano cosa avesse,
non sapevano come curarla e lei intanto negli ultimi due anni perse gradualmente
l’uso della mano destra, poi del braccio, fino alla spalla, poi non riusciva
più a tenersi in piedi, anche gli arti inferiori smisero di funzionare, anche
l’altro braccio e poi via via tutti gli altri muscoli, fino al cuore. Gli
ultimi giorni di vita mi chiamò da parte e con un filo di voce mi chiese di
badare a tutto, di avere cura di tutto quello che apparteneva anche a lei. Ho
sempre avuto una strana paura nel vederla ridotta così, sempre peggio giorno
dopo giorno, ho sempre avuto paura di perderla ma un giorno il mio incubo
divenne realtà e per la seconda volta nella mia vita mi sentii crollare tutto
addosso. Quella ragazzetta gracile e fragile che si era trasformata in una
florida ragazza era pian piano ritornata debole come da piccola. Non potrò mai
dimenticare l’umiliazione nei suoi occhi quando dovevo cambiarle il pannolone,
lei ancora così giovane, costretta in quella sedia, in quella poltrona di
forza, senza scampo. Non dimenticherò le sue lacrime mentre la stringevo forte,
più forte della morsa della morte che lentamente se la stava portando via, via
da me. I singhiozzi anche di notte, le mie notti insonni con l’orecchio teso a
controllare che il suo respiro non si fermasse. Intanto i figli erano già fuori
casa, ognuno con la propria vita, diventati grandi così in fretta, Marcello con
la sua cattedra di fisica e Marco ed i suoi ottimi voti persi in lavori
part-time modesti come i voti del fratello più grande. Io e Francesca o meglio
il corpo di Francesca, da soli, senza aiuti, io da solo senza una spalla su cui
piangere, senza la possibilità di andare a prendere aria per non lasciarla
sola. Il lavoro non contava più, io dovevo restare a vegliare la vita morta di
mia moglie. E l’ ho anche odiata mia moglie, l’ ho odiata al punto di amarla
ancora di più, di attaccarmi ad ogni sua parola detta con un filo di voce, ad
ogni suo leggero movimento. Morì di pomeriggio, un giorno di pioggia autunnale.
Non ho avuto nessuna reazione, anzi fui sorpreso nell’intuire nel mio intimo
un senso di liberazione per me, per lei, per tutti quelli che aspettavano la sua
vita riemergere dal buio di un burrone, per tutti quelli che sapevano che era
solo questione di giorni ma che non lo accettavano. Credo sia stato da quel
giorno che ho iniziato ad invecchiare. Ogni giorno mi ritrovavo una ruga in più
allo specchio e quando è finito lo spazio per altre rughe, hanno iniziato ad
aggiungersi i dolori, e quando è finito lo spazio per i dolori, sono iniziati i
capelli bianchi, i chili di troppo, i gradi di vista in meno, insomma ho
iniziato ad invecchiare sotto tutti i punti di vista. Me ne accorgo solo adesso,
ho sempre capito in ritardo il mio progressivo invecchiamento. Come quando ho
provato a giocare al pallone qualche anno fa, convinto di essere ancora in piena
forma ed invece mi ritrovai all’ospedale con un principio d’infarto o come
quando ho provato a cantare in una festa iniziando a tossire e rendendomi
ridicolo davanti a tutti o ancora quando ho iniziato a nuotare all’impazzata,
rischiando di annegare, con i crampi alle gambe. Ho sempre capito di essere
invecchiato solo dopo essermi in qualche modo reso ridicolo. Forse per me è
questo il metro di misura, il modo per capire a che punto sta la mia vita e
quanto si avvicina alle mie spalle la morte, del resto cosa aspettiamo noi qui?
Non passiamo la nostra vita in attesa che la morte ci stringa nel suo livido
abbraccio? Ormai io conto i giorni, tanto cosa ho da chiedere ancora? Cosa manca
nella mia vita? Ho avuto una bella famiglia, i miei figli sono sani ed hanno una
vita tranquilla e serena con le loro famiglie, io ho un nipotino e due nuore
dolcissime, una casa fin troppo grande, un cuore vuoto che a volte fa i capricci
ed una foto da guardare quando mi sento solo, almeno finché i miei occhi
continuano a vedere qualcosa oltre le cataratte e mi sa che non succederà
ancora per molto.
-Eh
eh…e Lei che ha fatto di bello ieri Caro mio? Intendo ieri come giorno, non
come stagione eh!
Mi
aiuta per favore a salire sull’autobus? Sembra che adesso quegli occhi non
vedano più bene non solo quella bella foto, ma non riconoscano più neppure i
segnali stradali a distanza: mi hanno tolto la patente Amico mio! Eh già…dopo
quella figuraccia davanti all’impiegato della motorizzazione, mi sono accorto
di essere invecchiato ancora un po’…già, già…Il loro senso del ridicolo
è il nostro senso della sconfitta, è la vittoria della tragicomicità Caro
mio…la vittoria del ridicolo…