OSSIDIANA

 

di Andy Phin

 

La ragazza continuava a guardare sotto di lei, appoggiata alla ringhiera rugginosa che circondava la piazza, nelle mani rigirava una piccola pietra, lucida e nera, come un frammento della notte. Sotto, le onde si infrangevano con regolarità rumorosa sugli scogli, e il vento sollevava minuscole gocce che le si posavano sul viso ancora giovane e fresco. Lui se ne stava in piedi, un po’ discosto, con una mano affondata nella tasca dei jeans, mentre con l’altra portava assiduamente la sigaretta alle labbra. Guardava il cielo livido sopra di loro. Pensò che sarebbe piovuto, che forse era un bene, non pioveva spesso in quella stagione, e magari chissà, forse così lei si sarebbe decisa, forse l’avrebbe piantata di fare la bambina. Poi la guardò, piegata sopra la ringhiera, col suo bel sedere in evidenza fasciato dai jeans stretti e sbiaditi, gli occhi grandi che guardavano senza malinconia il mare agitato. In giornate così non si può guardare il mare senza provare malinconia, pensò, senza sentire quel senso di vuoto dentro. Allora capì che lei in fondo era una bambina. A quell’età pochi anni fanno la differenza, e c’è chi può restare bambino molto a lungo.

Buttò il mozzicone oltre la ringhiera, con un gesto secco,  poi lo guardò galleggiare tra le onde.

La ragazza voltò un attimo la testa per guardarlo, assumendo un’espressione che doveva essere di risentimento. E lui pensò ancora una volta che si trovava di fronte una bambina. Era stato uno stupido, non puoi fregartene di tutti e pensare solo a te stesso, c’è gente che va protetta, che va protetta da se stessa. Specialmente i bambini pensò, dovrebbe essere una specie di dovere. Era proprio una cosa disgustosa fregarsene. Provò un cocente senso di colpa. Ma non era troppo tardi, forse.

– Cosa ne dici se torniamo a casa? – le disse

– Okay – rispose lei, senza smettere di guardare la pietra che si rigirava tra le mani.

– come hai detto che si chiama? – disse poi

– Che cosa? – chiese lui

– la pietra, questo tipo di pietra qua –

– ossidiana, è una pietra lavica, c’è n’è un sacco nell’isola. Anzi, una volta credo di aver sentito che ce n’è solo qui di così, di questo tipo particolare, ma non ne sono sicuro –

– è molto bella – disse lei, portandosela più vicina al viso – è così nera e lucida. Perché non la usano per farne dei gioielli? Voglio dire, se sta così, per terra, non penso lo facciano, perché non lo fanno allora, perché non farne dei gioielli? –

– Non lo so, probabilmente non è abbastanza rara. Forse è solo perché è qui, in quest’isola, se si trovasse in qualunque altro posto al mondo, probabilmente l’avrebbero fatto, ma qui no; qui ci sono un sacco di cose belle che nessuno usa. –  – Gli uomini primitivi l’usavano per farne delle armi, o degli attrezzi, avevano scoperto che è molto dura come pietra –

– Gli uomini primitivi sapevano un sacco di cose, voglio dire, per essere primitivi. Cose che noi adesso non sappiamo più. –  – Vorrà dire che la porterò con me questa, mi piacciono le cose resistenti. E poi è proprio bella, così nera, io ne farei senz’altro dei gioielli –.

– Allora cos’ hai deciso, torni a casa? – Disse lui, facendo ancora un altro tentativo

– tu non mi vuoi qui, vero? È per questo che me lo chiedi –

– ma no, lo sai che non è così… è solo, che è la cosa migliore. Per te voglio dire, lo sai benissimo. Cosa potresti fare qui? È  solo un’isola, una maledetta isola in mezzo al mare; nessuno vuole veramente restare qui, non tu almeno, hai un sacco di cose al tuo paese, qui che cosa hai? –

– Qui ho te – rispose lei. Lui la guardò per un momento, poi distolse lo sguardo verso il mare, sulla cresta delle onde si formava una schiuma bianca, come tante strisce in mezzo al nero del mare. Trasse un sospiro, imbarazzato, non sapeva davvero cosa dirle. Era proprio una bambina.

– Hai proprio la testa dura –

– come la… come si chiama, l’ho già dimenticato – disse sollevando un poco la pietra

– ossidiana, si chiama ossidiana – le ripeté lui

– è inutile, non lo ricorderò mai ‘sto nome –

– associalo a qualcos’altro. Ad esempio… la dea della luce, sai come si chiama?

– Mmm… no –

– fa niente, non importa – disse lui.

– Scusami – disse lei dopo qualche istante – non avevo il diritto di dire quella cosa –

– non pensiamoci. Perché piuttosto non andiamo a casa, ormai è ora di cena –

– cosa c’è di buono? –

– Boh, non lo so, non credo di avere molto in dispensa. Possiamo fermarci a prendere due pizze –

– no, non compriamole, le faccio io. Sono molto brava a fare la pizza sai, mia madre a casa vuole sempre che la faccia io, dice che la mia è più buona –.

Lui la guardò e le sorrise, le disse okay. Era una bambina si, era proprio deliziosa,  si sentì a posto, e per un po’ si scordò del senso di colpa.

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– Ma non avevi detto che avresti fatto la pizza? – Le disse guardando incuriosito dentro al suo piatto. Erano seduti sulle sedie di plastica, sul terrazzo, e il tavolo ne occupava quasi l’intera superficie. Di là della porta: la camera da letto-salotto, l’angolo cottura, ed il minuscolo bagno. Oltre il sottile parapetto in cemento, le onde si abbattevano sulla costa, col rumore dei ciottoli trascinati dalla risacca.

– Perché, che cosa ti sembra quella? –

– Per me ha più l’aria delle lasagne che della pizza – disse lui, portandosi la forchetta alla bocca

– mmm… e devo dire che sono davvero delle ottime lasagne – aggiunse parlando con la bocca piena

– non sono lasagne, è pizza. Non è colpa mia se è venuta così, se il tuo forno non fosse un pezzo da museo forse sarebbe venuta meglio. Io non ci capisco niente con quell’affare a gas. E poi è anche pericoloso, secondo me uno di questi giorni salterà in aria, farai saltare mezza isola con quel coso. –

Finirono di cenare, ascoltando la radio che stava appoggiata sul comodino, di fianco al letto. Era una vecchio apparecchio degli anni settanta, prendeva pochissime stazioni. In quella che stavano ascoltando, il tizio che parlava, forse il deejay, doveva andare da qualche parte, ma non si era capito dove. Poi mise un vecchio disco rock americano, e salutò delle persone di una città lontana.

– Lascia stare, ti ho detto che li lavo io i piatti – gli disse, spingendolo fuori, verso il terrazzo – tu restatene seduto qua e fumati in pace la tua sigaretta, che penso io  a sistemare tutto –

– è solo che non ci sono abituato, così mi vizierai –

– meglio, così almeno sentirai la mia mancanza per qualcosa quando me ne sarò andata –.

Seduto al contrario sulla sedia, con la schiena appoggiata al parapetto del terrazzo, la guardava mentre sistemava i piatti sporchi nel lavello, all’altro capo della stanza

– il detersivo è sulla mensola, dietro la tenda – le disse. Lei non rispose, e continuò indaffarata, canticchiando sottovoce il motivo della radio.

Il cielo aveva assunto una sfumatura di blu intenso, lui fumava lentamente, senza nemmeno sentire il rumore del mare, come non si avverte il battito del proprio cuore. Guardava la ragazza di spalle, indossava una maglietta corta, che le scopriva parte della schiena, indugiò un attimo osservando la sua pelle abbronzata, e la sinuosa curva della spina dorsale.

Il vecchio lampadario appeso al soffitto mandava una luce arancione su tutta la stanza e sui pochi oggetti che l’arredavano, solo roba di plastica, quasi tutta inutile.

 

Si guardò in giro, svegliato dalla corrente d’aria fresca che colpì il suo corpo nudo. La finestra del terrazzo era aperta, e sul pavimento c’era una striscia dorata della prima luce del mattino. Si tirò la coperta su, fin sul collo. Lei non c’era a letto, e dal bagno si sentiva il rumore scrosciante della doccia. Guardò l’altra metà del letto, il cuscino sgualcito, le lenzuola sollevate che mostravano parte del materasso, di un nocciola sbiadito. Gli tornarono in mente le immagini di quella notte. Avevano fatto l’amore, un’altra volta. Pensava sarebbe stato facile, volere è potere, no? Non era affatto così, quando aveva sentito il calore del suo corpo vicino, e poi la dolce pressione dei suoi seni, quel corpo così giovane, così elastico, quella pelle liscia, il suo profumo…

Tornò anche il senso di colpa; non doveva proteggerla? Non era andata così.

Aveva già preparato la valigia, era chiusa e appoggiata alla parete, con sopra piegati solo un paio di jeans e una maglietta. La doccia si chiuse, e rimase solo il rumore delle onde da fuori.

Non era così, lei non aveva bisogno di essere protetta. L’unico che aveva bisogno di qualcosa era lui. Chissà di cosa, gli venne da chiedersi.

La porta del bagno si aprì, lei lo guardò e gli sorrise, aveva i capelli bagnati, sembrava ancora più giovane. Era bellissima, pensò, vedendola avvolta nell’asciugamano.

– A che ora c’è la nave? – Gli chiese, cominciando ad asciugarsi i capelli

– c’è l’aliscafo alle nove – le disse – ma c’è un’imbarcazione ogni ora, circa, non c’è tutta questa fretta. Volendo, abbiamo ancora un po’ di tempo –

– quello delle nove andrà benissimo, mancano quasi due ore, abbiamo tutto il tempo –.

Lui si alzò dal letto, si infilò i pantaloni, e le si avvicinò da dietro. Lei era in piedi di fronte allo specchio della piccola entrata, con una mano reggeva l’asciugacapelli, mentre con l’altra dava vigorosi colpi di spazzola. Lui guardò l’immagine della ragazza riflessa nello specchio, cercò inutilmente il suo sguardo. Pensò di abbracciarla, ma gli sembrava così diversa. Non gli pareva più una bambina, avrebbe voluto stringerla tra le braccia. Andò verso il frigorifero, si versò un bicchiere di latte, e lo bevve freddo, ascoltando il proprio cuore che rallentava il battito.

Lei si era già vestita, e lo aspettava nel terrazzo, con le mani appoggiate al muretto, guardava verso il mare. Lui finì di radersi, si passò l’asciugamano sulla faccia, e si infilò la camicia. Si appoggiò con i gomiti al parapetto, di fianco a lei.

– Sei sicura di voler andare? – le chiese – se volessi restare un altro po’… per me non sarebbe un problema –

– non avevi detto che è la cosa migliore? –

– Si lo so. Ma mi chiedo se tu ne sia convinta –

– e tu, lo sei? – gli chiese

– non lo so – disse – non lo so più –.

 

 

L’aliscafo partì, prima con un rombo cupo si allontanò dal molo, poi il rumore si fece un poco più acuto, e l’imbarcazione si sollevò sul filo d’acqua. Lei era seduta vicino al finestrino, si era voltata a guardarlo una volta, aveva accennato un sorriso, tutto qui.

– Puoi tornare quando vuoi – le aveva detto, prima che iniziasse ad attraversare la stretta passerella.

– ti scriverò – aveva detto lei, e l’aveva baciato sulla guancia.

Non se lo immaginava così, pensava che sarebbe stato come liberarsi da un peso. Invece la sensazione era quella di aver perduto qualcosa, ed il peso era ancora maggiore, almeno per il momento.

L’aliscafo si allontanava rapido verso l’orizzonte, verso la terra, che non si vedeva. Rimase lì in piedi, guardando l’imbarcazione diventare sempre più piccola, fino a sparire completamente.

Camminò un poco, sotto al cielo grigio, che prometteva una pioggia che non avrebbe mantenuto. Si portò lungo la costa, le onde arrivavano a sfioragli i piedi. Camminava lentamente, calciando le piccole pietre di ossidiana che gli capitavano tra i piedi. Poi ne trovò una più grossa, si chinò e la raccolse. Era perfettamente levigata, senza la minima impurità, ci si specchiava come su un pezzo di cristallo. Anche la forma, era quasi ovale, solo un po’ schiacciata, ma regolare. Era davvero perfetta, non ne aveva mai trovate di così, guardandola, ci si poteva perdere dentro a quella piccola cosa nera. La strinse un po’ nella mano, poi la scagliò più lontano che poté, verso il mare. Ecco pensò, adesso c’è una cosa bella di meno su quest’isola.

Poco lontano due turisti facevano delle foto alla spiaggia, gli lanciarono un’occhiata, poi si voltarono, e scattarono una foto al paese da quell’angolatura. Dissero qualcosa tra di loro, in una lingua che lui non capì, non ci fece caso, c’era abituato.