IL
MALE
“Di
tutti gli altri sappiamo dove ciascuno perì
Di
lui persino la morte ha reso ignota”
di Fabrizio Ulivieri
Il
male è imprevedibile. Il male a volte segue le vie più strane e impensate.
Anche attraverso il comico e il grottesco passano le strade del male.
Inosservate. Impalpabili. Ma reali comunque.
Il
sesso, ad esempio. E’ il sesso un sintomo grottesco ma reale del Male? Può il
male attraverso il sesso perseguire i suoi scopi? Può il male attraverso di
esso corrompere l’anima, aprila con profonde ferite e divertirla dalla retta
via? Dalla luce?
Forse
pochi ci pensano.
Forse
solo i filosofi lo hanno notato.
Ma
ogni atto quotidiano del vivere quotidiano, in modo ineffabile esprime ciò che
non si può esprimere.
Marco
era al centro del bar. Stava quasi per svenire. Aveva ingoiato 22 wuerstel.
Stava quasi per vincere la scommessa ma stava quasi per venir meno.
Ingoiò
l’ultimo würstel. Gli occhi si intumidirono di lacrime, e la vista gli si
appannò. Si sentì mancare. Ma qualcosa dal centro del corpo saliva su. Fu un
getto. Potente e inavvertito.
Un
rutto gigantesco assordò il locale. Gli astanti rimasero attoniti, senza
parole.
Ma
quel rutto lo salvò. Quel rutto gli fece vincere la scommessa.
Urla
e applausi da tutte le parti. Marco felicissimo.
Ma
quel rutto liberatorio proveniva dal centro del corpo. Dalle viscere.
Dall’essere più profondo dell’Essere. Quel rutto portò su qualcosa che
aveva lì negli intestini, chissà da quanto tempo, albergato.
Quel
rutto avrebbe cambiato la sua vita.
Non
fu purificazione quel rutto. Fu il trionfo della carne. Fu il tripudio della
tenebra che attraverso le viscere si era aperta un varco, definitivo.
Marco
ormai aveva vinto tutte le scommesse. Dalle 18 uova sode ingoiate una dopo
l’altra, ai 14 tramezzini trangugiati in serie, alle 10 pizze mangiate in 30
minuti. Ormai il suo Ego non si accontentava più e soltanto di queste
esibizioni da baraccone locale.
Qualcosa
di nuovo gli si era insinuato dentro. Qualcosa di indefinito. Ma di urgente. Di
impellente.
Qualcosa
che celebrasse sempre la grossezza della carne, ma non fosse impossibile alla
sua timidezza. Sì perché Marco era di una timidezza spropositata. Specialmente
con le ragazze della sua età. Incapace di non diventar rosso. Incapace di
comportarsi normalmente.
Lo
affascinava la notte. Le creature che popolano la notte. Che si muovono nella
notte come animali misteriosi. Che la luce anomala fa anomale figure che
agiscono piene di mistero, ingigantite dalla fantasia. Dal senso di peccato che
emanano. Dal vivere la notte per sparire di giorno. Come fossero vampiri che
prendono corpo all’imbrunire per scomparire alla prima luce dell’alba.
Erano
gli anni dei Rolling Stones, dei Who dei Black Sabbath, gli anni del sesso
libero, della ricerca dello stravagante, dell’esser diversi a tutti i costi.
Era
un’intera epoca che si muoveva verso l’oscurantismo degli anni Ottanta, non
sapendolo.
Ci
s’invasava per un nulla. Purché ti distinguesse.
Ogni
individuo si muoveva come invasato. Di che non lo sapeva nel modo più assoluto.
C’era il senso e l’esigenza di invasarsi di qualcosa.
Si
era lì, gettati nel mondo per non si sa che a venire. Era il corpo, i
sensi che ti indicavano la direzione da prendere.
A
volte mi chiedo quale siano i segni premonitori del male. Come si muove il male
prima di assumere le proporzioni gigantesche come quelle di un omicidio, una
carneficina, una guerra, un olocausto?
Gli
occhi. La bocca. Un modo di vivere. Alcuni individui emanano addirittura
un’aura nera. Si portano dietro un che di cupo. Un’energia negativa li
domina.
Ma
questi sono appunto i sintomi, i prodromi di un qualcosa che si sta aprendo la
strada in questo mondo.
Il
male esiste davvero.
Cristo
lo ha allontanato nel deserto, non lo ha distrutto.
Budda
anche, lo ha respinto sotto il fico delle pagode, ma non lo ha annientato.
Il
male si apre la strada appunto, da solo. Attende paziente il momento propizio,
sigillato in qualche punto dello spazio.
C’era
uno strano soggetto che si aggirava per il paese. Un invasato dei Rolling Stones.
Un essere schivo. Che di notte viveva, e di giorno dormiva.
(Non
riferiremo qui il nome, perché ancora vive.)
Di
notte si era specializzato nella caccia di “attivi” e di travestiti.
Portava
con sé una polaroid con cui catturava per sempre gli “attivi”. Strani
omiciattoli notturni, ormai in via di estinzione. Oggi soppiantati da barboni,
clochard, homeless o qualsivoglia altro nome…
Gli
attivi erano omuncoli di una forte dignità. Fieri. Al limite dell’arroganza.
Dignitosi nel vestire. Ma ossessionati dal fare. Dall’apparire.
Si
riunivano in circolo (sempre rigorosamente la notte) in Piazza della Repubblica.
Davanti al Caffè Paszkowsky. O nei loggiati antistanti. Raramente, ma
possibile, davanti alle Giubbe Rosse. E confabulavano. Di che parlassero era
difficile, quasi impossibile, saperlo. La loro cerchia era ristrettissima ed
esclusiva. Non ti permettevano di avvicinarti. Né tanto meno di ascoltare.
Urlavano talora. Ma in una lingua incomprensibile, senza senso.
Il
Nostro (di cui ci siamo ripromessi di non fare il nome) era attirato da loro,
come il ferro lo è da una calamita.
Girava
intorno a loro come un avvoltoio, che fiuti la preda.
In
particolare era attratto da uno di questi: l’Abissino! Abissino, non perché
il Nostro sapesse il suo nome, ma perché era così nero da sembrare un abissino
(per inciso voglio precisare che all’epoca gli africani in Firenze erano rari,
e comunque quasi sempre rigorosamente afro - americani).
Questo
Abissino era visibile solo di notte. Di giorno inutilmente l’avreste cercato.
Girava
per il centro, in estate ( l’attivo era un soggetto assai meteoropatico, in
inverno scompariva), con un grosso cappellone da texano. Con mento alto e
portamento altero.
Era
quanto di più maligno si potesse immaginare.
E
questo attraeva il Nostro ineluttabilmente.
Il
maligno ha un grande fascino, non dimentichiamolo.
San
Giovanni della Croce dice appunto che se “l’anima si lascia ammaliare
dalla bellezza di qualche creatura diventa molto brutta” e l’anima diventa
simile alle creature da cui è affascinata:
Similes
fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis, chi ama gli idoli finirà
per assomigliargli.
L’anima
si copre delle tenebre del mondo.
Dopo
un lungo bracconaggio il Nostro finalmente, ormai posseduto completamente dalla
bellezza tenebrosa dell’Abissino, riuscì ad avvicinarlo e tentò di
rivolgergli la parola.
Ma
quello appena si vide braccato da questo esseruccio (il Nostro) insignificante e
senza senso cominciò a far dei salti in aria e a urlare come un maiale
sgozzato.
Poi
d’improvviso si fermò, e poiché gli attivi come gli spiriti cattivi parlano
tutte le lingue del mondo, si rivolse al nostro in fiorentino: “O giovane e ti
garberebbe parlà con me, ma un’tu ce la po’ fa’”.
A
quelle parole il Nostro si sentì perduto, e vide l’Abissino volare e
slanciarglisi contro. Il Nostro impaurito gli puntò contro la polaroid. A quel
momento e improvvisamente l’Abissino si bloccò con i piedi per terra
inteccherito come un baccalà e, sursum corda! il braccio destro in
alto molto romanamente.
Lo
immortalò.
(Ma
si può immortalare il maligno? Confesso e con un brivido, io ho visto la foto,
che nella foto si vede solo piazza della Repubblica il caffè Paszkowsky, la
gente che passa – poca perché era molto tardi – ma dell’Abissino in posa
romana nessuna traccia)
Il
Nostro che era sdegnosissima e pavidissima persona sentì da una parte venir
meno un mito; o forse bisognerà, meglio, pensare che come la volpe che
non arrivando a mangiar l’agognata uva matura si decide per quella acerba
dimostrando disprezzo esteriore per ciò che in cuor suo brama, abbandonò
il suo primo amore.
Ma
il fascino del Male si era ormai aperta una facile strada nella sua anima.
Così
il Nostro si rivolse alla ricerca di altre creature notturne piene di senso di
peccato.
In
quegli anni quale altre creature notturne emanavano un così forte senso
peccaminoso che quegli esseri che vendono il proprio corpo ai lati scuri delle
strade?
Intrapresa
la via delle prostitute, il Nostro si rese conto che l’altro sesso per Lui
rappresentava una forte complicazione. Primo perché costoso, poi perché
troppi erano i complessi, da quello edipico a una forte ripulsa ginofobica.
Ma
anche qui i suoi interessi avevano, più che sessuale, un aspetto quasi
esclusivamente morale, pasoliniano. Si pensi alle famose prostitute al chiodo a
Roma. Pervase da quelle apparenze neorealiste di tettone enormi e bocche
sdentate, e ormai in là con gli anni.
Ciò
che gli interessava era questo aspetto di persone alla deriva, perdute in questo
mondo, senza più speranza di redenzione, di, come Lui le definiva,
“sbandate”.
Ma
in quell’epoca c’erano altre creature ancor più sbandate.
Erano
nuove creature che facevano ora una comparsa sulla scena pubblica in modo
massiccio, vissute fino ad allora nell’ombra di circoli ristrettissimi e
nell’intimità di pochi: i transessuali.
Fino
a quel momento non avevano avuto un nome, erano stati considerati malati mentali
e la loro condotta immorale. Mandati in carcere e curati nei manicomi.
Una
semplice riga di matita agli occhi, in quegli anni significava carcere e
schedatura; il sequestro della parrucca era una prassi della Buon Costume, come
anche il taglio a sfregio dei capelli lunghi.
A
Firenze ce n’era uno famosissimo, uno dei primi in Italia a scegliere di
ripudiare il suo marchio d’infamia per nascita e a liberarsi di quel peso e
finalmente divenire ciò che si era sempre sentita: una donna.
Arrivare
a Lei non era facile. Bellissima! Alta quasi un metro e novanta. Con due spalle
da scaricatore di porto. Mani alla Gianni Morandi. Capelli biondissimi e una
bocca rossa e carnosa, preludio alla porta dell’Inferno.
Due
occhi verdissimi, quasi fosse l’incarnazione della glaucope Athena.
Incuteva
soggezione al solo vederla.
E
questo fu la scintilla.
Perché
niente di più sublime esiste nel male che il soffrire !
Il
Nostro, poi, era un masochista di prima classe, e figuriamoci se si lasciava
perdere un’opportunità sì ghiotta di languido e infinito tribolare che
avrebbe animato le sue notti a venire.
Qui
si incontrano le strade del Nostro e di Marco.
R.
Lei
si chiamava R.
I
giornali se n’erano occupati, dall’Espresso a Panorama a Playmen
Godeva
al momento di una grande notorietà in tutta l’Italia.
Pure
la cronaca dei quotidiani le aveva dedicato degli articoli perché tra la fine
degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, ritenuta socialmente pericolosa,
era stata spedita al confino.
Aver
individuato un obiettivo così notevole per il Nostro gli rendeva impossibile il
dormir di giorno. E così prese ad uscire ad ore per lui inconsuete.
Aveva
preso l’abitudine a frequentare un noto piccolo bar del centro (che era poi il
teatro delle imprese di Marco) verso le sette di sera. Luogo di ritrovo del dopo
lavoro, nell’intervallo prima della cena.
Che
succede mi domando quando un male ancora in fase di pubertà s’abbatta in uno
adulto?
Si
caecus caeco ducatum praestet, ambo in foveam cadunt, se un cieco guida un
altro cieco, cadranno ambedue nella fossa.
Come
avvenissero i colloqui fra i due, come un male si trasmettesse all’altro, è
difficile ipotizzare.
Furono
probabilmente mozziconi di frasi. Risatine. Allusioni. Anacoluti a ripetizione.
Sinestesie. Discorsi cominciati e non finiti. Contorcimenti di frasi senza
senso.
Tutto
quello che posso fare per aiutare il lettore a capire meglio come una monade
comunicasse all’altra attraverso piccoli pertugi che si aprivano screpolando
la perfezione di questi due mondi chiusi e inaccessibili, è pensare a quel
capolavoro che è il colloquio in Taxi Driver fra Travis e Mago, un pezzo
d’arte di non senso, un cesello finissimo di due essere gettati nel mondo
dominati e invasati dal mondo, avvolti dalla sua tenebra, stanchi, deliranti e
affannati.
Avrei
invece voluto affascinare il lettore con un bel quadro, come quando un
discepolo parla al suo guru: “Oh maestro puoi tu insegnarmi come
sfuggire allo stato di morte, malattia e vecchiaia?”,
“Sì,
lo posso. Resta qui con me e un giorno mi aiuterai a insegnarlo agli altri. Io
ti insegnerò questo e di più”
Ma
non fu nulla di tutto ciò.
Fu
così invece, che in questo farneticare, Marco venne a sapere dell’esistenza
della bionda Valchiria e inafferrabile.
Fu
in questi colloqui affannosi e sinuosi che Marco apprese le teorie del Nostro
sugli “attivi”, le “sbandate”, le teorie, riviste e rivisitate dal
Nostro, sulla morale pasoliniana, la fine dell’era contadina, del cinema
neorealista di “Accattone”, di “Mamma Roma”, di Capannelle de “I
soliti ignoti”….
A
Marco sì aprì un mondo nuovo. Un mondo fantastico, bellissimo, idealista,
decadente, di cui non capiva nulla, ma intuitivamente bellissimo e affascinante
ugualmente. Il mondo che forse lui da sempre cercava ma non sapeva esprimere a
parole. I semi del male si aprirono.
Larvatus
prodeo
Un
noto filosofo, che di certezze in questo mondo ne aveva una sola, e che
amava ripetere di avanzare in esso quasi fosse un fantasma, nel sogno
cominciò a percepire le basi di una filosofia mirabilis.
Marco
se di notte sognava, più pedestriamente, di congiungersi in carne con un essere
dalle grosse palle e una parrucca bionda in testa, e tuttavia si parva licet
componere magnis anch’esso mirabilis, di giorno, al pari di Kubizek
amico di Hitler condannato per ore ad ascoltare i farneticanti discorsi
del giovane Adolf, si trovò per ore ad ascoltare quelli strategici del
Nostro, per avvicinare la R..
Aveva
deciso di chiamarla telefonicamente spacciandosi per giornalisti di Playboy
(dopo Playmen, non poteva mancare Playboy!) e proporle un servizio fotografico.
Con un articolo che avesse come sfondo il tramontare dell’era contadina e
l’affacciarsi di una nuova società industriale, di cui Pisolini solo aveva
saputo preconizzarne gli albori. L’ articolo avrebbe dovuto mettere in luce i
cambiamenti di costume e di mentalità che una nuova società industriale
portava con sé: la R. appunto!
Il
male emerge come figure. L’assoluto del male si manifesta per gradi attraverso
certe sue figure. Nessuna di queste figure è consapevole di essere un portatore
“sano” del male, ognuna di esse è la conquista di uno spazio nel mondo da
parte del maligno.
Quel
pomeriggio di sabato a loro il male si presentò sotto forma di un corpo sinuoso
di una bionda pantera. Entrando nell’appartamento i due si trovarono di fronte
alla visione beatifica di un enorme culo, dalla pelle ambrata, disteso su di un
letto di argentee lenzuola di seta.
Due
spalle muscolose sovrastavano imperiosamente quel fondoschiena. Le gambe
leggermente divaricate.
Il
male gli gettò uno sguardo languido attraverso i glaucopi occhi.
Il
Nostro fu colto da commozione, con la polaroid appesa al collo. Marco si arrapò
come un cavallo.
“Qui
siamo al massimo”, rimbrottolò il Nostro.
Marco
non parlava. Aveva un nodo in gola, per l’erezione
“Qui
anche Pasolini, avrebbe rivisto le sue teorie su Riccetto. Qui il cinema
neorealista va in crisi…”, continuava a farneticare il Nostro, “Anche
Capannelle e Ferribotte…Totò…tutta l’era contadina…”.
“Volete
scooparee?” rintronò l’aria una voce dal timbro cupo.
A
questa domanda, vi fu subito un piccolo scarto. Il piccolissimo sintomo della
capacità del male di moltiplicare le sue figure in modo esponenziale e di farne
apostoli da inviare in altre direzioni.
Marco
cominciò subito a spogliarsi, e in un batter d’occhio rimase nudo con i
calzini a mezza caviglia, la sua pancia in bella vista e il suo pisello diritto
come un fuso.
Il
Nostro invece, si toccò il naso, si lisciò i capelli sulla nuca, si passò la
mano un paio di volte sul ciuffo biondo, per riavviarlo, e poi chiese: “Scusa
dov’è la toilette?”
“Ma
in fondo al corridoooiooo?”, rispose la pantera bionda.
Il
Nostro sparì nella toilette. Marco zompò sul letto, e zac… si gettò sulla
panterona.
Dopo
un paio di minuti il Nostro ritornò, sempre con la polaroid rigorosamente
appesa al collo. Vide un torello grasso che zompava sul culone con una potenza
inaudita, impressionante. Forse fu colto da demoralizzazione (questo non lo
sapremo mai). Fatto sta che si sedé su di una poltrona, con una gamba
divaricata, appoggiata sul bracciolo, e tra una toccatina di naso e una
lisciatina ai capelli cominciò a sfogliare delle riviste, che erano su di un
tavolino vicino, come se si trovasse in sala d’aspetto dal dottore.
Da
quel giorno il Nostro, come Virgilio giunto alle soglie del Paradiso, abbandonò
Marco. Aveva compiuto la sua missione. Ora usciva di scena. Si chiudeva in se
stesso. E in casa. Le sue uscite si mormora che fossero sempre più sporadiche.
Comunque sempre notturne.
Giungono
notizie di alcune sue puntate su Roma (sempre di notte e sempre a piedi, e dove
si racconta che abbia detto di averla avuta per una notte ai suoi piedi). A
Viareggio. E Anche a Varazze.
Poi
più nulla. Del Nostro si perdono le tracce. Si confonde, si anonimizza. Trova
un lavoro. Sparisce nella notte degli anni Ottanta. Si perde completamente nei
Novanta. Scompare nell’era Berlusconi.
Il
male non ama i suoi figli.
Sandrokan
Erano
gli anni di Sandokan, l’eroe di Emilio Salgari, in tv, interpretato da
Kabir Bedhi.
Sandokan
l’eroe della Malesia. Un pirata d’assalto, nobile, senza macchia e
coraggioso, pronto ad affrontare i pericoli della vita a viso aperto e in modo
generoso.
Sandrokan
era tutto l’opposto.
Arrogante.
Presuntuoso. Falso. Viscido. Vile. Schifoso. Finocchio marcio.
In
lui il male aveva raggiunto la perfezione compiuta dell’uovo cosmico. Immoto
viveva di un proprio respiro, oltre il quale non c’era nulla. Un potere
interno lo alimentava. Il desiderio era il primo e l’unico seme della sua
mente. Il male ritrovava se stesso nel male.
Non
si sa da dove si fosse dischiuso. Da quale momento della notte, da quale incubo
una simile creatura fosse stata generata.
Quale
muffa notturna avesse in lui dilagato.
Forse
solo La Bestia, che sigillato nel punto più profondo della terra alberga in
attesa, lo sa o forse pure Lui non lo sa.
La
sua testa ad uovo denunciava una putrescenza notturna, concretatasi in una forma
informe.
I
suoi occhi il frutto delle angosce collettive della notte.
Le
sue mani il male stesso che alletta al peccato.
La
sua pelle il capolavoro della ributtanza del male.
La
sua tigre quotidiana da affrontare corpo a corpo: il membro maschile!
Questi
esseri non si muovono mai da soli.
Belzebù
una volta che discese per portare il male nel mondo, fu accompagnato per le
strade di Mosca da un grosso gatto nero.
Sandrokan
da par suo si materializzava la notte, accompagnato da uno sgorbio notturno
travestito da donna.
Lo
sgorbio, per contrappasso, benché sgorbio era il senso del bene che sempre si
accompagna al male. Tuttavia contenuto da un anima debolissima e perciò stesso
succubo del male.
Quello
che si sa di questo viscidissimo serpente era una storia strana, che magnifica
l’orribile forza del maligno, che talvolta può sfuggire a se stessa.
Una
delle figure del male può consistere appunto nel disconoscimento completo del
bene pur presentandosi come bene.
Un
intero paese, un’intera città, un’intera nazione può essere succube del
male che si ammanta sotto la forma apparente del bene, della legalità, del
benessere sociale.
Sandrokan
si racconta fosse fuggito da un ameno paesino del pisano: di origini e di
lignaggio etrusco, impastatosi nei secoli di seme germanico e degenerando in
follia culminò come fiorente cittadina infestata di preti; scomparsi, o quasi,
i quali, se ne impossessarono i comunisti.
Essi
lo modellarono a loro immagine e somiglianza.
Qui
il male raggiunse allora una delle più sofisticate rappresentazioni di se
stesso.
Qui
in un luogo dal paesaggio mozzafiato, dove in estate sciamavano frotte di
turisti, dove tutto era lindo e perfetto, a chi si fosse un po’ più a lungo
fermato, balzava agli occhi un’anomalia. L’alto numero di tutori
dell’ordine. Perché?
Durante
il giorno li incontravi a gruppi nei bar a prendere il caffè o per le vie del
centro che passeggiavano noncuranti, come se appartenessero ad un altro loro
mondo, e poi scomparivano.
Riapparivano
in occasioni di feste e sagre paesane, che erano un numero matematico
inelluttabilmente infinito in quel paese, a far bella mostra di sé in
altissima montura. Come gnomi spuntavano all’improvviso e insieme ai numerosi
e continui cartelli di divieto si insinuavano con insistenza nella tua mente.
Fino a che il tuo inconscio non finiva per assumerne un naturale senso di colpa.
Ma colpa di che?
Qui
tutto era vietato. Parcheggiare la macchina addirittura impossibile. Respirare
anche.
Non
li vedevi mai questi gnomi, eppure sentivi continuamente il loro fiato vicino a
te.
Sapevano
tutto, vedevano tutto. Giungevano persino a indagare la tua anima.
Sandrokan
fu così costretto a fuggire.
Dopo
un periodo vissuto a uscire a notte tarda per incontrare il minor numero
possibile di persone. Dopo essersi nascosto di giorno per anni in casa per non
esser notato dagli gnomi, perscrutato nel nero che lo dominava dentro, sentì
che anche lui, figlio del male, doveva andarsene da quel male così scientifico
innaturale costruito con una precisione che al male stesso non era connaturata.
In
quegli stessi anni Pasolini fu espulso dalla scuola e dal partito comunista.
Sandokan
anni dopo apparve in tv.
Combatteva
contro i pirati della Malesia, nella giungla.
Sandrokan
anni dopo comparve nei pisciatoi della stazione di Firenze.
Combatteva
con la sua fame di sesso maschile.
Qui
si incontrò con Marco.
L'uomo,
capace di compiere il male, non lo è nel sanare se stesso.
Il
nome Sandrokan l’aveva coniato un amico di Marco. Uno che viveva di sogni. Di
futili atteggiamenti.
Se
penso a lui non posso che pensare a una canzone di Gaber. Anche lui (l’amico),
se la parte gli veniva bene si sentiva una persona. Era sempre oltremodo preso.
Non da ciò che realizzava in verità (creazioni, devo ammettere, splendide
ma completamente inutili) dalla sua parte però, dal suo apparire per essere.
E
il suo essere non durò molto a lungo, fondato sul nihil com’era. Ex
nihilo nihil, infatti.
La
verità prima o poi si mostra sempre, al di là dell’apparire.
Le
mele di Newton erano lì già da sempre, apparivano. Chiunque poteva vederle. Ma
un giorno la verità decise di mostrarsi, e una semplice mela divenne un
principio della fisica.
E
un giorno la verità venne a galla anche per lui: nulla era e nulla sarebbe
stato.
Ma
tralasciamo pure fatti ed eventi secondari alla nostra storia.
Chi
non merita non deve far parte della storia.
Dicevo
che il nome nacque da questo amico che aveva notato l’indiscutibile senso
garibaldino di assalto al sesso di Sandrokan (il cui vero nome era appunto
Sandro), e che vide analogie indiscutibili con l’eroe di Salgari:
la bocca di Sandrokan era la sua scimitarra. Le sue mani la forza del
guerriero. Il suo culo l’arma segreta.
Nell’ambiente
gay era già stata soprannominata “culo passerino”. Perché andava
orgogliosa di una certa forma che il suo “orifizio” aveva assunto dopo un
intervento alle emorroidi.
“Ho
un culo passerino” ripeteva a tutti, tirandosi giù i pantaloni e mostrando un
glabrissimo culo bianco, al cui centro fuoriusciva un batuffolo di tamponi, per
il recente intervento.
Si
dice che che i santi spargano attorno a sé un profumo di santità, appunto
profumo di rose, di gelsomino, di tiglio…Avvicinandoti a Sandrokan invece eri
colto da un misto di odore di culo e di borotalco.
Le
strade del male sono infinite, insisto, ad nauseam.. Per iniziarti ad
esso il male ti rivela le sue figure più aberranti. E a Marco il male ne pose
una delle più misere senz’altro.
Il
male non si presenta mai direttamente. Le sue peregrinazioni sono sempre
indirette e oblique.
E
in tal guisa Sandrokan non si presentava mai in prima persona, ma mandava lo
sgorbio in avanscoperta.
Una
notte che Marco si era recato in uno dei posti di Firenze che più lo
allettavano, i pisciatoi della stazione, sentì un “Psssssssssssss” e… chi
si trovò davanti? lo sgorbio, con un sorriso ebete.
Lo
sgorbio lo condusse in uno squallido appartamento di via Faenza.
Come
entrarono dentro trovò un cesso d’uomo calvo con degli occhialoni alla Woody
Allen, che indossava una camicia blu, senza pantaloni, con su indosso solo un
paio di calze a rete, e che sculettava su e giù per la casa.
Lo
sgorbio con uno strano accento misto tra il fiorentino e il siciliano fa:
“Nina ma l’hai visto che torello ?”, indicando Marco.
“Nina
ma il toro ce l’ho io!”, indicando un enorme negro sdraiato mezzo ubriaco su
di una sedia, seduto da una parte, che emergeva dalla penombra.
Anche
Marco guardò il negrone. E gli venne uno strano presentimento.
E’
spesso difficile carpire il talento del male. Ma Marco quella notte d’estate,
forse per un rigurgito di bene (questo tesoro lo abbiamo in noi come in vasi di
creta) un certo sentore ne ebbe.
Il
negrone si alzò bofonchiando “I wanna fuck you babe! Come here…come on!”,
cercando di afferrare culo passerino.
Sandrokan
si divincolò viscido come una serpe. “Ma Nina !...ma figurati! Ma guarda
questo…mi hanno fatto l’operazione non posso!” disse tirandosi giù le
calze a rete e mostrando i tamponi.
“I
don’t mind” replicò la montagna nera.
Allora
afferrò lo sgorbio ma vistolo bene in faccia il negro non poté trattenere un
“Jeez! You suck!”
A
quel punto guardò diretto in faccia Marco.
Marco
ebbe un fremito.
Dopo
quella avventura, direi traumatica, per Marco iniziò uno strano periodo. Si
sentiva come convalescente. Come uno che viva in uno stato non ben definito, tra
il sogno e il reale. Andava a letto che albeggiava. Si alzava per uscire che
tramontava: viveva come in uno stato di notte polare.
Una
volta ho conosciuto uno che cercava la voce dell’anima nel karate. Un altro la
cercava invece nel canto. Entrambi nelle vibrazioni neuronali del corpo,
prodotte dai movimenti delle mosse di karate o dalle vibrazioni delle corde
vocali, cercavano di percepire le vibrazioni dell’anima per arrivare alla voce
di Dio.
Il
bambino esultò nel seno di Elisabetta all’udire la voce di Maria, e quella fu
ricolma dello Spirito Santo (“Appena la voce del tuo saluto è giunta alle mie
orecchie, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”) per le
vibrazioni dell’anima, per la sua voce, per quella di Maria già
unita a Dio:
“L’anima
mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore: poiché
ha guardato all’umiltà della sua ancella.”
Ecco
potremmo dirlo, perché no?, in quello stato di notte polare , egli trovò
certe vibrazioni ma in senso nettamente opposto. Il bene nei vasi di creta si
rompeva, il male vibrò padrone assoluto. E forse cominciò a percepire un
sostegno. Un qualcosa che lo avvolgeva dappertutto, che lo tirava verso sé. La
voce del male lo fasciava, lo risucchiava. Si sentiva come sovrastato da un dio
gigantesco che lo avesse preso in custodia fra le profondità delle sue gambe.
Si abbandonò a quella parte più intima e segreta del suo nero angelo
desideroso di una fine.
Il
pescegatto
La
fine gli arrivò di notte, come sempre. Il male assunse l’ultima grande, forse
la più grande, figura inquietante prima di manifestarglisi definitivamente.
Come
il suo maestro che l’aveva iniziato alle virtù e ai piaceri della Bestia, che
dimora al centro della terra in attesa della Sua venuta, aveva preso a
percorrere i notturni viali in zona dell’Isolotto, che all’inizio degli anni
Novanta cominciò a popolarsi di nuove sinistre presenze, fino ad allora
sconosciute in Italia. Donne nere come tizzoni d’inferno.
Secondo
alcuni bene informati queste pantere nere sarebbero sbucate dapprima nel 1989
dai boschi di Migliarino, vicino Viareggio: di lì a macchia di leopardo diffuse
nei boschi di Staffoli. Poi la fame le avrebbe spinte verso verso la città,
dove il cibo era più abbondante. Verso Livorno in un primo momento, e più
tardi verso il capoluogo: Firenze. Animali assetati di denaro, di carte di
credito, sebbene neanche ne conoscessero il funzionamento, ma ammaliate dalla
bellezza di semplicemente inserirle e avere soldi con una facilità per loro,
belve pronte a vendersi per niente, ipnotizzante. Assetate di maglie, jeans,
biscotti, hamburger, polli cotti e non, latte in polvere, patatine fritte,
McDonald’s… di qualunque cosa purché facesse dimenticare la grande fame che
si portavano dietro.
Ma
dietro si portavano anche una lunga sottile ombra nera, invisibile. Inquietante.
In
una notte d’estate, che già albeggiava, sul viale Talenti, un Marco stanco e
deluso sulla via di casa, vide la luce: un sorriso bianchissimo a trentadue
denti che spuntava dall’ombra, e una gamba nuda che si alzava per invitarlo a
fermarsi.
Marco
fu folgorato.
Bloccò
la macchina, e si avvicinò alla rivelazione nera.
“Ciao!
Vuoi un passaggio?”
“Zì
amigo, se tu portare me a casa io domani alle tre fare sega a te. Ora droppo
stanca!”
Questo
fu l’incontro.
Per
la strada risero. Lei era molto simpatica.
Ma
ciò che soprattutto gli piaceva di lei erano quegli occhioni cupi. La sua bocca
volitiva e arrogante.
In
particolare notò certe smagliature che aveva sulle cosce che subito lo
eccitarono. Ma indefinibilmente lo attrassero alcune cicatrici che le segnavano
le guance.
Il
miraggio della sega alle tre del giorno dopo e la curiosità di quelle
cicatrici lo spinsero a rivederla.
Rivederla
non fu facile. La miseria di questi gattoni neri si porta dietro una grande
stanchezza. Forse atavica. Non appena si siedono. Non appena deflettono dalla
posizione eretta si addormentano.
Ci
volle non poco a svegliarla. Ci fu dapprima una panterona nera che rispose al
telefono con un stanchissimo “Brondo!!!”
“Scusa
c’è Jessica? Sono Marco”
A
ciò si udì “Bobobo! Bobobobo Jessica! Bobobobobobo Margo!”
“Brondo
! sono Jessica.”
“Ciao
sono Marco…”
“Margo,
io non gonosgo Margo…chi sei?”
“Ci
siamo conosciuti ieri…ti ho accompagnato a casa…mi hai detto di richiamarti
oggi ti ricordi?”
“Momendo!
Bobobobobobobob Margo…bobobobobobobbobobobo!”
Marco
pensò che stessero litigando da come urlavano.
“Brondo!
Sono Jessica chi sei?”
“Ciao
sono Marco.. ci siamo conosciuti ieri…ti ho accompagnato a casa….mi hai
detto di telefonarti oggi per vedersi…”
“Momendo….bobobobobobobobo
Margo….bobobobobobobobobobo!!!!”
Marco
pensò: “Qui ne tocco!”
“Bbbbronddddooo!
Chi sei?”
“Sono
Marco, sei Jessica?”
“Zì.
Chi sei tu?”
“Io
sono Marco…ci siamo conosciuti ieri sera. Mi hai detto di richiamarti
oggi..”
“Momendo!!!...Margo
bobobobobobobobobobobobobobobobobobobobo!”
“Brondo
Margo sono Jessica. Due minuti sono giù!”
I
due minuti in realtà si rivelarono un’ora. Ma Marco aveva ereditato dal
Nostro l’arte di soffrire. E soffrì con piacere.
Quelle
cicatrici sulla faccia lo ossessionavano.
Marco
voleva sapere. Voleva sapere chi era. Da dove veniva. Come aveva fatto a venire
in Italia.
Ogni
volta che la incontrava domandava qualcosa in più. E lei dava le risposte con
il contagocce. Questo stimolava e incitava ancor di più Marco a domandare.
Più
domandava meno otteneva risposte.
Poi
capì la natura del pescegatto.
Famelico
e affamato, avido di denaro. Bastava pagare e otteneva risposte ma più
domandava e più care erano le risposte.
Arrivò
a pagare cifre pazzesche, per non sapere niente. O quasi.
Alla
fine il quadro fu questo.
Lei era stata comprata da una grassa mammana di Firenze.
In
Nigeria girano dei sensali che su commissione (20 milioni) trovano ragazze da
mandare in Italia.
Vanno
in giro per i villaggi, dove più la fame imperversa. Domandano alle ragazze se
vogliono andare in Italia per fare quei lavori che gli italiani non vogliono più
fare.
Nessun
problema per andare in Italia. Loro le avrebbero anticipato i soldi. Li avrebbe
restituiti col tempo un po’ per volta.
Arrivata
in Italia all’aeroporto trovò qualcuno ad aspettarla, che la condusse in un
appartamento dove erano già altre cinque ragazze. Lì capi che lavoro avrebbe
veramente fatto.
Le
furono ritirati i documenti e le fu tagliata una ciocca di peli dal pube e
un’altra dalle ascelle. Furono poste in una scatolina e prese in custodia
dalla mammana. Se si fosse ribellata le avrebbero fatto una macumba.
Ora
era schiava della mammana e doveva versarle 70 milioni.
“Ma
perché non vai dalla polizia?”
“Du
bazzo Margo. Du non gabisci!”
“Ma
che devo capire?”
“Du
no sai!”
“Cosa?”
“Io
avere baura!”
“Ma
di che?”
“Non
bosso dire!”
“Dimmelo!!”
“Du
dare dandi soldi a me e io dire!”
“Mi
dici anche delle cicatrici, se io ti do tanti soldi?”
“Zì,
ma du dare a me dandi, dandi soldi!”
La
contrattazione fu lunga laboriosa e infinita.
Alla
fine per la modica cifra di sei milioni, Marco riuscì a farsi promettere la
verità.
L’appuntamento
era per mezzanotte in un appartamento del centro.
L’appartamento
era scuro e squallido. Dentro v’era come puzza di carne andata a male.
Sembrava
che ci fossero come i resti di un banchetto consumato il giorno prima.
Dappertutto
c’erano animali in gabbia o imbalsamati.
A
marco parve di vedere dei serpenti in una teca di vetro. Sentì gridare una
scimmia. Vide un’iguana in una gabbia.
In
un primo momento Marco trabalzò per la paura. Ma poi impaziente com’era di
sapere la verità si rivolse a lei con gli occhi come di un pazzo. Voleva sapere
tutto. Lei esitava ancora.
“Allora?...Dimmi”
disse Marco abbastanza alterato.
“Non
bosso Margo. Io avere baura!”
“Ma
che paura e paura, cazzo! O mi dici tutto o mi ridai i soldi” disse mollandole
uno schiaffone sulla faccia.
“Io
ho baura, Margo…tu non gabisci…”
“Te
lo faccio vedere io se gabisco!!” E le mollò un altro schiaffone stendendola
per terra.
“Margo…tu
non sai…tu non conosci Macumba, Bulullu!!!”
“Bulullu
?”
“Zì,
Bulullu grande dio della Macumba. Lui terribile. Lui grande fame di carne. Ora
essere pericoloso. Io non avere più carne!”
“Basta,
con queste stronzate o io ti faccio a pezzi!” e le affibbiò un calcione nelle
costole.
Questa
volta dové averle fatto davvero male. Perché dalla sua bocca uscì un filo di
sangue e un po’ di schiuma verdognola. Lei si girò verso di lui. La sua
faccia aveva cambiato colore. Più che nera era divenuta color cenere.
Impressionante.
Il
pescegatto si avvicinò a Marco. Anche i suoi occhi erano cangiati, ormai di un
giallo come il piscio di vacca.
Come
una bestia. Cominciò a girargli intorno. Lo guardava, come se Marco fosse un
essere strano e insignificante. Un sorriso di commiserazione le comparve sulle
labbra.
Marco
sentì accapponarglisi la pelle e i capelli rizzarglisi.
Lei
venne vicino al suo volto. Lui sentì il suo alito. Sapeva di quel marcio che
impregnava tutta la stanza. Notò i canini della sua bocca aguzzi come quelli di
un lupo.
Gli
disse: “Guardami ! Guardami dentro! Finalmente mi hai trovato! Finalmente sei
giunto a me! Finalmente hai trovato la tua mèta!!” La voce del pescegatto era
cambiata. Era divenuta vitrea. Sentì come un fischio. Poi un tonfo al cuore.
Come il battito di un altro cuore che batteva accanto al suo. Come un feto che
si stesse ingrossando da qualche parte nel centro della terra. Sentì un caldo
dolciastro diffondersi nella stanza. Umido. Appiccicaticcio. Come la bava di una
lumaca. Che aveva impregnato tutta l’aria della stanza.
Osservò
Jessica . I suoi occhi rotearono. Le pupille come quelle di un gatto si
dilatarono. Fuoriuscirono dalle orbite. Le sopracciglia si infoltirono. Le
cicatrici della sua faccia cominciarono a aprirsi spaccandosi. Il suo volto si
ingrossava. I detti caddero. E rimasero solo i canini aguzzi.
E
dalla bocca spuntò fuori come una lingua biforcuta. Jessica non era più. Il
suo corpo si fece come un grumo gigantesco di sangue e bava. Come una gigantesca
larva.. Altissima. Enorme. Marco si trovò con la faccia davanti all’altezza
del pube di questo ammasso informe che stava nascendo. Si aprì. Rosso vivido
come il sangue un orifizio enorme. Come una grande bocca si spalancò.
Fu
l’ultima cosa che Marco vide. Poi il buio. Il nulla. Silenzio.