LA
FAVOLA DI HONG-GU E NOR-BU
A
Silvia (Chan-pa) a Claudia (Sat-tva)
Fabrizio
Ulivieri
Hon-
gu incontra un’ombra
Hon-gu
camminava solo solo per ritornare a casa, come un piccolo puntino
sotto quel cielo coreano di un blu profondo e terso che raggiunge il suo apice
solo in autunno.
Un
color indaco ( tchok, come lo chiamano i coreani ) che solo a vederlo fa aprire
il cuore di gioia e illuminare gli occhi di una profondità senza limite.
La
viottola di campagna lo conduceva (o lo “induceva”?) verso il ponte di Ch'ônggyech'ôn
che attraversa un fiumiciattolo dall’acqua sonora.
Alla
vista del ponte gli venne in mente, chissà perché, il ricordo di
un’antica usanza che aveva sentito raccontare dai suoi nonni.
Si
diceva infatti che durante il periodo Chosôn v’era una non comune usanza di
punire chiunque avesse infranto la legge o rubato fondi governativi facendolo
bollire in un pentolone d’acqua.
Questo
tipo di punizione era chiamata p'aenghyông e veniva eseguita su uno dei ponti
che attraversano ancora il Ch'ônggyech'ôn.
A
metà del ponte si costruiva un alto focolare, e un calderone grande abbastanza
da contenere una persona era posto su una catasta di legna. Il colpevole,
strettamente legato con funi, lo si ficcava poi nel calderone. Si chiudeva il
coperchio e si accendeva il fuoco.
Certo,
pensò Hon-gu, la crudeltà degli esseri umani è davvero senza limiti. Da
tutt’e due le parti: di chi ha torto e di chi ha ragione. Avere ragione non
significa agire del pari, o anche peggio, di chi ha commesso il torto.
Altrimenti si entra in una catena senza fine…
Mentre
se ne stava immerso in simili pensieri ecco che vide innanzi a sé
un’ombra.
Guardò
meglio: era come l’ombra di uno shramana.
Eppure
gli ricordava qualcuno…suo padre! Sì! Il vecchio Hon-gu-pa!.
Stava
quasi per mormorare “Padre!”ma l’ombra svanì.
Hon-gu
mosse ancora dei passi. Ed ecco che l’ombra si rimaterializza più in là alla
fine del ponte. L’ombra apre il palmo della mano. Gli mostra dei semi. Poi con
il bastone scava un piccolo buco per terra e vi getta dentro i semi. Con
il piede destro ricopre la piccola buca. Ci sputa sopra. Poi si volge a Hon-gu e
gli sorride.
E’
proprio lui, il vecchio Hon-gu-pa!
Il
vecchio padre apre le braccia per accogliere il figlio. Ride. Ma dai suoi
occhi calano dei grossi lacrimoni.
Hon-gu,
intenerito, corre incontro al vecchio per abbracciarlo.
Appena
gli sembra di averlo fatto, niente! solo aria. Aria! Aria! Aria!
L’ombra
non v’è più.
Hon-gu
è disorientato e irrequieto. Ha davvero un brutto presentimento.
Allora
corre verso casa con il cuore in gola. Ma quando ci arriva il sangue gli si
ghiaccia.
Chan-pa.
La
prima volta lo scoprì per caso.
Era
sdraiato per terra. Fra l’erba alta di un prato di montagna. Era tutto calmo.
Fresco. Solo una leggera brezza. E sopra di lui l’immenso e sterminato agli
occhi blu del cielo coreano. Un cielo altissimo. Impenetrabile.
D’un
tratto cominciò a ronzargli d’intorno un’ape.
L’ape
lo infastidiva. E così il piccolo Chan-pa cercò di scacciarla.
Ma
l’ape ritornò all’improvviso e all’improvviso gli si parò d’innanzi.
Gli
occhi dell’ape e di Chan-pa si incrociarono.
Fu
un attimo. Per un attimo Chan-pa scoprì quel fenomeno incredibile.
Sentì,
come dire, l’anima sua trasmigrare in quella dell’ape. Lui fu l’ape e
l’ape fu lui.
Sentì
volarsi in alto. Su giù, di qua e di là, in un volo disordinato e caotico. Poi
si vide: Chan-pa.
Lì
sdraiato in terra come morto.
Si
posò sul corpo. Come stecchito. Ma non provò dispiacere: “E’
bellissimo!”, urlò di gioia. E volò via impazzito. Volò in lungo e in
largo, fin quando, chissà come (per una sorta di coscienza profonda culturale
che ci guida, come notte del corpo e anche dello spirito, finché non avremo
imparato a distaccare l’anima dal corpo, e troveremo allora la luce) si ritrovò
sopra il ponte, sotto il quale viveva la sua famiglia. Vide Hon-gu, suo padre
ritornare a casa. Vide sua madre e suo fratellino Sat-tva aspettarlo felici:
ecco ora Sat-tva correre incontro a suo padre, a braccia aperte; a braccia
aperte prenderlo suo padre.
Com’era
bello da lassù vedere la sua piccola famiglia!
(Pover’uomo
suo padre! Dopo la morte del nonno, il fratello, il cattivo Nor-bu e quella
megera di sua moglie si erano presi la casa, tutti i soldi e cacciato, a suon di
randellate, Hon-gu e la famiglia.
Ora
vivevano sotto un ponte.
La
mamma e il babbo facevano dei lavoretti per sopravvivere: pulivano le case,
svuotavano i fossi dai liquami. Vivevano come passeri sull’albero. E
quando non avevano lavoro, c’era sempre la mano di Dio che li aiutava.)
Non
riusciva più a staccarsi da quella scena. E volò per ore e ore intorno a loro,
che neppure provarono scacciarla quella fastidiosa ape tanto amavano gli
animali!
A
certo punto si accorse che era quasi buio. Perché vide i suoi genitori in ansia
aspettarlo scrutando all’orizzonte. Era l’ora della preghiera. Se Chan-pa
fosse mancato sua madre si sarebbe arrabbiata moltissimo.
Così
via di corsa verso il prato da dov’era venuto.
Lì
si ritrovo. Secco come uno stoccafisso.
Di
nuovo puntò gli occhi su se stesso, e…zack! Chan-pa ritornò
Chan-pa e l’ape fu di nuovo ape.
I
tre animali
Venne
l’inverno.Venne il freddo. Nessuno aveva più bisogno dei lavoretti di Hon-gu.
Venne
la fame e il buio delle lunghe giornate d’inverno.
Hon-gu
passava i suoi giorni nel bosco a cercare bacche e radici per sé e la sua
famiglia.
Ma
anche quelle scarseggiavano ogni giorno di più.
I
figli piangevano per la fame. La moglie piangeva per la disperazione. Nel bosco
niente di niente. Era sempre più freddo. Era sempre più buio.
E
cadde di nuovo la neve.
Così
Hon-gu spinto dalla disperazione capitò a gironzolare davanti alla casa del
fratello, il cattivo Nor-bu.
Bussò
alla porta. La porta era aperta e poiché nessuno veniva ad aprire, Hon-gu entrò.
Dentro
c’era un bel calduccio. Da ogni angolo della casa emanava un senso di
opulenza, di una vita grassa, calda e senza problemi. Del domani sicuro e sempre
uguale a se stesso.
Si
ricordò di quando era un bambino. Del vecchio padre e della madre, la severa
I-da-nin.
Giunto
davanti alla cucina, sentì il borbottio di un grosso paiolo pieno di riso e
verdure cuocere sopra un crepitante fuoco. La porta della cucina era semichiusa,
così accostò l’occhio e vi intravide la moglie del fratello. Girava un
grande mestolo nel paiolo come una fattucchiera che preparasse una pozione
magica.
D’istinto
la megera si voltò e lo inquadrò con i suoi occhiacci come di coccio.
“Che
vuoi tu, buonannulla! Come ti permetti di entrare in una casa rispettabile! Tu!
Pezzente, ladro e vagabondo!”
Hon-gu
sentì il suo cuore diventargli piccolo come una noce di nocciola.
“Pietà!
Un po’ di riso se non per me, almeno per i miei figli. Ti prego!”
La
megera non fece discorsi. Gli sferrò violenta una paiolata, colpendo Hon-gu
diritto sulla bocca. Che gli sanguinò.
Hon-gu
sentì il sangue caldo colargli, misto al riso e alle verdure che vi erano
rimaste appiccicate a seguito della paiolata.
Come
un animale cominciò a leccarsi la bocca con la lingua. Come una bestia, spinta
dai morsi crudeli della fame, si aiutò con le mani.
La
fame donava sempre più la sua immagine ai figli, che deperivano a vista
d’occhio.
Quei
volti scavati, smagriti e sparuti gli imposero ancora una volta di ritornare nel
bosco.
Il
bosco in quel tempo era un capolavoro di bianco e di macchie scure, di verdi e
di marroni. Una coltre spessa di neve lo copriva. E il rumore dei suoi passi
suonava morbido e tuttavia spaesante.Tutto era bianco, come l’ingenuità del
cuore dei suoi figli i cui occhi l’avevano fin lì spinto.
Con
le mani gelate principiò a scavare nella candida neve. Sperava di trovare delle
radici di ginsen o di tôdôk, tutt’e due eccellenti come ricostituenti.
Avrebbero lenito i morsi della fame e dato ai suoi figli la forza di andare
avanti.
Cambiò
più volte posto. Ma i risultati furono sempre gli stessi: niente!
A
poco a poco fece buio. Quel buio invernale che fa paura ai poveri. E nella morsa
d’inquietudine che lo attanagliava sempre all’arrivo della sera riprese la
strada di casa, quando all’improvviso si vide avanzare contro un orso bruno.
Enorme. Grosso come una montagna.
Hon-gu
pensò: “E’ giunta la mia ora!” e raccomandò la sua anima a Dio. Ma
l’orso invece gli si avvicinò. Lo guardò dritto negli occhi. Sembrò quasi
sorridergli. Poi emise un urlo spaventoso. E corse via.
Hon-gu
rimase lì lì, tramortito.
La prima idea fu che forse sarebbe dovuto fuggire. Ma una voce dentro gli gridò:
“No!”.
Così
indugiò ancora, senza un motivo. Confuso.
Passarono
sì e no quindici minuti. Ed ecco di nuovo l’orso, tutto bagnato.
Si
avvicina. E con la bocca gli deposita ai suoi piedi tre enormi salmoni.
Struscia
un poco la testa ai ginocchi di Hon-gu e se ne va.
Gli
occhi di Hon-gu spalancati come quelli di uno che avesse visto un fantasma!
Quella
sera Hon-gu e la famiglia mangiarono come da tempo non era più. E ne ebbero per
quasi tutta la settimana.
Passò
una settimana appunto. Ma niente dura a questo mondo, e allora dové di
nuovo riprendere la strada del bosco.
Questa
volta la neve era scomparsa e rimasta solo qualche chiazza qua e là.
Hon-gu,
debole per la fame e confuso per il freddo, cominciò ad aggirarsi fra le
piante scavando, in cerca di radici.
Le
mani gli diventarono rosse per il freddo e gli dolsero fino quasi a sanguinare.
Dovette
fermarsi. Gli erano divenute così gonfie!
Cercò
di riscaldarle ficcandosele sotto le vesti. Si rannicchiò sulle ginocchia per
farsi calore. Si sentiva perduto e due grosse lacrime presero a scendergli calde
e lente, mentre la vista gli si annebbiava.
Chiuse
gli occhi.
Passò
un tempo, che gli parve indefinito.
Poi
gli sembrò qualcosa di umido e di appiccicaticcio sul suo volto come leccarlo.
Ma caldo! Di un calore vivo come la sua fame.
Si
riebbe.
Aprì
gli occhi: l’enorme lingua di un lupo stava leccandogli la faccia.
Balzò
in piedi terrorizzato e gli si rizzarono tutti i capelli per la paura.
Ma
il lupo rimase lì. Bonaccione con la lingua penzoloni, con la bava che colava
dagli angoli della sua bocca.
Per
un attimo i due si guardarono. Poi il lupo calmo calmo trotterellò via.
Hon-gu
fu sgomento.
Hon-gu
si guardò le mani. Gli si erano, forse per la paura, un po’ sgonfiate e il
sangue aveva ripreso a scorrere.
Così
ricominciò a scavare. Passò più o meno un’oretta e Hon-gu, raccolta qualche
misera radice di tôdôk, si era ormai rimesso sulla strada di casa con la
morte nel cuore. Quand’ecco, a un tratto, sente un fruscìo dietro di sé. Si
volta. E toh! Chi vede?
Il
lupo. Che strascica, tirandolo per la gola, un grosso cervo.
Il
lupo lascia la preda alla punta dei piedi di Hon-gu. Strofina la testa ai suoi
ginocchi e sparisce.
Hon-gu
si getta allora in ginocchio e piangendo come un bimbo comincia a ringraziare
Dio, premendo con violenza la testa contro il suolo ghiacciato.
L’inverno
sembrava non finire mai e la fame aumentare sempre.
Il
cervo non durò a lungo. E così Hon-gu quale altra scelta poteva avere se non
ancora una volta la strada del bosco?
Ma
il bosco era come morto. Oltre al freddo si era aggiunta ora una lunga siccità.
E tutto era come privo di vita. Preso dalla disperazione nel vedere una
desolazione simile Hon-gu fu preso anche dallo sconforto, e fu impossessato da
un freddo terribile.
Così
si fermò ad un certo punto di una radura. Raccolse della legna e si accese un
bel fuoco per riscaldarsi.
Mentre
se ne stava lì fermo immerso nei suoi funesti pensieri gli si avvicinò un
grosso coniglio bianco. Bello. Grasso come un maialino. Hon-gu guardò il
coniglio-maialino. Il coniglio-maialino guardò Hon-gu
Silenzio.
La
prima sensazione di Hon-gu fu quella di prendere un bastone e ucciderlo.
Ma
poi pensò che in fondo anche quel coniglio era un essere vivente, e non era
giusto ucciderlo.
Il
coniglio continuò a fissare Hon-gu come se ne potesse carpire i pensieri. Poi
si voltò indietro, e percorse, muovendo il culo grasso, alcuni metri. Si fermò.
Si rigirò e sembrò fissare un punto. Rimase fermo, lì, per alcuni minuti. Poi
partì di corsa e si gettò… nel fuoco! Si immolò! Lasciandosi bruciare
e cuocere come la migliore delle offerte per il migliore degli dèi.
Senza
neanche il minimo grido di dolore gli si era offerto come cibo per lui e la sua
famiglia.
Hon-gu
ebbe gli occhi sbarrati. Un nodo gli serrò la gola. Non una parola non un
pensiero.
Fu
poi il nulla. Cadde poi riverso per terra e svenne.
La
sera a tavola Sat-tva Gli domandò “Perché onorevole padre Hon-gu il coniglio
si è offerto a noi?”
Hon-gu
tacque alcuni minuti. Tutta la famigliola pendeva dalle sue labbra.
“Un
amore universale” credo “lo possa aver spinto fino ad offrirsi. Ha provato
lo stesso sentimento di sofferenza che io provavo. Per questo ci ha amato.
La sofferenza rende uguali tutte le creature: la sofferenza ci può salvare. La
sofferenza ci fa riconoscere l’altro uguale a noi. La sofferenza ci prepara a
un futuro migliore. Ci mostra la strada per la salvezza. Chi sacrifica se stesso
per amore di un altro salva se stesso.”
L’ossessione
di Chan-pa
Dopo
la storia del coniglio, Chan-pa cominciò ad essere ossessionato da un’idea:
la morte!
“Perché”
si chiedeva Chan-pa “Quel coniglio si è ucciso? Un momento prima era vivo.
Poi si è gettato nel fuoco ed è morto. Perché si nasce e si muore?”
Suo
padre gli aveva detto che quando si muore chi ha fatto il bene in questo mondo
avrà il bene nell’altro, chi ha fatto il male in questo patirà nell’altro.
“Ma
tutti moriamo!” si ripeteva sempre Chan-pa “Buoni e cattivi. Egualmente
moriamo. Cosa vuol dire morire?”
Un
giorno si trovava di nuovo per i prati della montagna, e guardando l’intenso
blu del cielo, sentì il cuore aprirglisi, e la possente domanda rimbombare nel
suo cuore “Che vuol dire morire?”
Si
guardò intorno e vide gli uccelli. Si guardò intorno e vide gli insetti. Si
guardò intorno e vide i serpenti. Si guardò intorno e vide gli alberi, le
piante… Tutto muore non solo gli uomini! “Devo entrare nel suo cuore!”
pensò all’improvviso Chan-pa “Nel cuore del mondo. E così potrò capire
che vuol dire morire!”
Puntò
gli occhi su un grosso uccello che stava appollaiato su di un ramo. E fu
quell’uccello.
E
volò via, incontro alla morte.
Volò
verso un gruppo di cacciatori esperti che si stavano approssimando. Gli volò
intorno per attirare l’attenzione di loro.
Alla
fine uno di questi infastidito incoccò la freccia all’arco e con un colpo
perfetto lo passò da parte a parte.
Fu
come un tonfo.
Poi
fu un grande caldo. Sentì come una luce spegnersi dapprima piano piano, poi
rapidamente.
Rivide
in un lampo tutta la vita dell’ uccello. Come in un lampo che abbracciava la
sua vita tutta, dalla nascita fino a quel momento.
Poi
tornò un lungo buio profondo.
Poi
fu il silenzio angosciante.
Poi
fu il nulla.
Poi,
ci fu come… un puntino bianco… che andava crescendo… come una piccolissima
luce… farsi incontro…
D’improvviso
si risvegliò sotto il ramo, e l’uccello morto trafitto dalla freccia davanti
ai suoi piedi.
“Credo
di aver capito, che vuol dire morire!”, pensò subitaneo.
Ma
qualcosa lo rendeva insoddisfatto, lo tirava da un’altra parte.
Si
rimise in cammino, rimuginando.
Ripensò
all’uccello morto ai suoi piedi. E allora fu come un’illuminazione.
Per
entrare nel cuore del mondo, aveva strappato il cuore a uno dei figli del mondo.
Non
aveva avuto nessun rispetto per quel povero animale. Per la sete del suo sapere,
aveva sacrificato un figlio di questo mondo, quando un figlio di questo mondo si
era offerto per amore in sacrificio alla sua famiglia.
Se
l’avesse detto a suo padre, il buon Hon-gu si sarebbe di certo arrabbiato.
Era
una colpa che l’avrebbe certo accompagnato per tutta la vita. Era una colpa
che avrebbe dovuto espiare, un giorno.
L’arrivo
della primavera
E
venne finalmente la primavera. Cominciarono a fiorire gli alberi, l’aria fu
mite. E finì il lungo buio dell’inverno. La nuova luce si portò via le
vecchie angosce.
Hon-gu
e la moglie ricominciarono i loro lavoretti. E così la famigliola poté
vivere meglio.
Sotto
il ponte anche si viveva meglio.
Chan–pa
e Sat-tva passavano i loro pomeriggi a pescare e così alla sera c’era da
mangiare un po’ di pesce.
Una
volta che Sat-tva prese un pesce domandò a Chan-pa : “Ho preso un pesce
Onorevole fratello. L’ho preso perché io sono stato più furbo di lui. Che
pensi, è giusto che me lo mangi?”
“Tu
non hai preso il pesce. E’ il pesce che si è fatto prendere da te, perché tu
possa mangiare.”
”Il pesce si è fatto prendere da me? Ma che dici Onorevole fratello?”
“Tutto
in questo mondo è collegato: ogni cosa dipende da un’altra. Anche quelle più
apparentemente inutili, sono importantissime in questa catena di dipendenza, di
vita e di morte.
Prendi
una zanzara ad esempio…”
“Una
zanzara?”
“Sì,
una zanzara. Che c’è di più fastidioso di una zanzara per gli uomini. Si
nutrono del sangue degli uomini. Trasmettono molte malattie agli uomini. E
qualche volta ne provocano anche la morte. Ma se non ci fossero migliaia di
zanzare di che si ciberebbero migliaia di pipistrelli e di rane? Nessun essere
in questo mondo potrebbe esistere senza dipendere dagli altri. Se nessuno
mangiasse i pesci in questo mondo, i pesci sarebbero i veri padroni. Se gli
uomini non morissero, non ci sarebbe più spazio per quelli che devono
nascere…Ogni causa ha un effetto e ogni effetto una causa…”
Ma
per Sat-tva questi erano discorsi forse troppo difficili. Già aveva lasciato la
canna e ributtato il pesce in acqua per correre dietro a una bella farfalla
variopinta.
L’arrivo
delle rondini
A
primavera arrivarono le rondini. E nidificarono sotto il ponte.
Sat-tva
le osservava tutti i giorni a testa in su.
“Chissà
quanto mondo hanno visto le rondini? Quanti paesi hanno girato?”
Chan-pa
lo ascoltò in silenzio. Si domandava se fosse possibile per lui conoscere i
segreti che si portavano con sé le rondini.
Così
passò molto tempo a fissare le rondini, che svolazzavano sotto il ponte. Ne
individuò una che gli parve un po’ più grossa delle altre ma dava
l’impressione di essere piuttosto giovane.
Una
mattina che era rimasto solo a pescare, si nascose dietro una siepe e cominciò
a fissare le rondini. Finalmente la riconobbe. Gli ci volle del tempo prima che
potesse guardarla negli occhi perché, si sa, il volo delle rondini è quanto di
meno lineare ci possa essere per via dei loro lunghi volteggi, picchiate e
impennate. Alla fine ci riuscì. E zac! Fu la rondine.
Si
ritrovò a librar nell’aria, planando lungo l’acqua del fiume con il becco
aperto per bere.
In
breve fu circondato da altre compagne.
D’improvviso
fu in grado di capire i loro pensieri.
Lo
pregavano di seguirle perché stava ormai per cominciare l’assemblea.
Chan-pa
le segue.
Si
ritrovano tutte sul cornicione di un vecchio tempio buddista in rovina.
Le
rondini si erano lì ritrovate per commemorare Osanje. Una di loro.
Non
capiva come, ma tutto era chiaro. I pensieri fluivano tutti insieme e uno ad uno
allo stesso tempo. Così poteva intendere i singoli pensieri di una singola
rondine. E allo stesso tempo i pensieri di tutte le altre.
Comparve
Oruruka il capo stormo. Tutti i pensieri si dileguarono.
Solo
il suo dominava il vuoto degli altri.
Era
un vuoto strano quello che si generava nella loro mente, pur pensando non
pensavano; mentre Oruruka pensando rifletteva.
Erano
lì per commemorare Osanje. Non ce l’aveva più fatta nella traversata
dell’oceano. Ed era caduta giù spossata dalla fatica. Aveva predetto la sua
fine. Sarebbe morta a ottobre durante la traversata. L’aveva predetta cinque
anni prima. Come aveva predetto molte altre cose.
Una
volta durante un’abbacinante giornata di sole d’improvviso radunò il branco
e avvisato che presto sarebbe arrivato un terribile uragano, che non avrebbe
risparmiato neanche una casa del villaggio.
Di
solito le rondini si tengono ben lontane dagli uomini. Ma quella volta erano nel
villaggio di Cumba, nelle terre del Djeri in Senegal. E lì gli uomini amano le
rondini. Le considerano portatrici del bene. Dileguatrici delle tenebre.
Così
piombarono a volo radente sul villaggio più e più volte, come impazzite
fuggendo verso la montagna. Gli uomini all’inizio erano disorientati. Ma poi
Bacchègga il mago, ammonì gli altri a seguire le rondini perché un pericolo
imminente sarebbe di sicuro arrivato.
E
così fu. Le case furono rase al suolo dalla furia dell’uragano. Neanche una
capanna rimase.
Ma
da quel giorno le rondini furono sacre. E la terra del Djeri fu il paradiso
delle rondini. Lì da tutto il mondo le rondini convenivano per svernare. Lì
erano rispettate e amate.
Oruruka
muoveva il collo e scaturiva un altro pensiero riflettente.
Per
commemorare Osanje, che aveva cambiato il rapporto con gli uomini, da quel
giorno un uomo buono sarebbe stato scelto prima di partire per le terre del
Djeri, a settembre. A primavera avrebbero lui portato i semi magici del bene che
crescono solo nelle terre del Djeri.
Anche
un uomo cattivo sarebbe stato scelto. A lui avrebbero portato i semi del male
che crescono sulle rive del lago di Kael, dove vivono i draghi feroci che
uccidono tutto ciò che si avvicini a quelle acque.
Oruruka
mosse il becco e un altro pensiero di luce riflessa schizzò.
Ognuna
di voi segnali l’uomo più buono e quello più cattivo. Andate e cercate.
Avete tre mesi.
Di
colpo risentì tutti gli altri pensieri di tutte le altre rondini. E tutte
volarono nelle più svariate direzioni.
C’è
qualcosa di più importante dell’Amore,
a
parte la morte e il dolore?
Un
giorno Sat-tva se ne stava a pescare solo solo, sotto il ponte dove
abitavano. All’improvviso cade giù dal cornicione del ponte un rondinotto.
Sicuramente da uno dei tanti nidi che erano attaccati sotto l’arco del ponte.
Il
rondinotto si muoveva come scosso da una carica elettrica. Poi si fermava come
fosse morto. Poi riprendeva ad agitarsi scalciando e sbattendo le ali.
Sat-tva
si avvicinò un po’ timoroso. Senza il coraggio di prenderlo fra le mani. Si
mise a osservarlo.
Capì
che il rondinotto doveva soffrire molto. Allora gridò: “Onorevole padre
Hon-gu! Onorevole padre Hon-gu!”
Hon-gu
comparve fuori della casetta di legno in cui vivevano.
“Che
succede Sat-tva?”
“Onorevole
padre c’è qui per terra un rondinotto, non so se è morto.”
Hon-gu
si avvicinò e osservò il rondinotto, prendendolo delicatamente tra le mani.
“Ha
una zampa rotta. Dev’essere caduto da lassù. Probabilmente non sa ancora
volare, è troppo giovane. E’ un bel problema!”
Hon-gu
portò il rondinotto in casa. Sat-tva gli trotterellò dietro.
Hon-gu
con tanta pazienza preparò delle sottili striscioline di legno. Poi cercò di
riaddrizzare la zampa del rondinotto. Con altrettanta pazienza gli legò
intorno, con del filo per cucire, gli steccolini.
Sat-tva
con gli occhioni aperti seguiva ogni operazione, senza parlare e batter ciglio.
Alla
fine Hon-gu disse: “Ecco fatto. Ora dobbiamo dargli qualcosa da mangiare.
Questa è la parte più difficile. Il rondinotto è troppo giovane ha ancora
bisogno della mamma.”
Hon-gu
prese del latte e con uno stecchino, cercò di fargli ingurgitare delle gocce di
latte.
L’operazione
fu difficile e il rondinotto non deglutì quasi che niente.
“Vivrà
Onorevole padre?” chiese Sat-tva.
“Chissà?”
rispose Hon-gu “Gli uccellini, in particolar modo i rondinotti, sono difficili
da allevare, se non hanno la madre. Raramente sopravvivono. Questo per di più
ha anche una gamba rotta. Rimettiamoci nelle mani del buon Dio e facciamo quello
che possiamo.”
In
quel mentre entrarono la madre Gim-pa-ma-san e Chan-pa.
Sat-tva
gli corse incontro a saltelloni per finire nelle braccia della mamma..
“Guardate
Onorevole madre e Onorevole fratello abbiamo trovato un rondinotto. E’ caduto
dal nido e ha una gamba rotta. Il nostro Onorevole padre gliel’ha fasciata, e
gli abbiamo dato del latte. Ma il nostro Onorevole padre dice che morirà”
“Pregheremo
il Signore perché ciò non accada” disse la madre.
Chan-pa
si avvicinò e osservò a lungo il rondinotto. Non parlò. Non disse una parola.
Lui
solo sapeva che una strana sensazione l’aveva preso.
Il
seme oscuro e indecifrabile del destino affondò allora le sue minuscole e
inalterabili radici.
La
notte avvolgeva di un silenzio indefinibile tutte le cose. Si poteva udire solo
il leggero fluire del fiume. Un quasi impercettibile sciacquio dell’acqua che
lambiva l’argine del Ch'ônggyech'ôn . La luna argentea si posava leggera
sopra il ponte e rifletteva la sua nitida immagine un po’ sporca di
increspature nel fiume.
Tutto
dormiva nella piccola casetta di legno.
Chan-pa
fu l’unico che udì quel lamento.
La
visione della Luce
Il
rondinotto era morente. E Chan-pa fu l’unico a udire quel lamento di morte.
Tutti gli altri dormivano profondamente. Tutt’intorno c’era come una nebbia
caliginosa che avvolgeva le cose, rendendole insonore e irreali. Sfigurandole.
In quel torpore, come se il mondo tutto si fosse addormentato, si avvicinò al
rondinotto che giaceva in una scatola di cartone, adagiato su dell’erba secca.
Si chinò su di lui e allungando il braccio sinistro sul tavolo posò
l’orecchio sinistro sul minuscolo petto cercando di ascoltare il minuscolo
cuoricino.
Rimase
così forse un paio di minuti. Poi sentì piano piano il suo spirito entrare in
lui. Fin nei più remoti recessi.
Poi
fu un lunghissimo silenzio. Fu un buio completo e totale. Un buio che pian pian
si punteggiò di piccole microbiche figurette. Come piccolissime formiche
bianche.
Lo
spirito di Chan-pa si ritrovò avvolto, mescolato, fuso a quelle stesse
particelle. A quegli stessi spermatozoi vischiosi.
Lentamente
fu un universo di quelle piccolissime particelle. Infinito. Dove l’una si
legava all’altra. Gli sembrava di essere in balìa di un immenso oceano.
Rotolava di qua e di là senza posa. Ma aveva come la sensazione di essere
sospinto verso un punto.
Chan-pa
si riscosse. Lottò violentemente contro quella corrente bianca, lattea. Con uno
sforzo immane riuscì a trarsi da una parte, al di là del flusso ininterrotto.
Ebbe
come la sensazione di essere salito su di uno scoglio altissimo, da cui poteva
dominare l’universo.
Lontano
notò come una palla di luce. Di un bianco abbacinante. Impossibile da
sostenerlo con lo sguardo. E vide che il flusso bianco confluiva tutto verso
quel punto nel momento stesso che ne defluiva nel senso opposto al flusso
affluente.
Fu
di nuovo penetrato da quel non-pensiero riflettente che pur non pensando
riflette.
Tu
sei tutto quello, che quando è giunto il momento opportuno rapisce tutti questi
mondi. Il mobile e l’immobile. Che quando è giunto il momento opportuno
restituisce tutti questi mondi. Il mobile e l’immobile.
Tu
sei tutto quello dove ciò che è andato poi ritorna.
Tu
sei tutto quello le cui radici si estendono in alto e in basso, ma in realtà
non ha un alto e non ha un basso.
Va’
e ritorna, ciò che è in te sarà in tutto. Riporta indietro il tuo spirito.
Tu
caduto nel fuoco della rinascita come gli insetti, che con frenetici voli cadono
in un falò notturno.
Tu
gettato in questo oceano come le correnti dei fiumi che sfociano nel mare
immenso.
Tu
lambito e divorato da questa luce che, come i raggi del sole, lambisce e divora
il mondo.
Prendi
una sola scintilla di questa Luce e sarà nuova vita
Il
brutto risveglio di Hon-gu
Hon-gu
fu risvegliato da uno strepitìo di ali. Uno sbattìo di ali che lo riscosse
all’improvviso.
Aprì
gli occhi con grande fatica. A malapena riusciva a intravvedere qualcosa. Aveva
come perso la cognizione del tempo. La testa gli era pesantissima. Quasi gli
scoppiava. Era come se avesse bevuto tanto. Come se una bevanda narcotica lo
avesse travolto. Come un carro gli fosse passato sopra.
A
fatica roteò gli occhi. Un sottile filo di luce penetrava dalle finestrelle
della capanna. L’ambiente era scuro. Pesante. L’aria anche.
Ricordò
di aver sognato male. Di aver visto nel sogno un giovane di rara bellezza e
dalle carni bianche pregare davanti al tabernacolo del suo dio. Dietro di lui
erano poi spuntati un nugolo di spiriti di morti. Invidiosi della sua devozione
l’avevano circondato per strappargli l’anima. Lui era allora fuggito in un
tempio buddista.
Lì,
disteso per terra c’era un altro giovane bellissimo dalle carni bianchissime,
morente. Si era chinato per ascoltargli il cuore poggiando l’orecchio sinistro
sul suo petto. Aveva sentito un piccolissimo cuore che batteva debole. Allora
aveva preso un coltello e, affondatolo nelle molli e bianche carni, si era
reciso i polsi e aveva versato il sangue copioso sul volto dell’altro giovane.
Lentamente
l’altro aveva aperto gli occhi e sorriso.
A
malapena ricordava ancora quell’incubo.
La
testa gli era di un grave estremo.
Si
voltò a destra e vide il volto calmo e sereno di sua moglie vicino a lui. Poi a
sinistra e scorse i piedini di Sat-tva spuntare da sotto le coltri.
Cercò
di sollevare un poco la testa per vedere, al di là del fagotto di coperte dove
Sat-tva era sepolto, la sagoma di Chan-pa.
Ma
la testa gli fece così male che dové ributtarsi giù.
Ma
lo sbattìo era insostenibile. E con uno sforzo sovrumano si sollevò.
Guardò
il lettino di Chan-pa.
Vuoto.
Fu
un tuffo al cuore.
Si
girò in direzione del rumore di ali e vide Chan-pa seduto con il braccio
sinistro e la testa riversi su tavolo vicino alla scatola del rondinotto.
La
testa era finita proprio ad appoggiare l’orecchio sul rondinotto che sbatteva
le ali per liberarsi del peso della testa di Chan-pa.
“Ma
guarda un po’!” pensò Hon-gu “si è addormentato seduto, quel birbantello!”
Chusôk:
la festa d’autunno
Chusôk
letteralmente significa "sera d'autunno". Inizialmente era, come
da noi il Ferragosto, la festa del raccolto. Una festività agricola che serviva
per riposarsi dopo le fatiche della lunga mietitura. Ma, mentre da noi oggi il
Ferragosto significa andare in vacanza al mare o in montagna, in Corea significa
far visita alla propria famiglia di origine: ai genitori, ai nonni, ai parenti.
È
la più grande festività coreana. Il giorno della riunione delle grandi
famiglie.
Una
festa che è osservata ovunque, sia in città che in campagna.
Se
vi invitassero a trascorrere il Chusôk presso una famiglia coreana, dovreste
dare una mano nella preparazione dei dolci di riso tradizionali, i cosiddetti
songp'yôn, che vengono cotti a vapore su uno strato di aghi di pino. I songp'yôn
sono dolcini di riso che di solito hanno la forma di una mezzaluna.
È
un dolce che ricorda il sapore di casa e certamente i coreani all'estero in
questa occasione provano nostalgia per il loro paese al solo pensiero di queste
delizie.
I
songp'yôn vengono serviti alla fine di un pasto in cui compaiono piatti di
carne e vegetali, come ad esempio il sanjôk, carne e vegetali su
spiedini o i vegetali fritti e conditi con olio di sesamo e sale, o ancora i kalbi
chim, uno stufato di costolette di bue. E poi la zuppa di taro, molto
nutriente
Oltre
a questi cibi, non manca neppure la frutta appena raccolta: mele, pere e cachi.
Quando
il pasto di Chusôk volge alla fine vengono serviti appunto i songp'yôn, che
sono consumati accompagnandoli con una bevanda alcolica, il sikhye,
ottenuta dal riso fermentato.
La
sera prima la famiglia si riunisce per preparare i dolcetti di Chusôk. E così
aveva fatto tutta la famiglia di Hon-gu.
Il
giorno dopo sarebbero venuti, obtorto collo (ma la rigida tradizione coreana non
ammette eccezioni), pure Nor-bu e la megera di sua moglie.
La
festa di Chusôk va celebrata appunto a casa dei genitori, o, in mancanza di
loro, dal primogenito.
Nel
caso di Hon-gu e Nor-bu la situazione era un po’ anomala.
Infatti
nella casa che sarebbe dovuta spettare al primogenito (Hon-gu) abitava il
secondogenito (Nor-bu).
Ma
la tradizione dice di celebrare la festività a casa del primogenito e il
primogenito abitava sotto un ponte.
Così
con grande faccia tosta il cattivo Nor-bu si sarebbe presentato a casa del
fratello maggiore.
La
sera prima Gim-pa-ma-san, la madre, aveva lavorato da sola e con grande alacrità
e passione alla preparazione della cena.
Hon-gu
e Sat-tva avevano dovuto aspettare fuori casa. Si dice infatti che i maschi non
possano partecipare alla preparazione della cena e nemmeno osservarla. Pena la
perdita della loro virilità.
Secondo
la tradizione Hon-gu cominciò a raccontare a Sat-tva aneddoti sugli antenati,
perché le nuove generazioni non dimentichino le passate.
Perciò
raccontò a Sat-tva la storia di Hon-zu-cha della decima generazione, divenuto
una specie di eroe popolare in Corea. Fin da bambino era cresciuto nell’odio
contro gli invasori giapponesi. Fin da piccolo si era messo in testa che un
giorno ne avrebbe ucciso il governatore. E così fin dalla prima adolescenza si
addestrò a lanciare coltelli. L’arma che lui preferiva. Silenziosa e
invisibile. Che dà una morte rapida e leggera. Con quell’arma uccise molti
funzionari e soldati giapponesi. Ma un giorno lo catturarono. Non lo
imprigionarono, ma gli inflissero un’atroce punizione.
Con
un pesante martello gli piantarono nella mano destra un grosso chiodo, e così
lo lasciarono con la mano destra, attaccata ad un pietra, per un giorno e
una notte nell’impervio bosco di Uljin. Da quel giorno i tendini furono
completamente lesionati e perse l’uso della mano.
Non
domo, l’eroe, passò anni ed anni ad addestrarsi, in silenzio e con una
meticolosità tutta coreana, con la mano mancina. Alla fine divenne più bravo
che con la destra.
La
mancina si dice che sia guidata dal lato sinistro del cuore, dal male che in noi
risiede. Nella puntigliosità, nella cocciutaggine, nella persistenza il bene può
essere distorto verso il male. E certo Hon-zu-cha nella sua missione travalicò
il limite del bene verso quello del male. Non c’era niente di buono in quella
sua volontà di uccidere. Nel rancore che provava verso chi lo opprimeva. E
certamente fu il diavolo a guidare la sua mano quando finalmente riuscì ad
uccidere il governatore giapponese.
La
famiglia riunita commemora i propri morti per la notte di Chusôk
Dopo
la morte di Chan-pa la famiglia era piombata in un cupo silenzio.
Se
non ci fosse stata la fede in Dio, la famiglia sicuramente non avrebbe retto il
colpo.
Chan-pa
se ne era andato in silenzio. Quasi in punta di piedi. Quasi salutando e
sorridendo come se un destino migliore gli fosse venuto incontro.
Chan-pa
era stato sepolto proprio davanti alla casetta di legno sotto il ponte. Davanti
alla tomba si era preparato un piccolo praticello verde, con un piccolo altarino
su cui la notte di Chusôk avrebbero consumato la cena.
Il
cattivo Nor-bu con la vecchia megera che camminava dietro di lui, arrivarono
verso le 10 di sera.
“Buonasera
Onorevole fratello e Onorevole cognata!” disse Hon-gu alla testa della sua
famigliola, tutta schierata davanti agli ospiti in arrivo.
Nor-bu
e la di lui pari moglie neppure si degnarono di rispondere.
Ma
direttamente presero posizione davanti al tavolo apprestato e
bell’apparecchiato.
Gim-pa-ma-san
passò con un bacile pieno d’acqua.
Uno
ad uno, a partire da Hon-gu (fratello maggiore), si lavarono le mani.
Hon-gu
collocò al centro del tavolo la tavoletta degli antenati, accese l’incenso e
poi si prostrò fino a terra andando a toccare il pavimento con la fronte.
Si
versò del vino in una coppa e poi si pose la coppa davanti alla tavoletta.
Si
accomodarono quindi, tutti, per consumare le offerte.
Nessuno
aveva mai parlato fino ad allora. Si era mangiato in silenzio.
Fu
dunque alla fine della cena che Hon-gu prese la parola: “Onorevole fratello e
Onorevole cognata, per la festa di Chusôk vorrei invitarVi ad abbandonare ogni
rancore fra di noi. Dopo la morte di Chan-pa la nostra vita è divenuta
tristissima. Proprio davanti alla tavoletta degli antenati, e in nome di nostro
padre e del piccolo Chan-pa vorrei invitarVi ad aprire i Vostri cuori e a
riconsiderare il Vostro comportamento. Di restituirci almeno una piccola parte
di quello che spetta a me e alla mia famiglia, perché io possa far fronte
all’educazione del mio ultimo figlio, Sat-tva.”
Nor-bu
e la moglie divennero paonazzi in viso. Nor-bu stava per esplodere. Ma Hon-gu
fece cenno che gli si permettesse ancora di parlare.
“La
morte di nostro padre ha gettato la nostra famiglia nel più grande caos. Quella
del mio piccolo Chan-pa ci avrebbe tolto ogni forza di vivere se non avessimo
avuto la fede in Dio. Perciò fratello mettiamo da parte ogni rancore e secondo
giustizia restituisci a noi non tutto ma una piccola parte almeno di quello che
ci spetta per una vita dignitosa e migliore. E Dio te ne sarà riconoscente.”
Nor-bu
e la vecchia megera avevano gli occhi dei pazzi, e anche la digestione gli si
doveva esser bloccata a giudicare dal color plumbeo delle loro facce. I loro
occhi divennero cattivi e simili a quelli dei padroni giapponesi, che occupavano
la loro terra da anni derubando e impoverendo i miti coreani.
“Tu
serpente a sonagli! Tu mi costringi a venir qui! Solo perché è la festa di
Chusôk. Tu maledetto escremento, razza di seme malato. Tu! E i tuoi pidocchiosi
figli osate insultarmi così davanti alla tavoletta degli antenati...!”
Nor-bu
aveva afferrato un lungo coltello dal tavolo e si avvicinava minacciosamente
verso il fratello.
Sat-tva
chiuse gli occhi e pregò il fratello Chan-pa.
D’un
tratto l’aria si profumò, e come neve cominciò a cadere giù dal cielo. Ma
cadeva solo sull’altarino. A poco a poco,in quel farfuglìo, si
materializzarono tra la neve due figure bianche, quella del vecchio padre
Hon-gu-pa, e poco più in là quella di Chan-pa. Il vecchio Hon-gu-pa teneva in
mano un mucchio di piccoli semi. Chan-pa aveva nella sua una rondine
svolazzante. Chan-pa guardava suo padre con aria serena. Con un sorriso di chi
invece della morte avesse trovato la vita.
A
Nor-bu cadde di mano il coltellaccio e la vecchia megera si nascose il volto
nelle maniche dell’abito cerimoniale.
Ritorna
la primavera
Alla
meglio l’inverno passò per Hon-gu e la sua famigliola. Alla meglio ce la
fecero ad uscire dal lungo tunnel del buio invernale. Le giornate si allungarono
e divennero più calde.
Ritornarono
le rondini a svolazzare sotto il ponte.
Sat-tva
trascorreva le sue giornate estasiato a guardare le rondini.
Un
giorno Sat-tva si presentò dal padre con le mani piene di semi bianchi.
“Onorevole
padre le rondini per dieci giorni sono passate vicino alla nostra porta e ogni
volta hanno lasciato cadere dal loro becco questi semi. Che vorrà dire?”
Hon-gu
guardò i semi. Li riconobbe. Erano uguali a quelli che aveva tenuto in mano il
vecchio Hon-gu-pa.
Allora
si ricordò della visione avuta presso il ponte di Ch'ônggyech'ôn.
“Vieni
piccolo Sat-tva, andiamo a seminarli. Credo che questi semi ci porteranno
qualcosa di buono.”
E
così fu.
Alla
fine dell’estate dappertutto era pieno di enormi zucche bianche.
Hon-gu
in tutta franchezza si domandava che avrebbe dovuto farsene di tutte quelle
zucche.
Si
certamente qualcuna l’avrebbero mangiata, ma lì ce n’era per almeno un
anno.
Sarebbero
di sicuro marcite la maggior parte. Forse avrebbe dovuto regalarne. Ma a chi?
Chi avrebbe accettato di mangiare delle zucche cresciute sotto un ponte, e per
di più bianche?
Così
ne prese un paio e se le portò in casa.
Le
mise sul tavolo, pensando che quando sarebbe arrivata Gim-pa-ma-san ne avrebbe
aperte una e l’avrebbero cucinata per la sera.
Venne
la sera.
Tutti
e tre erano raccolti davanti al tavolo e sul tavolo giacevano le zucche
l’unica cosa che si avesse da mangiare.
Tutti
e tre fissavano le zucche. La prospettiva di mangiarle tutt’al più bollite
non era delle migliori, ma di altre possibilità non ce n’era.
Hon-gu
si alzò e prese un coltellaccio, quello stesso che aveva brandito il cattivo
Nor-bu.
Sferrò
la prima coltellata. Il coltellaccio affondò, e vi rimase conficcato. Hon-gu
dové fare forza per estrarlo.
Quando
finalmente lo estrasse cominciò a colar fuori una schiumetta bianca.
Le
facce dei tre furono alquanto deluse, pensando che quella schiumetta
bianchiccia, nonostante la fame, non invitava davvero a mangiare la zucca.
“Sarà
buona da mangiare Onorevole padre?”, chiese Sat-tva.
Hon-gu
stava per rispondere quando all’improvviso dalla zucca schizzò fuori un getto
di fumo bianco, violento e fischiante come un geyser.
Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!
I
tre saltarono all’indietro impauriti e con gli occhi stranulati.
Quale
altra disgrazia avrebbero dovuto subire ancora una volta? Non ne avevano sin qui
anche troppe sopportate ?
La
stanza si riempì di fumo. Il rumore scomparve e ne seguì un lungo silenzio.
Non si vedeva più nulla. I tre a poco a poco ripresero animo, e cercarono di
aguzzar gli occhi.
“Non
vi sembra di vedere un lume sul tavolo?”, disse incredulo Hon-gu.
“Sì
Onorevole padre sul tavolo c’è un lume!” rispose Sat-tva.
“Per
la verità sul tavolo ci sono tre candelieri!” aggiunse Gim-pa-ma-san.
“La
tavola è imbandita d’ogni ben di Dio!” borbottò di nuovo Hon-gu.
“Guardate
Onorevole padre e Onorevole madre sul tavolo c’è di tutto! Riso, frutta,
verdura, carne!!!”
“E
i candelieri sono d’oro!!!” miagolò Gim-pa-ma-san.
Il
fumo si era diradato e ai loro occhi si presentava la scena superba e
sontuosa di una tavola enorme completamente arredata di ogni tipo di bontà.
I
tre mossi da una fame da lupi si mossero all’unisono verso il tavolo e stavano
per slanciarsi sui cibi, quando Hon-gu urlò: “Fermi !!! Questo è un
miracolo! Questo è senz’altro un miracolo che il buon Dio ha per noi
preparato. Dobbiamo ringraziarlo. E preghiamo pure per mio padre, il venerando
Hon-gu-pa, e per Chan-pa, che hanno voluto con le loro apparizioni annunciarci
la buona mente di Dio verso di noi!”
E
così nonostante i morsi della fame, violenti e insopportabili, i tre passarono
più di un’ora in raccoglimento, pregando.
Poi ci si buttò sui cibi e si mangiò come non mai.
Alla
fine i tre erano esausti e spossati dall’infinito mangiare. E gran senso di
pace e, finalmente, di sicurezza su di loro discese come uno spirito.
Tutto nella casa era finalmente calmo tranquillo non più trapelava l’angoscia
del domani che sarà? Dell’infinita insicurezza del giorno a venire che
la povertà si trascina dietro come le ombre della notte le angosce nere degli
incubi onirici.
I
tre si guardarono. Le loro facce erano rosse e accaldate dall’afrore del cibo
e del vino di riso, che anche il piccolo Sat-tva aveva bevuto con il permesso e
la benedizione dell’Onorevole padre e dell’Onorevole madre.
I
tre si guardarono. E per poco quasi non si riconoscevano. Pieni. Sazi.
Soddisfatti. Calmi per la prima volta da anni. Si guardarono come per dire: “E
ora?”.
Era
lì. Lì sul letto di Chan-pa che li aspettava.
Che
con pazienza aveva atteso che loro mangiassero e fossero saturi e fossero
finalmente felici non solo di spirito ma anche di corpo.
I
tre la guardarono a lungo. Non avevano il coraggio di dire quello che pensavano,
per paura che un sogno finisse.
Aspettava:
pareva emettere una luce. Quasi avesse intorno a sé un’aura dorata.
Hon-gu
riafferrò il coltellaccio. Avanzò. Gli altri due dietro. Uno dietro l’altro.
Quasi appiccicati. Come a passo di tarantella affrontarono a viso aperto
l’arcano.
Un
passo. Un altro. Un altro ancora. Stop. Gli furono davanti.
La
zucca brillava davvero, come se fosse piena di oro zecchino.
Hon-gu
alzò il braccio… e vibrò il colpo più forte che poté… e chiuse gli
occhi: e chiusero tutt’e tre
gli
occhi…
Tooookkk!!!
………
………
Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!!!
Di
nuovo fu quel sibilo di un geyser. Di nuovo il fumo invase la stanza.
Sat-tva
fu il primo ad aprire gli occhi.
Guardò
l’Onorevole padre e l’Onorevole madre che ancora tenevano strettissimi gli
occhi, per paura di aprirli.
Sat-tva
non si capacitava non capiva più dove fosse. La capanna era scomparsa. Vedeva
in alto il cielo stellato. Ma tutt’intorno era un luccicare come di fondamenta
d’oro di un palazzo sterminato in via di costruzione.
“Onorevole
Hon-gu! Onorevole Gim-pa-ma-san ! Guardate!!!!”
Gli
Onorevoli guardarono. Sì, dalla zucca erano scaturite le fondamenta di un
palazzo gigantesco, tutte in oro zecchino.
Hon-gu
per poco non svenne come una donnetta. La madre si appoggiò al (in quella
situazione) poco Onorevole marito.
Sat-tva
schizzava da tutte le parti.
Poi schizzò fuori dal palazzo percorrendo un interminabile corridoio e
ritrovandosi in mezzo alle zucche ne afferrò una, e preso un pietrone, cominciò
a colpirla a più non posso. All’improvviso fu sbattuto a terra dal
potentissimo getto di fumo che schizzò fuori dalla zucca.
Picchiò
la testa e svenne.
Quando
si riprese sentì suo padre che lo schiaffeggiava e gli urlava: “Guarda
Sat-tva! Guarda!”
E
intorno a sé vide delle enormi pareti d’oro puro, altissime che salivano
verso il cielo.
Dalla
zucca erano spuntate fuori sulle fondamenta le pareti di un palazzo miracoloso.
Questa
volta, ratta ratta, fu la madre, la mitissima Gim-pa-ma-san, che alzò con una
forza e una agilità, a lei stessa sconosciute, una terza pesantissima zucca.
Di
nuovo il sibilo assordò la notte. Di nuovo il fumo li avvolse e li nascose per
qualche minuto al mondo umano.
Quando
il fumo si diradò lo spettacolo fu magnifico. Mozzafiato.
Davanti
a loro stava un palazzo imperiale, d’oro finissimo, che brillava e luccicava,
che forse già lo si vedeva dal centro di Seoul.
Tutte
le finestre erano illuminate, e si scorgevano da fuori saloni principescamente
arredati.
Hon-gu
si sentì mancare alla vista di quel miracolo.
Sat-tva,
era invece così pieno di adrenalina che già era corso via e già stava aprendo
altre zucche: da questa uscivano forzieri di denaro, da quest’altra gioielli,
da un’altra ancora pietre preziose, da quella più a destra abiti
sfarzosissimi, da quella più a sinistra una carrozza trainata da puledri
bianchi e neri….
Nor-bu
viene a sapere del miracolo
In
un breve torno di tempo in tutta Seoul si parlò del miracolo occorso a Hon-gu e
la sua famiglia.
Di
bocca in bocca corse la notizia. E migliaia di persone si recarono a vedere la
reggia d’oro zecchino, nata così dal nulla nel giro di una notte, in
pochissime ore
File
di mendicanti, amici e questuanti si recarono a chieder denari.
La
famiglia di Hon-gu fu davvero spaventata da questa orda di umani che
giornalmente avanzava verso la reggia.
Hon-gu
questa volta si comportò davvero da Onorevole. Fu disponibile verso tutti. A
tutti spiegò che cos’era successo quella notte. Narrò delle apparizioni
avute (tacque solo delle rondini, per paura che la gente avrebbe reso la vita
impossibile a quegli esserini).
Assoldò
anche delle persone che se ne stessero, giorno e notte, davanti alla porta del
palazzo a dirigere la folla, e a elargire con oculatezza un obolo a tutti.
Applicò
il detto di Buddha: “Lasciamo passare sette giorni e poi si vedrà”.
Così
passarono sette giorni, forse anche un mese. Ma piano piano, come la saggezza
del Beato prevedeva, l’ondata decrebbe. E Hon-gu acquistò quello che gli
spettava, un profilo, una posizione nella scala gerarchica come la filosofia
confuciana comandava, e grande rispetto per il suo comportamento umanitario e
saggio.
Piano
piano la vita riprese con un tono normale.
Quando
Nor-bu seppe la notizia, cominciò a girare per la casa come un pazzo. Con un
umore nero che più nero non si poteva. Non faceva che lamentarsi con la vecchia
megera che a sua volta non faceva che lamentarsi con l’acido Nor-bu.
“Ma
ti rendi conto! Qel buonannulla! Quello sfaccendato! Quello smidollato! Tutte le
fortune ha! Quella famiglia di vermiciattoli odiosi, senza arte né parte…”.
“Hai
ragione Nor-bu” rispondeva la megera “non c’è giustizia in questo
mondo.”
“Il
mondo va davvero all’incontro” rincarava Nor-bu “anche le querci fanno i
limoni.”
E
così passarono gran parte dell’inverno: rodendosi il fegato.
Ogni
tanto giungeva notizia a Nor-bu delle meraviglie del fratello.
“Sai
Nor-bu oggi ho visto passare tuo fratello in carrozza. Che spettacolo! Tutta la
gente lo guardava e si faceva da parte”, diceva uno. “Ehi Nor-bu ho saputo
che tuo fratello ha dato una festa nel suo palazzo. C’erano proprio tutti. Si
dice che ci fosse anche l’ambasciatore della Persia!”, diceva un altro.
Nor-bu
diventava pazzo. L’invidia e la rabbia gli corrodevano l’anima. Non
dormivano più, lui e la sua degna compare.
“Ma
come avrà fatto?”, si domandavano. E andavano in giro ascoltando le dicerie.
Origliavano. Allungavano il collo. Facevano finta di non sentire, ma sentivano.
Quando
Nor-bu incontrava qualcuno che voleva narrargli di come suo fratello avesse
fatto fortuna lui disprezzando, comprava. Faceva orecchio da mercante.
Respingeva, ma non troppo, le offerte dell’avventore ma si prolungava nel
discorso. Indugiava, dicendo che quel buonannulla sicuramente aveva rubato, e
allora l’altro incalzava e insisteva per dirgli che non era vero e che solo
lui sapeva come Hon-gu si fosse arricchito.
Così
lentamente ebbe un quadro mostruoso in cui Nor-bu non ci capiva più nulla: si
andava da un grosso furto perpetrato addirittura alla Banca di Corea, fino
all’intervento di un mago biondo e alto con gli occhi azzurri che aveva
vissuto in Corea più di mille anni fa, e che era ritornato in Corea perché
aveva degli affari urgenti da sistemare con i giapponesi: vox populi, vox
diaboli verrebbe voglia di dire!
Così
passò un altro inverno. L’orgoglio di Nor-bu vacillava sempre più.
L’invidia, la rabbia, il livore e l’astio si commutavano in voglia di sapere
come quel disgraziato avesse fatto.
A
primavera inoltrata Nor-bu uscì fuor di casa con passo severo e deciso e si
diresse con un ghigno feroce al palazzo del fratello.
Lungo
la strada avrebbe potuto assaporare il profumo dei fiori, il tepore primaverile,
il sole caldo che baciava e sfiorava la pelle, il volo radente delle r
o n d i n i... Tutto questo avrebbe potuto, se solo non fosse stato chiuso
come una monade in quel suo universo tutto nero e denso e tristissimo.
Quando
arrivò al palazzo per poco non svenne, alla vista di una delle settime
meraviglie del mondo.
Non
l’aveva mai visto, ne aveva sentito tanto parlare ma a trovarsi lì davanti le
gambe gli tremarono e il cuore gli sussultò.
Il
palazzo, tutto d’oro finissimo, era circondato da mura a perdita d’occhio
che dovevano racchiudere un terreno di forma quasi quadrata. Ai quattro punti
cardinali corrispondevano quattro porte. La porta principale era a sud ed aveva
tre archi: quella centrale era per il Signore (Hon-gu!) e la sua famiglia;
quelle laterali erano una per i visitatori e l’altra, ancor più piccola, per
i questuanti.
Norbu
si sentì piccolo piccolo di fronte a tanta possanza e magnificenza. Quasi un
verme nudo.
Con
l’animo di un verme bussò al portone dei questuanti.
Un
servitore alto e con portamento nobile venne ad aprire.
“Ehmm…Vossignoria
mi permetta…io…ehmm…sarei Nor-bu il fratello di Hon-gu…Vorrei vedere mio
fratello…”, disse a testa bassa.
Il
servitore lo squadrò dall’alto in basso.
“Mi
segua, La prego. Suo fratello L’aspettava da tanto tempo.”
Mi
aspettava da tanto tempo, ma come? Com’è possibile? Un uomo così ricco, così…nobile?
Mi aspettava?
Così
rimuginando, la vecchia arpia cominciò a salire i gradini d’ingresso al
palazzo. Subito il suo cuore subì un altro tuffo. Sulle scale d’ingresso
stavano, enormi, le statue degli Haet'ae, i mitici animali "mangiafuoco”
a protezione contro le fiamme provenienti da sud, dal monte Kwanaksan.
Sempre
seguendo il nobilissimo servitore diede inizio alla scalata verso il secondo
piano attraverso corridoi lunghissimi, che sempre salivano in ordine di
importanza. Il secondo piano dell'edificio era appunto disposto, secondo la
filosofia confuciana, in tre livelli ascendenti, in modo che gli ospiti
potessero accomodarsi secondo il loro grado: gli ospiti più importanti più in
alto e i meno importanti in basso
I
suoi occhi si stranulavano. Si contorcevano, da tanto che c’era da vedere, da
essere meravigliati…da diventar matti.
Hon-gu
lo ricevette nella sala delle udienze che stava all’apice del secondo piano
dell’edificio.
Appena
Nor-bu varcò la soglia, Hon-gu gli si fece incontro per abbracciarlo:
“Fratello, finalmente sei venuto. Aspettavo la tua visita da molti mesi!”
Nor-bu
confuso, stordito da tutto quel lusso, irritato dalla benevolenza del fratello
si ritrasse un po’ all’abbraccio ma non vi si sottrasse del tutto per
rispetto all’alta posizione gerarchica a cui Hon-gu ormai pareva appartenere.
Accanto
a Hon-gu se ne stava il piccolo Sat-tva che, a giudicare dalla sua faccia, non
sembrò apprezzare molto tutta quella disponibilità del padre verso il
fratello.
“Ehm
Onorevole…ehm fratello…vedo che Lei…ehm volevo dire tu, hai
fatto fortuna…e che fortuna da quello che ho potuto vedere! Così tutto
all’improvviso. Sai…ehm ho sentito molte chiacchiere…ehm…su come hai
fatto…come si può dire…fortuna? E allora in nome del vincolo di
sangue che ci unisce…ehm…avrei apprezzato da Lei…ehm…volevo dire
da te… sapere la verità…anche per controbattere….mi capisci a
tutte quelle dicerie…che sento in giro…”
“Hai
fatto benissimo”, rispose Hon-gu. “Ma vieni. Rimani a pranzo da noi. E ti
dirò ogni cosa. La cosa che più mi preme è superare ogni rancore e
incomprensione fra noi, in nome di nostro padre Hon-gu-pa.”
Nor-bu
torna a casa e si lambicca il cervello
Nor-bu
se ne tornò a casa verso la metà del pomeriggio. Dire che fosse ben disposto
sarebbe non dico un eufemismo ma di certo una non del tutto veritiera
inesattezza. Il capo gli bolliva. Gli orecchi gli fumavano. Gli occhi roteavano
come palle fiammeggianti. Dentro era tutto un ribollire, una pentola a pressione
che stava per esplodere.
Le rondini! Ti rendi conto, le rondini!!! Ma chi vuol prendere in giro
quello? Ora le rondini vanno in giro a regalar soldi a chicchessia! Quel lardoso
e borione pretende che io ci creda. Ma figuriamoci! Se io, uomo di mondo che
sono, vado a creder a tali frottole…Eppure che altro?...Rubare?…non mi par
davvero il tipo. Ci vuole ben altra tempra, che quella di un coglionazzo come
lui…. E se fossero state veramente loro? In fondo che mi costa? Sotto al mio
tetto ce ne sono tante di rondini! Basterà che aspetti che ne cada una… che
c’è di più facile? E allora la prendo le curo una gamba e la rilascio e poi
anch’io l’anno prossimo avrò tante zucche bianche piene di ogni ben di Dio!
Così
discorrendo Nor-bu se ne andò a casa come avesse gli stivali delle sette leghe.
Arrivato
a casa chiappò la moglie e gli raccontò ogni cosa. Non vi dico il dialogo!
Certo fu un dialogo fra avidi. Allucinanti e distorcenti discorsi. Arzigogoli,
in cui il senso dell’avarizia e della cupidigia la facevano da padroni. Dove
Buddha avrebbe avuto un bel da fare, se avesse voluto parlargli del suo samma
sankappa (retto pensare) o del suo samma vaca (retto parlare). Perché
di retto lì non ci fu proprio nulla, se non l’andar a diritto per ore e ore
in insulti e improperi, tutti diretti appunto verso un’unica persona,
invocandone la sfortuna e la malasorte per l’avvenire.
Tuttavia
la conclusione fu che si sarebbe dovuto provare. Tanto non costava niente. E
quindi male non avrebbe fatto.
E
detto fatto, provarono.
Fin
dalla mattina dopo si piazzarono, di buon’ora, sotto il tetto a naso all’in
su a studiar l’architettura dei nidi, e a uccellar perché qualche rondinotto
ne cascasse giù rompendosi una gamba. Tutto era già pronto: steccolini, filo
di refe e una ciotolina di latte. Rancido naturalmente, perché il rondinotto è
pur sempre un animale e del latte fresco sarebbe stato sprecato, e se anche
fosse stata una persona nulla sarebbe cambiato, il latte vecchio, che volete?,
non è che si può buttar via a cuor leggero. Costa.
Passarono
due settimane a naso per aria. Ma niente. Solo molte deiezioni, che spesse volte
centravano in pieno i due fanatici, inducendoli a bestemmie e altri epiteti, qui
irripetibili.
“Possibile
che non ne caschi giù neanche uno di quei dannati!” sbottava di continuo
Nor-bu.
Si
dice che la donna ne sappia una più del diavolo, e, laddove non arrivò la
crudeltà di Nor-bu, vi giunse quella della sua degna compare.
Un
giorno che la bile della megera ebbe un trabocco, urlò: “Ora basta! Non ne
posso più di stare a testa in su. Il collo mi fa un male bestia. Se la montagna
non viene a Maometto, allora Maometto andrà alla montagna. Prendi una scala
Nor-bu. La più lunga che abbiamo. Muoviti! Ti faccio vedere io come si fa.”
Appoggiata
la scala al muro, la diavola vi s’arrampicò su con la destrezza di una
scimmia. Arrivata in cima infilò una mano in un nido, rompendolo. Molti
rondinotti ne precipitarono giù. Immediatamente ridiscese.
“Hai
visto bellimbusto come si fa. Sicuramente con un volo così qualcuno di questi
demoni si sarà rotto una zampa.”
I
due presero uno ad uno i rondinotti per controllare. Ma con grande loro
disappunto, o qualcuno era morto o erano tutt’interi e vivi e vegeti.
“
E che diamine!” esclamò la megera “neanche uno che si sia rotto una
zampaccia!”
“Ti
faccio vedere io come si fa” sbottò pieno di rabbia Nor-bu che non voleva
apparir da meno della sua demoniaca compagna. E così detto prese un rondinotto
e gli spezzò una gamba.
Pure
l’avvoltoio della moglie chiuse gli occhi per la ripulsa di una tale azione.
“Vieni!”
disse con fare imperioso Nor-bu “andiamo in casa e curiamogli la gamba!”
I
due aspettano l’arrivo delle rondini
Sarà
stato a causa delle tempeste di sabbia provenienti dalla Cina, che si abbattono
in Corea nei primi giorni di primavera, sarà stato per la tensione di un lungo
e interminabile inverno trascorso in attesa frenetica dell’arrivo delle
rondini. Sarà stato per il fatto che si rodevano continuamente il fegato perché
l’inverno non finiva mai e le rondini non arrivavano. Sarà stato perché
nella loro dieta applicavano rigorosamente di principio di Guglielmo di Ockham entia
non sunt multiplicanda prater necessitatem (gli enti non devono essere
moltiplicati oltre il necessario) secondo la quale bisogna "tagliare"
tutto ciò che è superfluo, e così a furia di tagliare avevano finito per
ridursi a mangiare nient’altro che cipollotti rossi, perché costavano poco…
Fatto sta che i due si erano ricoperti di fastidiose bolle in tutto il corpo, e
di herpes sulle labbra, e il loro volto si era completamente arrossito, da
sembrare due autentici sgorbi deformi.
I
due, che belli non erano mai stati, ora parevano davvero dei mostri. E se il
volto di una persona è un po’ come il suo biglietto da visita, beh!,
quello di Nor-bu e di sua moglie era divenuto assai conforme al mondo
interiore che li dominava. Nelle loro facce si rispecchiava l’umore e i
sentimenti che dominavano il loro cuore.
Si
diceva in giro che quella fosse la punizione di Dio che i due meritavano per
aver cacciato, a suo tempo, il fratello di casa.
“Eh!
vedi che c’è una giustizia divina” diceva uno “prima suo fratello ha
riavuto dalla fortuna ciò che Nor-bu gli aveva rubato. E poi ora guarda come si
son ridotti! Due bubboni!”
“Guarda
se non esiste il karma!”, diceva un altro “Nor-bu e sua moglie sono
l’esempio che se fai cattive azioni otterrai cattivi frutti. Se compi buone
azioni otterrai buoni frutti. Guarda che differenza fra Hon-gu e Nor-bu!”
“Tutto
si paga!” sentenziava un grasso funzionario di corte, assai noto a Seoul per
la sua rettitudine e forza morale “i beni sottratti con la spoliazione
indebita, non sono durevoli e vi è come una sorta di nèmesi divina che
riequilibra tutto!”
Insomma
su questi presupposti si arrivò alla primavera.
E
finalmente arrivarono le rondini.
Le
rondini portano i semi
Nel
cielo apparvero le prime rondini che libravano leggerissime. E che spettacolo
quel contrasto di blu indaco e i loro voli persi nella profondità e immensità
di quel cielo!
Ma
a Nor-bu tutto ciò non diceva nulla, nel modo più assoluto.
I
due bernoccolosi già dalle prime luci dell’alba se ne stavano ad
uccellar davanti al portone di casa, sempre più rossi e sempre più pustolosi.
Certo
verrebbe da pensare che le rondini avessero ben altro da fare che andar a portar
buone nuove ai due. Ma non interferiamo con il voler del cielo! E riprendiamo il
posto che ci spetta. La storia è storia di altri.
Dopo
lungo attendere finalmente un mattino presto avvistarono da lontano una rondine
che aveva tutta l’aria di puntar verso di loro.
Il
cuore gli sussultò. I loro occhi, come radar che inquadri un aereo nemico,
seguirono attimo per attimo l’oggetto ben identificato e il cui attacco era da
lungo previsto.
Velocemente
l’oggetto si avvicinava. I due avevano gli occhi fuori dalle orbite, e una
forte tachicardia li colse. Finalmente il sogno di un lunghissimo e putrescente
inverno pareva realizzarsi!
L’attesa
pareva essere appagata!
L’oggetto
si avvicinò con una velocità impressionante. Quasi sembrò colpire in faccia
Nor-bu. Ma quando gli fu a poco meno di mezzo metro con un perfetto colpo di
virata, voltò ad u e riprese improvviso quota, mentre che lasciò cadere
a terra un piccolo seme nero!
I
due pustolosi si precipitarono all’unisono sul seme picchiando una bella
capocciata, che invece del seme videro solo tante stelle.
“E’
mio!” urlava Norb-bu. “E’ mio!” urlava la megera.
Con
una mossa felina la megera si impossessò per prima del seme. Hon-gu non più
rosso ma paonazzo, livido, con il volto gonfio come un pallone e, probabilmente,
vicino a un ictus per la pressione ai massimi livelli, le sferrò un pugno
violentissimo stendendola per terra e poi non contento le affibbiò pure un
calcione nello stomaco.
La megera per tutta risposta gli si avventò alle gambe e gli azzannò un
polpaccio. Nor-bu stridette come un maiale nel cui cuore avessero affondato
profondo un succhiello.
Ma
mentre si picchiavano ecco che un’altra rondine punta dritta verso di loro e
con la stessa identica manovra lascia precipitar giù un altro seme nero.
Le
due belve si sgrovigliano e di nuovo si slanciano sul secondo seme, fra pugni,
calci, morsi e graffi.
Nemmeno
il tempo di arrivarci che subito ne arriva un’altra, e giù un altro nero
seme. E poi un’altra, e un’altra ancora, un’altra, e poi un’altra, e
un’altra ancora e un’altra….
I
due pazzi corrono senza meta di qua e di là curvi, piegati come scrofe alla
ricerca del cibo, il cui ventre è mai sazio, mai pieno.
Nor-bu
e sua moglie piantano i semi
Dobbiamo
dire la verità, per la semina furono davvero perfetti!
Ararono
in profondità perché i semi avessero ossigeno. Lasciarono la terra grossa
perché nel suolo circolasse aria in abbondanza. Misero i semi in ammollo in
acqua tiepida per quattro, cinque ore.
Li
posero poi in del terriccio per produrre i germogli, e non appena che questi
ebbero tre, quattro foglioline le presero e le trapiantarono nel terreno
precedentemente arato con ogni cura, a circa 60 centimetri l’una dall’altra
perché avessero abbastanza luce e fosse ridotto al minimo l’avvizzimento.
Quando
infine le piantine cominciarono a crescere, e a mettere un bel po’ di foglie
le tirarono su mettendogli dei sostegni. Ogni mattina vi zappettavano
intorno per dare sempre aria al terreno.
Di
buon mattino si recavano all’orto e le pulivano di ogni sorta di erbacce e di
ogni parassita che si fosse depositato sulle foglie.
Se
non fossero stati Nor-bu e sua moglie si sarebbe potuto dire che le amavano.
Ma
trattandosi di loro è meglio non usare una simile parola: amore era
davvero una parola fuori della portata del loro vocabolario.
Ma
questo non gli bastava. Così ricorsero anche ad altre pratiche, perché alle
loro piantine fosse assicurato il migliore dei futuri.
All’ingresso
dell’orto posero i changsûng o pali degli spiriti. Erano una sorta di
“totem”, sculture lignee che rappresentavano delle divinità tutelari, e che
erano poste per lo più all’ingresso di un villaggio per proteggere il
villaggio, appunto, e i suoi abitanti dagli spiriti malvagi e dalle malattie.
Tutt’altro
che belle queste sculture! Brutte e irregolari, occhi enormi e sporgenti,
sguardi torvi, grande naso a forma di patata, e tuttavia con delle enormi bocche
che si allargano da un orecchio all'altro in un grande sorriso di benvenuto.
Sotto
questi pali all’ingresso dell’orto i due tenevano quotidianamente dei riti
con offerta di cibo (cipollotti rossi!) e preghiere per invocare il benessere
dell’orto e un raccolto abbondante. Dopo aver celebrato il rito, i due
consumavano con avidità, ma in comune, l’offerta di cibo (i cipollotti rossi,
sempre e solo quelli!!).
Insomma
non si risparmiarono davvero in nulla. Quando ci vuole ci vuole! (si potrebbe
dire, volendo parafrasare il comportamento dei due sodali)
Per
proteggere le piantine al meglio dalle intemperie si misero addirittura a
costruire tutt’intorno un muretto di pietre. E qui andarono a tirar fuori
nientepopodimeno che una vecchia usanza.
Costruirono
questo muro tutt’intorno andando in giro a cerca di pietre maschio e femmina,
cosa tutt’altro che facile! Eppure passarono giorni e notti a andar in
giro per i campi e per il greto del fiume Ch'ônggyech'ôn a cercar simili
pietre
Se,
secondo l’antica usanza, nella costruzione del muricciolo si fossero messe le
pietre a coppie, maschio e femmina, l'una sull'altra, il muro avrebbe resistito
a qualunque tempesta e alle intemperie.
Ma
siccome l’equilibrio e la temperanza è privilegio solo dei saggi (e non era
il caso dei nostri), si volle esagerare. Pensando che la pietra-femmina
è simbolo di fertilità si volle esagerare nel metter dentro più pietre-femmine
che pietre-maschio.
E
già questo non fu un buon auspicio.
Ma
comunque i due si sentivano soddisfatti e si gongolavano come due grassi maiali
a guardar le loro pianticelle crescere.
E
almeno qualche pustola gli scomparve e un po’ di rossore venne meno.
Le
zucche crescono e portano la tanto agognata sorpresa
Le
zucche crebbero. Belle. Rigogliose. Sontuose direi. Ma nere.
I
due, i cui occhi piangevano di gioia al solo guardarle, non ci fecero caso. Né
Nor-bu tantomeno si ricordava che Hon-gu gli aveva parlato sì di zucche, ma
bianche.
Nor-bu
era felice. E difatti sul suo volto pustoloso e arrostito dalla dieta dei
cipollotti rossi comparve un ghigno che si sarebbe dovuto interpretare come un
segno della sua ottima disposizione interiore. Anche la megera abbozzava sul
viso rosso, roso e corroso dalle vesciche, una specie di sardonico sorriso.
Insomma,
unicuique suum, erano a loro modo felici.
“Sono
pronte” disse la megera “possiamo aprirle anche stasera”
“No!”
rispose imperioso Nor-bu “Non ancora. Lasciamole maturare ancora un po’. Se
le apriamo adesso che sono sempre acerbe, sicuramente avremo meno. Aspettiamo
che siano ancora più mature e di sicuro avremo di più”.
E
così aspettarono un altro mesetto.
La
megera non stava più nella pelle.
“Nor-bu
dobbiamo aprire le zucche, o marciranno”, sbottò di nuovo una mattina.
“No!”
disse di nuovo Nor-bu “Ho detto di no!” e le misurò in faccia la zappa che
usava per zappettare quotidianamente la terra intorno alle zucche.
Ma
le zucche stavano già appassendo. La megera non intese ragioni e con un volo da
gazza ladra gli strappò leggera la zappa di mano e come indiavolata si gettò a
ripetizione sulle zucche spaccandone in contemporanea almeno una decina.
“Che
fai pazza!” urlò infuriato Nor-bu raccogliendo un grosso pietrone e
schizzando verso la moglie per spaccarglielo nel capo.
Ma
mentre che la pazza aveva finito di spaccare la decima zucca e Nor-bu ne stava
per spaccare una assai più dura, dalle zucche cominciò a colar giù un liquido
nero e repellente.
L’aria
si riempì d’un tratto di un alito di peste.
I
due si bloccarono.
Un
vento feroce si mise a soffiare dal profondo delle zucche e nubi plumbee ne
fuoriuscirono abbattendosi con tuoni e fulmini sulla casa di Nor-bu che pareva
che volessero schiaffeggiarla.
La
casa fu sollevata in aria, e mentre che si sollevava in aria da sotto il
pavimento si aprì una cripta e, fra tanfo e fumo, tutta coperta di vermi una
ridda di stinchi bianchi ne veniva a galla insieme a un mare di teschi.
La
casa presa in custodia dal vento feroce fuggì verso la montagna Kwanaksan, e
tra un bagliore di fiamme lontane scomparve.
Dalle
zucche emersero dieci enormi draghi neri che cominciarono a vomitar fuoco da
tutte le parti e dove il fuoco cadeva tutto scompariva. In breve fu tutto
bruciato. E solo odor di fiamme e di morte rimase la dove prima sorgeva la
dimora di Nor-bu e della sua compagna.
Il
fiume Ch'ônggyech'ôn muggì gonfio d’acqua, e fuoriuscendo dagli argini
esondò ribollendo e si portò via tutto lasciando dietro di sé una lunga
striscia della bava fiammeggiante dei draghi.
Intanto
i due, non più rossi ora ma neri come due tizzoni d’inferno per le fiamme e
il fuoco, erano corsi come due lepri sul ponte, e da lì disperati avevano visto
ogni loro bene venir giù divorato e ingoiato da quel cataclisma.
Accanto
a loro si era radunata una fitta folla di passanti e curiosi che gridavano
all’indirizzo della bava fiammeggiante che portava seco il Ch'ônggyech'ôn:
“E’ la coda del diavolo!” E’ la coda del diavolo!”
Qualcuno
narra di aver visto Nor-bu piangere.
Qui
finisce la nostra storia
Qui
finisce la nostra storia.
Ma
prima di lasciarVi permettetemi ancora di aggiunger qualche parola.
Nor-bu
e la sua moglie divennero poveri in canna, e finirono a chiedere l’elemosina.
Ma
Vi domando: credete che i due siano cambiati? Credete che il loro cuore si
sia intenerito? Che quel vaso di creta che è il bene che ci portiamo dentro fra
mille vasi di ferro si sia finalmente aperto e abbia sparso le sue semenze
nell’anima dei due tapini?
Vi
domando di nuovo allora: “Può la natura dell’acqua cambiar la sua natura in
quanto acqua e transustanziarsi in latte?”
E
Hon-gu infine, il buono e mite Hon-gu, in cui, all’opposto, il vaso di ferro
era il bene e tutto il male era contenuto in deboli vasi di coccio che andavano
spaccandosi al minimo urtar che avessero con quello di ferro, credete dunque che
Hon-gu se ne sia davvero rimasto indifferente alla tragedia del fratello per
gustarsi il piacere del freddo piatto della vendetta?
Di
nuovo, e in fine, Vi chiedo: “Può la natura dell’acqua cambiar la sua
natura in quanto acqua e transustanziarsi in latte?”