IO DEVO DORMIRE
di Andy Phin
Stavo
seduto al tavolo con la tovaglia rossa, nel salotto grande, quello con il
televisore. All’inizio la tovaglia rossa mi aveva fatto pensare al natale, non
so perché, ma credo si usi apparecchiare la tavola di rosso a natale. A casa
mia non l’abbiamo mai fatto. Dopo un po’, vedendola tutti i giorni, mi
dimenticai del natale. Era una tovaglia rossa e basta.
Stavo
scrivendo una lettera. O meglio, non avevo ancora iniziato. Me ne stavo seduto
con la biro in mano, davanti avevo i fogli della fotocopiatrice, e sotto ci
avevo messo il giornale del giorno prima.
A
dire il vero non so perché dovevo scriverla la lettera, ma ricordo che lei si
aspettava lo facessi. Non credo nemmeno ci sia un motivo, al giorno d’oggi,
per cui qualcuno debba aspettarsi una lettera, con i telefoni, le e-mail, i fax
e tutto il resto. Ma lei ci teneva tanto, e insomma, pure a me non dispiaceva
scrivere. Non l’avevo mai scritta una lettera prima. A me piaceva inventare,
scrivere racconti. A scrivere di me mi sentivo vulnerabile, come se qualcuno
avesse potuto spiarmi dentro, e vedere quali erano i miei punti deboli.
Non
sapevo proprio come iniziare. Continuavo a guardare fuori dalla finestra gli
spacciatori che combinavano i loro affari. Tenevo la biro tra indice e medio, e
la facevo tamburellare sul pollice. L’avevo visto fare al tizio della camera
centotrentotto, prima che firmasse il registro degli ospiti; come se non si
fosse ricordato il nome, o avesse dovuto inventarlo lì per lì, e dovesse
pensarci su.
L’inizio
era sempre il mio problema, mi trovavo sempre indeciso su qualsiasi cosa. Tanto
più che mi sentivo osservato. Ogni tanto mi alzavo per controllare che qualche
ospite non fosse sceso nella hall. Sentivo come degli occhi puntati addosso, di
qualcuno che mi spiava con attenzione. Gli spacciatori non si curavano di nulla
invece, continuavano a scambiarsi buste e pacchetti sotto la luce giallastra dei
lampioni.
Mi
venne in mente il grande fratello, non quello della televisione, quello di
Orwell. E il personaggio che doveva nascondersi in un angolo quando voleva
scrivere, per sfuggire allo sguardo del teleschermo.
A
quel tempo leggevo autori americani; ma anche Orwell. Mi sentivo percorso dalla
vena narrativa. Poi non lo so cos’è successo.
Pensai
di saltare l’inizio, e di buttare giù la prima cosa che mi passava per la
testa. Poi avrei messo ordine.
Mi
sforzai di concentrarmi, e di pensare a lei.
Mi
tornò in mente quella volta che salimmo sull’Etna. Mi arrampicavo su per il
cratere, affondando fino alla caviglia nella lava fredda, con tutti i sassolini
che mi entravano nelle scarpe. Lei mi seguiva, faceva il possibile, dalla faccia
si vedeva che faticava, ma non si lamentava. “Se a te va, saliamo” diceva.
Una cosa normale insomma. Mi piaceva come faceva sembrare le cose normali. Poi
una volta scesi dal cratere incontrammo quel tale con la bancarella. C’era
questo grande piazzale, e non c’era nemmeno un’anima in giro. Era l’unico
ambulante, e se ne stava li, con le ruspe che gli scavavano quasi intorno. Lei
lo conosceva, e si mise a parlargli,
lui non la riconobbe subito, ma quando si ricordò, sembrava si
conoscessero da un sacco di tempo. Poi parlò anche a me con quel tono, e capii
che era il suo modo di fare. Volle assolutamente offrirci da bere, il tizio
della bancarella. E lei stava vicino al bancone del bar, tra me e l’ambulante,
e mi teneva la mano, che fino al giorno prima non mi aveva mai visto. E parlava
con l’ambulante, poi con me, poi con l’ambulante, poi ancora con me. Ed io
me ne stavo là, con addosso il giubbotto di suo fratello, e ogni tanto ci
parlavo pure io con l’ambulante. E mi sembrava tutto talmente assurdo che ogni
tanto mi guardavo in giro. Ma mica mi sentivo osservato quella volta.
Credo
sia stato là che ho cominciato ad innamorarmi di lei, parlando col tizio della
bancarella sull’Etna.
Avevo
lasciato la tovaglia rossa per andarmi a prendere da bere. E mentre stavo
rovistando nella cella frigorifera sentii suonare con insistenza il campanello
d’entrata.
Era
un ragazzo straniero, poi mi disse di essere indiano, e mi diceva soltanto “io
DEVO dormire”. Cercai di fargli capire che l’albergo era al completo. Ma
questo o non capiva, o non voleva capire, continuava ad insistere con quel suo
“io DEVO dormire”, e lo diceva come se ne andasse della sua vita. Parlava
poco l’italiano, ed io in india non so nemmeno che lingua parlino. Mi fece
capire che si accontentava del divano, e aggiunse anche che mi avrebbe dato
venti euro. Io ci credevo poco alla storia dei venti euro, anche se mi avrebbero
fatto comodo. Ma fuori si gelava dal freddo, ed un po’ mi faceva pena quel
povero diavolo.
La
tovaglia rossa a guardarla bene aveva una piccola bruciatura circolare vicino ad
un angolo, probabilmente era stato qualche ospite distratto fumando una
sigaretta. Non era vietato fumare in camera, ma era raccomandato di evitarlo
perché faceva scattare i rilevatori di fumo. Una volta avevano telefonato al
direttore alle tre di notte perché era scattato l’allarme antincendio. “non
sono mica un medico io” aveva detto. E così aveva fatto scrivere quei
cartelli da attaccare nelle camere.
Avevo
buttato giù solo poche righe, e continuavo a sentirmi osservato. Adesso poi
c’era anche l’indiano sdraiato sul divano, che mi dava le spalle. Ma non era
certo colpa sua. Doveva essere stanco morto, perché come si era coricato si era
addormentato di colpo, e faceva un rumore sommesso respirando. Avevo capito cosa
intendeva con quel DEVO dormire.
Andavo
avanti a rovistarmi nella memoria per cercare qualcosa da scrivere. Lei voleva
sapere com’era stato che mi ero accorto di amarla. Almeno era questo che mi
ero messo in testa io.
A
pensarci bene credo sia stato per colpa del negozio. Non che io abbia mai avuto
un negozio, ma c’era stato un periodo che mi era venuto il pallino di aprirne
uno. Ero stato in giro tutto il giorno, a visitare i vari franchising e poi
all’agenzia immobiliare. Lì c’era una ragazza grassoccia con l’accento
del Polesine, tutta curiosa su che negozio dovevo aprire. La sua collega invece
mi aveva portato in giro a vedere i vari negozi in affitto. Andava insistendo a
dire che nella zona c’erano un sacco di negri e di spacciatori, ed era per
quello che tenevano i prezzi degli affitti così bassi, perché in quella zona
nessuno lo voleva affittare un negozio. Ma io mica ci pensavo al negozio,
continuavo a pensare a lei, che mi faceva incazzare ogni volta che la chiamavo.
A quel tempo ci sentivamo solo per telefono, perché lei era rimasta in Sicilia.
Così salutai l’agente immobiliare, che mi stava parlando del Maurizio
Costanzo show, ma io dovevo aver perso il filo del discorso ormai.
Tornai
a casa di corsa per telefonarle. Le raccontai tutta la mia giornata e le chiesi
persino consiglio per l’arredamento del negozio, ma lei mi disse “se apri
quel negozio, ti auguro buona fortuna, ma ognuno per la sua strada”; proprio
così aveva detto. Io riattaccai ed andai a scolarmi un paio di bicchieri, la
richiamai dopo qualche ora, e le dissi che non potevamo andare avanti così. In
sostanza l’avevo lasciata, almeno così mi ha sempre detto lei. Ma poi per
tutta la giornata mi sentii il magone. Insomma, per quanto ne dicevo pure a me
non dispiaceva essere felice. E con lei lo ero, solo che non ero felice da tanto
di quel tempo che forse mi ero scordato cosa si provava, e me ne accorsi solo
dopo averle detto quella cosa, che non si poteva andare avanti a quel modo. Era
stato così che mi ero accorto di quanto tenessi a lei, ed era stato così anche
che ero finito a lavorare nell’albergo.
Alle
quattro e mezza fui costretto a battere sulla spalla dell’indiano per
svegliarlo. Dormiva come un sasso. Gli dissi che tra un po’ arrivava la
cameriera, e che doveva andarsene, sennò mi metteva nei guai. La cameriera
sarebbe arrivata solo tra due ore, ma l’indiano aveva cominciato a russare
forte, e poi a quell’ora la stazione era già aperta, poteva andare lì ad
aspettare il giorno. L’indiano si mise a sedere di scatto, e per un attimo
sembrò non sapere dove si trovasse. Si guardava in giro, come per cercare una
cosa che gli avrebbe ridato la memoria.
L’indiano
andò qualche minuto in bagno, e quando tornò mi strinse la mano, mi ringraziò,
e disse che gli dispiaceva ma i venti euro non ce li aveva. Io avrei anche
voluto incazzarmi, ma proprio non mi riusciva. Gli dissi che già lo sapevo che
non li aveva, gli augurai una buona giornata e chiusi la porta alle sue spalle
quando uscì.
La
lettera non l’avevo ancora finita, avevo scritto a malapena una pagina, e a
rileggerla non mi convinceva nemmeno. Non erano proprio il mio forte le lettere.
Andai
a preparare le colazioni dei clienti: succo d’arancia, di pompelmo, tropicale,
acqua e latte. Poi yogurt, affettati e formaggi. Frutta sciroppata, cereali,
crostata di frutta, ed un’altra torta già affettata, con vaniglia e
cioccolato. Infine brioche e pane dal forno alla tavola. Avevo tirato mattina
con le colazioni.
Quando
arrivò il mio collega a darmi il cambio, presi la lettera, la piegai in
quattro, la misi dentro ad una busta intestata dell’albergo e me la ficcai in
tasca.
Non
l' ho mai spedita quella lettera. A volte la tiravo fuori e ci aggiungevo
qualcosa che mi veniva in mente, qualcosa che riguardava lei, che magari le
avrebbe fatto piacere sentire. Ma della storia dell’indiano non glielo ho mai
raccontata.
Lei
qualche volta me lo dice, di solito mentre facciamo colazione. Mi chiede se è
mai possibile che in tutto questo tempo non le ho mai scritto uno straccio di
lettera. Io faccio finta di niente, bevo dalla mia tazza e guardo dalla finestra
i passeri appoggiati sui rami. Poi ogni tanto tiro fuori la lettera e ci
aggiungo qualche riga. Ormai sono quasi una decina di fogli, e a stento riesco a
farceli stare dentro la busta logora dell’albergo
Quella
mattina tornai a casa più stanco del solito. Mi spogliai e m’infilai sotto le
coperte, e ricordo che nel silenzio della stanza vuota e buia, con le imposte
sbarrate, provai anch’io a dire quella cosa; così tanto per sentire come
suonava. “Io DEVO dormire”.