FA LO STESSO, BASTA CHE MI PAGHINO
Andy Phin
Camminando lungo il viale buio mi sentivo sempre più affranto, come se ogni albero che superavo aggiungesse nuovo sconforto al mio animo. Non conosco nemmeno ora con precisione l’origine di quello stato di malinconica tristezza, e meno ancora ricordo il motivo che quella sera mi spingeva a girovagare da solo come un pazzo o un vagabondo per la periferia buia e puzzolente, non so nemmeno da quanto tempo stessi in quello stato di torpore semi-cosciente, ma giudicando dai nomi delle vie laterali che s’infilavano nel viale dovevo camminare da almeno un paio d’ore. Avevo attraversato la città senza nemmeno accorgermene. Ah già, il cane! Dov’era finito il cane? Guardandomi intorno lo trovai vicino ad un bidone della spazzatura, stava pasteggiando con degli avanzi di pizza, a meno di un metro da lui c’erano un paio di ratti grandi quanto uno Yorkschire intenti nella sua stessa pratica. Ma ora che ci penso non era nemmeno mio il cane, avevo solamente deciso di seguirlo nell’inedia del mio girovagare. Evidentemente lui era stato più fortunato di me, almeno aveva trovato una cena e dei commensali, anche se non proprio dei preferibili.
Guardai
l’orologio, erano le tre. Ad un tratto mi accorsi che mi mancavano le forze,
avevo fame, e fui costretto ad appoggiarmi ad un albero per non cedere ad un
giramento di testa. Avrei volentieri chiamato un taxi che mi portasse a casa, ma
non avevo nemmeno uno spicciolo con me. Mi accomodai su una panchina, chiusi gli
occhi e mi lasciai accarezzare dal vento tiepido, non resistei molto e
sprofondai nel sonno.
Al
mio risveglio era quasi l’alba, qualche automobile aveva iniziato a percorrere
il viale, e i morsi della fame si erano fatti insopportabili. A pochi metri da
me c’era la fermata dell’autobus, decisi di aspettare lì il primo autobus
che passasse per il mio quartiere, avrei rischiato di prendere la multa perché
non avevo il biglietto, ma era comunque più veloce che rientrare a piedi.
L’autobus
arrivò quasi subito, e mi venne da pensare che una volta tanto non ero stato
sfortunato, ma dopo un paio di fermate salì il controllore e mi fece la multa,
così dovetti rimangiarmi ciò che avevo appena pensato.
A
casa non avevo molto da mangiare, e mi sfamai con dei crakers e due mele.
Guardandomi attorno mentre mangiavo mi resi conto che il mio appartamento faceva
proprio schifo: il muro era pieno di muffa che i mobili sgangherati non
riuscivano a coprire, il pavimento era pieno di briciole, ed il lavandino non
aveva nulla da invidiare in quanto a puzza e confusione ad un bidone della
spazzatura. Erano quasi le otto del mattino, e decisi di telefonare al lavoro
per avvertire che non ci sarei andato quella mattina.
Al
telefono la segretaria fu più laconica del solito e disse che il principale
voleva parlarmi, questo mi comunicò che ero licenziato, io gli risposi
“Ok” e lui iniziò ad insultarmi; deviando dopo un po’ gli insulti
su mia madre. Quando arrivò la parte sul creatore mi ero già stancato da un
pezzo di ascoltarlo e riappesi senza sapere quale curiosa interpretazione di dio
stava per darmi.
Nel
cassetto del comodino avevo qualche banconota stropicciata, scesi in strada e
entrai nel primo negozio per comprarmi le sigarette e qualche barretta di
cioccolato per placare la fame che la scarsa colazione non aveva estinto del
tutto.
Una
volta ristoratomi e fumata una sigaretta decisi di andare all’agenzia di
lavoro per vedere se avevano qualcosa di meglio della fabbrica di palline da
ping pong dalla quale mi avevano appena licenziato.
Dietro
la scrivania c’era la più bella
creatura che avessi mai incontrato sulla terra. Aveva i capelli biondi come il
grano, ed un paio di occhi azzurri dei quali non saprei descrivere la bellezza;
portava una camicetta bianca che metteva in evidenza le sue tette di
considerevoli dimensioni. Evidentemente lei non fu felice che la mia attenzione
fosse passata dai suoi occhi alle sue tette perché mi accolse con uno scontroso
“prego?”. Le dissi che cercavo lavoro, e lei mi chiese che genere di lavoro
cercavo.
“Non
lo so” risposi “fa lo stesso, basta che mi paghino”
“Quali
sono le sue attitudini, le sue competenze, le altre esperienze lavorative?”
Mi
chiese l’angelica impiegata, con suoi modi meccanici da distributore
automatico di lavoro. Mi aspettavo quasi che da un momento all’altro mi
chiedesse di inserirle una moneta in qualche fessura; non sarebbe nemmeno stata
una cattiva idea, era un giochetto che non avevo mai provato.
Le
descrissi brevemente i lavori che avevo fatto, tutte fabbriche o magazzini.
“cercano
un operaio al macello, se lei ci dà la sua disponibilità ed il numero di
telefono la faremo chiamare dal titolare”.
Quando
il telefono squillò stavo dormendo sul divano, la stanza era completamente
buia; non avevo la più pallida idea di che ora fosse, e per un attimo nemmeno
su chi io fossi, e devo confessare che non era una sensazione del tutto
spiacevole; purtroppo non tardò ad arrivare la coscienza di dove mi trovavo e
chi ero, il telefono aveva già squillato una mezza dozzina di volte quando
risposi. L’impiegata dell’agenzia mi comunicò il giorno e l’ora del mio
colloquio di lavoro, io la ringraziai e le assicurai che non sarei mancato…
Riappesi il ricevitore e mi lasciai cadere sul divano, chiusi gli occhi e mi
lasciai trasportare da un lieve giramento di testa. Mentre perdevo conoscenza
pensavo al fatto che non sapevo ancora che ora fosse e forse avrei dovuto
guardare l’orologio per accertarmene, mi immaginai nell’azione di aprire gli
occhi e di avvicinare il polso al viso, ma l’immagine divenne sogno e mi
riaddormentai.
Il
responsabile del macello era un ometto minuto sui quarant’anni, con la faccia
in gran parte imbrattata da un pizzetto che lo faceva sembrare una specie di
folletto. L’omino si disse contento che io fossi un giovane robusto (robusto
io?) perché era una lavoro abbastanza pesante, ma che poteva dare
soddisfazione. Già, pensavo io, immagino la soddisfazione di sollevare tutto il
giorno carcasse di bestiame e tornare a casa con la schiena a pezzi e con la
puzza del sangue che ti si impregna anche nel cervello. Poi il
direttore-folletto iniziò un lungo discorso sull’importanza del lavoro nella
vita di un uomo, evidentemente non aveva molto da fare in quel pomeriggio e
doveva essere anche leggermente logorroico; io smisi di rispondere monosillabi
del tipo: “ah, si, eh beh” dopo cinque minuti, passai un altro paio di
minuti ad annuire, poi spostai la mia attenzione allo studio della cartina
regionale che stava più che alle spalle, sopra la testa dell’ometto. Lui
intanto continuava a ripetere qualcosa sul fatto che il nord-est era la motrice
economica del paese, e un sacco di altre puttanate che probabilmente aveva
sentito al telegiornale di mezzogiorno mentre s’ingozzava di carne di manzo
caricata sui camion-frigorifero da giovani (robusti?) come me.
Duecento,
duecentoquaranta carcasse al giorno da sollevare, ma bisogna tener conto che
ogni animale viene aperto a metà per liberarsi delle interiora, e ne vengono
poi ricavati due grossi pezzi più o meno simmetrici, ognuno dal peso di circa
cento chili, quindi fanno dai quattrocento ai quattrocentottanta pezzi di carne
dal peso di un quintale da sollevare al giorno; bisogna appenderli ad un gancio
dentro ai rimorchi dei camion, per fare questo prima si conficca il gancio nella
carne, ben profondo e non troppo in alto altrimenti poi la carne cede e la
carcassa cade a terra, poi la si solleva tramite una carrucola, e i mezzi
cadaveri rimangono appesi li, come tanti cappotti in una lavanderia.
Io
appesi cadaveri tutto il giorno, sudando nonostante la temperatura fosse bassa
per conservare la carne; dopo un paio d’ore ero sfinito, allora per cercare di
resistere fino a sera cercai di prendermi i
pezzi di bestia più piccoli, così tutto sommato si faticava un po’ meno.
Quando ebbi finito di caricare il terzo camion un tizio in camice bianco venne
da me, entrò nell’ultimo rimorchio che avevo caricato, si guardò un po’ in
giro, poi uscì, ed entrò anche negli altri due, si avvicinò e mi disse che
avevo sbagliato tutto, che avevo messo insieme due tipi diversi di carne e che
dovevo tirare giù tutti i pezzi con l’etichetta rossa riportarli dentro, e
sostituirli con gli altri con l’etichetta bianca, che ovviamente erano quelli
più grossi. Io mi scusai e gli dissi che era il mio primo giorno di lavoro e
che nessuno mi aveva parlato di etichette rosse o gialle. “No, no, le bianche
devi prendere” disse lui. “Ma mi ci vorranno almeno altre tre ore” gli
feci. Lui mi rispose che non gliene fregava niente e che ovviamente non me le
pagavano quelle ore, e se ne andò.
Dopo
la poco cortese direttiva del camice bianco arrivai alla conclusione definitiva
che quel lavoro non faceva per me, ma non potevo certo andarmene lasciando quel
pasticcio delle etichette in sospeso. Decisi di risolverlo a modo mio. Passai
accanto a tutte le carcasse che avevo appeso e le sganciai dal soffitto del
rimorchio facendo scattare il meccanismo a molla che rese molto rapida
l’operazione. I cadaveri cadevano a terra con un tonfo sordo, che
evidentemente da dentro gli uffici non veniva udito dato che mi lasciarono
lavorare tutto il tempo necessario per far cadere il carico dei tre camion.
Prima di andarmene passai per l’ufficio del direttore–folletto, gli dissi
che il lavoro non faceva per me, e di controllare se i camion che avevo caricato
andavano bene; lui espresse il suo rammarico per il fatto che non avrei lavorato
lì e mentre si avviava per controllare il mio lavoro io mi allontanai verso
l’uscita. Indugiai un attimo sulla porta per godermi la sua reazione, e quando
sentii il suo “brutto figlio di puttana“ mi lasciai sfuggire una risata e
gli gridai un allegro arrivederci.
Non
avevo abbastanza forza per tornare a casa a piedi, quel lavoro mi aveva proprio
ridotto a pezzi. Non c’era nemmeno una panchina in giro per riposarmi un
po’, così mi sedetti per terra appoggiando la schiena contro un albero del
viale e come mi succedeva spesso ultimamente mi ritrovai nel mondo dei sogni in
men che non si dica. Quando mi risvegliai sentii un profondo dolore nelle ossa e
se provavo a muovermi i muscoli delle gambe mandavano fitte insopportabili. Il
sole era già spuntato, e davanti a me sul marciapiede passavano gruppi di
persone dirette ai loro posti di lavoro, alcuni passavano da soli camminando
velocemente a testa bassa, altri erano in gruppetti di due o tre e camminavano
con moto irregolare, rallentando un po’ quando iniziavano un nuovo discorso.
Mi alzai aggrappandomi all’albero, cercando di non sentire la moltitudine di
dolori che mi provenivano dalle gambe e dalla schiena: una volta in piedi
guardai quello che era stato il mio giaciglio e trovai due monete ed una
banconota accanto alla sagoma del mio corpo impressa sull’erba. Ecco pensai,
forse ho trovato quello che fa per me.