DIANA
di Andrea Cattaneo
-I-
IL FANTASMA DEL PADRE
Il Mondo dei Vivi, Dicembre.
Così dite, non è vero? È notte, il cielo è nero e denso. La Città deserta. Non è tardi ma in pochi sfidano le gelide
nottate quando possono rimanere accasa davanti alla TV. Questa è la realtà del Mondo dei Vivi.
Io non lo conosco molto bene questo posto. Da poco mi trovo libera di poterlo girare come mi pare, di poterlo osservare. Prima non ero che un ombra. La Città certe notti è elettrica, io
l' ho percepito, ti attira in trappola. È un presentimento, niente di più. In pochi possono capirmi, soltanto quelli che hanno compreso la vera natura di questi luoghi. Per la maggior parte della gente una città non è che un grosso agglomerato di case
e strade, semafori e parchi inquinati, una piazza ed un araldo comunale. Ma la città è ben altro! La città è una creatura nuova che vive in simbiosi con i suoi abitanti e si nutre delle loro vite, delle loro storie. Per questo, se una notte avvertirete l'elettricità, sappiate che quella notte la città stava bevendo proprio da voi.
Alla conclusione del mio viaggio in questo mondo, per festeggiare la mia partenza, vi racconterò la storia di Nove. Per scrivere ho scelto un luogo a lui molto caro, un luogo della sua memoria (per essere poetici): una vecchia scuola figlia dell'ultima dittatura di questa patetica nazione.
Standomene qua seduta a scrivere, ogni tanti penso a quante volte si sarà trovato lui in questa stessa situazione: la notte davanti alla vecchia scuola. E mi scopro a sorridere di un periodo circolare che finisce ma non si sa bene quando cominci...
Davanti alla vecchia scuola c'è un albero rinsecchito. Spunta dalla sommità di un alto muro con i suoi rami ricurvi come le dita di un vecchio: quale magnifico spettacolo! Come si può non adorare la notte spettrale!
L'ironia vuole che proprio di cose rinsecchite si occupasse ultimamente il patetico Nove.
Vi prego di non volermene se qualche volte offenderò il decoro, la morale, la religione o l'etichetta politically correct... Io non sono il diavolo, ma di certo
non sono un tipo fanciullina verde pesca: capite cosa intendo? Come ci fossimo conosciuti io e Nove è una storia lunghissima, che lui non può ricordare e che
io sorvolerò. Questa mancanza non verrà mai risarcita, ve lo prometto, e quindi quel che nascondo
rimarrà segreto ancora per un po'! Nove è stato "chiamato alle armi". Io c'ero quando
l' hanno chiamato al telefono per chiamarlo alle armi, lui non poteva vedermi, ma io c'ero. «Si presenti domattina per ricevere il suo nuovo incarico. Sono richieste carta d'identità, libretto sanitario e numero
quattro fotografie in formato tessera per poterla identificare.» Quanto risi quel giorno. Nove chiamato alle armi! Certo, voi non potete cogliere l'ironia della situazione. Tanti giovani vengono chiamati alle armi ogni giorno che Dio manda in terra, ma proprio Nove...eccolo là, uno dei tanti! Quella fu la
prima prova che lui era come tutti gli altri. Questo complicò molto la situazione per Nove.
Vedete, lui era occupato, preso a far niente. Ma faceva quel niente pesante e faticoso, doloroso che nessuno vuole farlo. Faceva un lavoro non retribuito, non riconosciuto e senza prospettive di avanzamento o pensionamento. Questo
faceva. Ma al Governo di questa Nazione (precedentemente aggettivata nell'unico modo consono), queste cose non interessavano. Non bastavano. Non ne voleva sapere niente, così come non voleva sapere niente di tutto quello che un giorno avrebbe potuto minacciarlo. Magnifico! Magnifico!
Mai Nove avrebbe potuto immaginare questa evoluzione. Ed io, io che ero la sua musa ora scrivo
di lui. Ops, Dimenticavo le presentazione. Che maleducata... Il mio nome è Diana, ma molti di voi già mi conosceranno. Odio il prossimo mio almeno quanto lui odia me. Quindi odio tanto, ne converrete. Sono il mostro, il diverso. Mi piace dirigere nell'ombra ed osservare la decadenza delle cose più disgustosamente belle. Tutte le volte che Nove ha scritto su di me ha tentato di farmi innamorare di qualcuno... con scarsi risultati. Non mi piacciono gli esseri umani. Avrei voluto avere una forma terrificante ma
quel debosciato romantico m 'ha voluta come una donna, umana - o meglio - antropomorfa...Eppure per Nove provo una specie di affetto, più che altro l'abitudine mi riconduce
periodicamente da lui. Ora poi che passa tutto il giorno ad aspettare la sera e desidera solamente la libertà come se non si ricordasse più cos'è realmente la libertà!
«Sta attenta a quel che desideri perché prima o poi potresti ottenerlo!» Mi diceva.
«Bevi, vecchia spugna. Immaginati fra trent'anni vecchio ed ossuto, coperto di sporco e santo come un dio dell'antica Grecia.»
Nove sta tentando di uccidersi. La vita la vuole divorare fino all'indigestione: sta tentando di morire d'indigestione di vita.
Io non riuscivo a vederlo così, non riuscivo proprio.
Nove era il male, più sinistro di qualsiasi altra cosa. Era il mio adorato, il mio preferito. Non capivo cosa gli fosse accaduto. Cosa avesse pensato per diventare così "normale". Nove era diventato borghese! Ammetterete che per una come me stare accanto ad un tipo così non è facile. Così lo lasciai alle cure amorevoli della sua compagna: priva di qualsiasi malvagità (avrei dovuto cominciare a
sospettare qualcosa quando se ne innamorò...). Cosa ci trovava in quella bionda non lo capirò mai! Era sempre così sincera, a volte faceva persino fatica a comprendere la sua solita satira... e senza la satira pungente, l'ironia e la
cattiveria come difesa cosa poteva fare Nove? Ma io a questa storia non ci stavo proprio. Un bel giorno
l' ho piantato in asso senza dirgli nulla e me ne sono andata! Ogni Musa ha una sua dignità. Io non ho mai ispirato zucchero e miele
a nessuno, se voleva fare "il buono" doveva rivolgersi alle mie colleghe con le penne di colomba sopra le parti intime!
E poi ero convinta che non avrebbe resistito un anno senza vedermi...
Non compresi mai come fece a dire addio a me, alla Città ed alla magia della notte. Perché alla fine, non posso ignorarlo, fu lui che tagliò i ponti molto prima che io ed il resto del carrozzone ci decidemmo a partire. Feci molta strada, ero giovane. Lo sono sempre stata e lo sarò per sempre. Per qualche tempo tornai al Limbo, da dove ero venuta. Facevo le solite cose: i poeti che s'innamorano, io che scompaio e loro che si struggono ma non si suicidano.
Mi sembrava d'esser ritornata ai vecchi tempi di Goethe. Era molto diverte. Molto eccitante ed
io adoro illudermi che accada sempre qualcosa di nuovo per cui convenga sopravvivere.
Tanto più che io non "vivo" nel senso stretto della parola, ma non dirò altro in questo senso. Stanca anche del Limbo, dei nuovi cannibali - comodi e spaventati dall'idea di essere tutti nazisti - viaggiai in treno verso la terra dei magiari. Praga, la città del mio cuore. La città dove il grano si usa per fare la birra e non per tirare a campare col pane. Quanto avrei potuto sopportare anche questa dannata città?
Ormai di uomini ne avevo conosciuti troppi. Non c'era più nessun mortale interessante da conquistare, da condurre al male. Quando ormai stavo per cedere allo sconforto conobbi K.
-II-
K OVVERO L'IPOCRISIA PRAGHESE
Praga, la città degli scheletri. La città magica, misteriosa. Mancavo da Praga da anni ma mi sembrava di non averla lasciata mai. I nomi delle strade, i cartelli, le indicazioni tutte quelle parole scritte in quella lingua
incomprensibile e segreta. Non conosco nessuno che conosca il magiaro. K, per esempio, non lo conosceva per niente. S'ostinava nel sostenere d'essere nato in un paesino vicino la capitala. Ma non aveva un vero
nome e non s'era preso la briga d'inventarsi un cognome. A volte pareva il personaggio di un
libro non concluso che attende d'essere battezzato definitivamente. Questo pareva K. Ed oltre che per la questione del nome, era romanzesco per molti altri motivi. A volte pensava
ma non diceva, o diceva senza pensare come se ci dovesse essere qualcuno al di fuori che doveva
completare con le parti mancanti il testo finale. Ma nessuno, naturalmente, si prendeva la briga di scrivere in aria in corsivo i suoi pensieri.
Nessuno marcava con le virgolette le sue "battute epiche". Questo a K non glielo dicevano...
Era circondato da uno sparuto drappello di pochi "amici" (la cui descrizione vi risparmio per
non tediarvi oltre...). Due, tre, a volte quattro... Si ritrovavano. Andavano a bere in birreria.
Quando erano da troppo tempo "medi", s'ubriacavano per vedere se c'era qualcosa di cui
rattristarsi. Qualcuno faceva il prepotente, qualcun altro subiva le sue prepotenze. Così aveva deciso di
vivere il giovane K. A volte, quando ripenso a lui, mi dico: «È impossibile che quel ragazzo sia realmente una
citazione vivente di Kafka... un tributo malriuscito allo spirito del grande Kafka... è
impossibile che quel ragazzo non s'accorga di non esistere realmente, di non essere mai nato.»
Poi, come mi succede spesso, qualcosa mi rapisce da questi pensieri noiosi. Io odio la noia.
Odio le persone noiose e tutto quanto possa in qualche modo annoiarmi. Comunque, K aveva una compagna: Mary. Non era inglese e nemmeno americana, semplicemente i
suoi genitori odiavano i russi e la gente che aveva governato Praga prima della rivoluzione di
velluto. Quindi, appena poterono, smisero di chiamare la loro bambina Natasha e cominciarono a
chiamarla con orgoglio Mary! Capirete quindi che bella coppia di simboli erano quei due. K odiava il capitalismo, il
qualunquismo, la massificazione, la globalizzazione, la TV, la musica pop, la borghesia, il
matrimonio, l'ignoranza, l'esterofilia ma inspiegabilmente amava Mary. Io non mi misi in mezzo. K non mi piaceva e non mi piaceva nemmeno Mary, ed a volte riesco a
rinunciare al gusto della seduzione. O forse non m'intromisi perché assaporavo già la
conclusione il progetto ampio che vedevo alle loro spalle. K era un artista. Uno di quegli artisti che vorrebbero saper fare tutto quello che la gente
comunemente chiama arte ed inoltre pretendono d'insegnare al mondo a riconoscere l'arte che
ancora non ravvisa. Molto diverso insomma dagli altri artisti che ho tormentato in precedenza. Di solito venivo evocata da scritto o musicisti. Gente che dava tutta la propria anima alla
propria disciplina e non pensava di fare altro. Ma c'è sempre una prima volta!
All'inizio non voleva parlarmi. Mi considerava figlia dell'immaginario occidentale. Non ero
nata nelle campagne o nei raparti di qualche officina. Non potevo essere utile ai suoi compagni,
che non chiamava compagni perché è una parola fuorviante. Così non mi parlava e m'ignorava. Mary, invece, vedendomi cominciò a rifiorire. Da piccola,
insipida ragazzetta dell'Est divenne una donna di mondo cosciente di quello che era. Era convinta d'avermi solamente sognata...
Cominciò a cercarmi nei quadri, nelle fotografie delle riviste. Passava i pomeriggi nelle
librerie alla disperata ricerca della mia immagine. Così, accidentalmente, venne a contatto con
la letteratura. Ma, soprattutto, col fashion. Lei non sapeva neppure cosa fosse il fashion. Nessuno a Praga lo sapeva: era una parola che si
usava per darsi un tono da intellettuali alla moda. Sul Ponte Carlo ogni tanto, origliando le
conversazioni, la sentivi saltar fuori tra i richiami dei pittori e le urla dei saltimbanco.
Mary cominciò a fare fashion. Cominciò a creare e creò se stessa. La prima cosa che progettò
fu il suo volto. Si voleva magra, con gli zigomi duri, la fronte fiera, le labbra belle ma
decise e gli occhi neri e non pallidi come quelli di tutte le altre ragazze dell'Est. Così si voleva e così, lentamente, divenne. Una donna così affascinante che, di colpo,
spaventò il giovane K. Il "superiore", filosofico K che si copriva gli occhi per non vedere se la
ritrovò così diversa che non poteva più ignorarla. Ricordo fosse un pomeriggio in centro, per strada. Lei lo attendeva paziente, lui quando la
vide rimase a bocca aperta. Lei sorrise arrossendo. Lui: «Sei impazzita ad uscire così, io mi vergogno!»
Lei scoppiò a piangere e quella giornata finì così. A questo punto decisi di capire perché K fosse così incredibilmente intransigente.
Cocciuto di una cocciutaggine che solamente uno stupido poteva possedere.
Lo seguii per diversi giorni. Non tentai di parlargli e di farmi vedere da lui. Rimasi nell'ombra.
K si alzava alla mattina e leggeva e studiava, scriveva e dipingeva fino a sera fermandosi ogni tanto per mangiare. Questo faceva. Chissà perché un tipo così m'aveva evocata? D'accordo io,
per puro caso, mi trovavo dalle sue parti, ma perché evocava proprio me? Un giorno, per divertirmi, gli scrissi sullo specchio del bagno: TU NON ESISTI.
Lui si limitò a radersi senza leggere il messaggio. Forse sapeva? Beveva vino e birra, ripensava con affetto alla campagna dalla quale diceva d'essere venuto.
«Non ti preoccupare...» Gli sussurravo prima che s'addormentasse. «Tornerai presto alla tua terra...»
Lui sorrideva. A volte si sognava, vestito da frate, con i sandali ed i passerotti che gli svolazzavano attorno. Innaffiava dei fiori e recitava qualcosa da un libro in latino. È passato così tanto tempo... il latino non
l' ho mai digerito, nemmeno allora! Mi stufai di quell'indagine molto presto. Non portava a niente ed era estremamente noiosa.
Mary, invece, sembrava troppo affezionata a K per abbandonarlo. Si lasciò deperire. Abbandonò i suoi desideri e smise di pensare al fashion come all'atto della creazione. Non avrebbe mai messo al mondo nulla di quel che aveva pensato. Sfinita dal sogno praghese me ne tornai alla Città.
Io, sapete, sono sempre molto richiesta, ma ho pur sempre un unico padre. Un unico amante al quale tornare. L'ironia vuole che proprio quell'uomo non ha più bisogno dei miei servigi.
-III-
METAMORFOSI
Sulla Città si cala attraversando uno strato denso di nubi. Quando la luna è piena sembrano tutte dipinte di blu scuro. La Città è un eterno coro funebre, di bambini tutti scomparsi e mai più ritrovati.
Nove era uno di loro. Erano tutti scomparsi assieme. Erano scappati e non erano mai più tornati
a casa. Si credevano tutti invincibili. Stando assieme, pensavano di poter sconfiggere persino la Morte.
Ma la Morte ha uno strano senso dell'umorismo. T'inganna, ti prende per il naso. Tu che ti credevi il più furbo comprendi solo alla fine quanto sei stato ingenuo.
Illuso Nove non lo era più. Troppe cose aveva visto ed ora non voleva veder mai più.
Scarrozzava, s'era detto, per la Città trasportando vecchi.
Ma la sera era triste? No triste non proprio. Neppure malinconico. A volte, perfino, si sentiva buono!
Non potevo più vederlo ridotto in quello stato! Lui che hai bei tempi aveva fatto diventare verde d'invidia il gran capo del Sottoterra!
La mia mancanza non l'aveva neppure sentita ed io mi rendevo conto, rivedendolo, che quei mesi
passati lontani significavano qualcosa per me.
Non potevo certo dire di volergli bene, non vogliono bene le creature come me. Ma, infondo, se
anche fossi stata innamorata di lui, non avrei certo potuto capirlo visto che non avevo mai amato nessuno. Ah, che splendida carriera!
Era sereno. Nove era sereno con la sua amata ed io non rientravo più nei suoi desideri. Eppure
non ero invecchiata, bella come un tempo, indossavo i vestiti che lui mi aveva regalato. Li avevo sempre portati ma solo allora mi rendevo conto di averli sempre apprezzati soltanto perché era stato lui a regalarmeli.
Infondo io sono nata nuda. Nuda dovrei andare per il mondo a piegare la volontà degli uomini e
delle donne sfortunate. Ma che dico? Ormai anche io non piego neppure le dita. Sto scomparendo. Come ho scritto all'inizio di questa storia, il mio breve viaggio si sta per concludere. Il mio tempo s'è compiuto!
Chissà perché tra tanti che ne ho conosciuti proprio lui doveva diventare così
importante. Ecco: importante è la parola giusta! Importante per la mia stessa esistenza. Ma poi, che razza di esistenza è la mia? Me ne vado per il mondo a guidare i poeti e gli artisti verso la notte ed il lato oscuro dell'essere umano. Li conduco come Virgilio nell'inferno delle ipocrisie dei loro tempi. Mostro
loro tutto il marcio ed il malato della loro razza di scimmie. Indico loro, con professionale riservatezza, la bellezza oscura e decrepita del mondo.
Una volta un giovane jazzista, ammanicato col voodoo, mi chiese che razza di spettro fossi. Io non seppi cosa rispondergli e tuttora non lo so. Che razza di creatura sono? Forse solamente Nove conosce la risposta. Se solo avessi il coraggio di fargli la domanda giusta.
Una notte, mentre tornava a casa, fischiettando ricordò improvvisamente una canzone che ascoltavamo spesso assieme. Era un motivetto degli anni ottanta che lui aveva recuperato tra i tanti dischi, di uno dei tanti "grandi gruppi" di quel periodo, scomparsi nel nulla.
«Blu mare...» Sussurrò ricordandomi di sfuggita. Come non conosco l'amore, così non conosco la felicità e non so dire se quella notte fui felice o meno. Ma di sicuro provai qualcosa che non avevo provato
mai. Vederlo camminare con le mani in tasca e quel grosso giubbotto informe da minatore, la faccia sudata e scura, il cappello calato sugli occhi. Non sembrava neppure più lui. Nove
amava la raffinatezza, l'eleganza. Amava vestirsi con abiti classici, distinti - ma tutti
color nero. Non certo quell'accozzaglia di colori commerciali che si ritrovava addosso. La sua compagna, devo ammetterlo, era molto bella. Non come me, ma molto bella.
Ma la cosa che non le perdonavo era il fatto che era riuscita a fargli dimenticare il passato.
Qualche volta tentava di scrivere. Ma come poteva scrivere senza di me? Come? Eppure scriveva. Scriveva cose che io non comprendevo. Scriveva di un mondo dove era ammessa la luce ed il giorno, dove la gente può anche volerti aiutare senza un secondo fine. Questo scriveva.
All'inizio credevo si sforzasse di mentire, poi mi accorsi che era veramente convinto di quel che faceva.
Bravo Nove, inquadrato nella società! Ora farai famiglia e comprerai casa e ti troverai un buon lavoro per mantenere la tua televisione e la macchina!
Ma Nove famiglia la voleva veramente fare...Quella rivelazione mi fece piangere. Io piansi.
L'avevo perduto per sempre. Ormai non avrei mai più avuto un compagno, non avrei mai saputo che cos'ero. Un giorno, tanti anni prima di questa storia, lui mi promise che non m'avrebbe lasciato mai. Io allora pensai che non avrebbe dovuto farla quella promessa, perché si legava ad un mostro. Un mostro al quale non importava nulla di tenere prigioniero un povero sfortunato a se per tutta la vita.
Ma il giorno che mi fece piangere desiderai che Nove rispettasse la promessa.
Avrei potuto ricordargli il patto: era nei miei diritti (almeno così m'ero detta e convinta). Ma non ebbi il coraggio di farlo.
Così mi ritrovai ad essere una creatura vigliacca, piagnucolona, gelosa ed innamorata.
Di colpo il mio corpo mi divenne insopportabile. Immutata mi vedevo bruttissima, inadeguata.
La notte non m'obbediva più. La notte non obbedisce alle creature che temono la propria paura.
Io in quei giorni avevo il terrore di riscoprirmi una fifona. Eccomi tramutata in una donna mortale.
-IV-
VALZER DELL'ADDIO
Il Mondo dei Vivi, la notte di Natale. La Città s'è vestita di luci e festoni colorati. Gesù è risorto, la gente svende la bontà a basso prezzo - ma i Rolex d'oro sono sempre cari...La notte di Natale tutto sembra un po' più tragico. Il Salvatore che viene al mondo in una stalla, circondato da bestie davvero poco nobili. A volte penso a queste cose e sorrido della mia fortuna. Io sono sempre stata evocata in
ambienti intellettuali, disperati, molto raffinati ed eleganti. Ma forse non è tutto oro quel che luccica...Per la prima volta provo freddo. Questo è il primo inverno che provo freddo. A dire la verità
io non ho mai tremato in tutta la mia millenaria esistenza...Ho fame, mi sento come la piccola fiammiferaia. La gente mi guarda sospettosa. Sono diversa, straniera. Nessuno si ferma a chiedermi se m'interessano le sue poesie ora che non ho più il potere di ispirarne.
Mi fermo davanti ad una vetrina. Dei libri con belle copertine. Tanti colori e titoli pomposi. Per la prima volta sento corrispondere il dolore del gelo alla mia immagine riflessa. Ora percepisco i miei occhi come lo strumento vile che mi permette di vedere. Non sono più triste e bellissima: sono congelata, affamata, spaventata. Qualunque passante potrebbe buttarmi a terra e prendermi a calci senza che io possa avere la minima possibilità di resistergli. Mentre tutto questo prendeva forma nella mia testa, la neve cominciò a cadere silenziosamente.
Bianca. Smorta. Che cosa ero diventata?Ero cambiata allo stesso modo di Nove?
Cosa mi sarebbe accaduto? Non mi fidavo della gente. Non mi fidavo degli sguardi della gente. Ognuno di quegli sguardi poteva anche essere quello di un uomo o una donna pericolosi. Le persone sono possessive. Alcuni vogliono tutto ciò che vedono. Io lo sapevo bene, sapevo anche che non avrei potuto resistere in alcun modo all'imprevisto.
Potevo inciampare e rompere qualcuna di quelle nuove, fragili ossa che mi sorreggevano. Poi cosa sarebbe accaduto?
Un infarto? Già, ora avevo un cuore che si sarebbe potuto fermare...Un incidente con una di quelle maledette auto? Come potevo controllare tutta quella gente al volante? Come potevo proteggermi?
Non avevo soldi: con cosa avrei placato la fame?
Questa è, mi dicevo, l'esistenza tormentosa di ogni essere umano. Ognuna di queste formiche schifose deve sopportare costantemente questa condizione precaria. Vivere ogni giorno senza sapere se ce ne sarà un altro.Come potevano amare, creature simili. Come potevano dimenticare tutti i loro problemi per
dedicarsi all'Arte, ai figli, alla compagna, alla famiglia, agli amici... come? Con quale coraggio?
Fu allora che, ripensando al suo intuito, compresi quel che era accaduto a Nove.
Quel che accadeva a tutti quanti i mortali. Questo è il segreto e la morale della storia di Nove, che per farmi innamorare dovette farmi uscire dai suoi racconti.
Contento Nove? Ho finito di sparlarti alle spalle! La scuola silenziosa, il muro e l'albero dai rami ricurvi sono ancora dove sono sempre stati. Non ho distrutto nulla di questo mondo che tu ami tanto.
Ho capito. Non ti perdono, perché tu sai che sono egoista. Non ti perdono ma non ti biasimo per quel che hai fatto. Avevi ragione, sai...Avevi ragione quando mi dicevi che tutte le belle cose finiscono, anche quelle che sembra non debbano finire mai!
Ora il mondo del Sottoterra sarà un po' più triste senza di te... o forse dovrei dire allegro?
Bah! Come tu sai, e come ora sanno i destinatari di questo racconto, io non sono una creatura di
questo mondo. Pertanto non posso restarci in eterno senza uno scopo. Per questo motivo, decaduta alla mortalità o meno, è giunto il momento di tornare a casa.
A questo punto mi sono alzata ed ho cominciato a camminare verso il centro della Città, che è anche il suo cuore. Ho camminato per diverso tempo senza sentire un rumore. Pensavo solo al momento in cui non avrei più provato questa fastidiosa paura, così mortale.
Ogni ombra è una minaccia potenziale. I gatti sui tetti non sono più compagni ma spie di qualcosa che forse mi ha già
rimpiazzata. Eccomi all'incrocio al centro della città. Dicono che all'incrocio di due strade, se lo si sa evocare, a mezzanotte compaia il Diavolo. In parte è vero - cioè, niente Diavolo - ma la verità è che l'incrocio di due strade rappresenta l'eterna scelta tra bene e male, è una porta verso due futuri alternativi. Per voi
mortali sarebbe meglio scegliere con cura la strada da imboccare, ma io - ovviamente - la mia strada la conosco da tempo.
Ma quella notte, proprio mentre stavo pronunciando l'ultima invocazione, Lui comparve puntualmente a rompere le scatole.
«Di nuovo nei guai, lo sapevo...» Disse sarcastico.
«Ho la situazione sotto controllo, lasciami fare.»
«Non si direbbe tutto "sotto controllo"...» Mi accarezzò la pelle del volto.
«Infortunio sul lavoro, sono assicurata.»
«Cara Diana, era un po' che ti tenevo sott'occhio.» Disse sistemandosi le sopracciglia arcuate
e spigolose. «Il tuo rendimento è calato parecchio negli ultimi tempi.»
«"Rendimento"...» Una parola così schifosamente umana pronunciata da Lui!
«Come sai ho dovuto rimodernare tutto l'Inferno. La concorrenza, soprattutto quella umana, ci sta mangiando vivi...» Un sorriso ad allargare il pizzetto nero appuntito. «Ci serve gente nuova,
creature moderne che possano catalizzare l'attenzione delle anime moderne. Ci servono demoni da discoteca e diavolesse da banca... materiale di questo tipo.»
«Cosa vuoi dire? Arriva al punto.»
«Diana, tu mi sei più utile qui dove stai. Tra i mortali. Come spia, capisci?» Un altro sorriso ammaliatore. «Hai un grande intuito per la moda, basta vedere come ti vesti...»
«Stai scherzando, vero!? Non mi puoi far questo! Dopo secoli di duro lavoro. Abbiamo un contratto noi due, non ci sono clausole che prevedono quest'umiliazione.»
«Oh, su... andiamo...» Mi cinse con un braccio. «Lo so che una parte di te vorrebbe accettare immediatamente ma che stai tenendo duro per ottenere di più. Se non le capisco io certe cose!?
Dimmi cosa posso darti in premio per incentivarti nel lavoro... forse quel mortale, quel Nove:
potrebbe bastare?»
Nove tutto per me senza doverlo strappare dalla sua compagna...
«Esatto. Tutto per te, lo vuoi?»
«No, se fosse un tuo regalo non m'interesserebbe più...» Mentii.
«Allora chiedimi qualsiasi cosa, ma in fretta perché ho una riunione col direttivo tra dieci minuti. C'è quel bischero di Belzebù col suo compare Astarotte, fanno scompisciare e non me li voglio perdere...»
«Voglio la notte.»
«Cosa?»
«Voglio poter lavorare solo la notte. Per il resto della giornata voglio poter essere libera di vivere come una comune mortale senza la supervisione di nessuno.»
«"Part-time"...Mmm, è una richiesta insolita. Percepisco un che di buono...» Marcò con disgusto l'ultima parola.
«Ma ormai la strategia di mercato dell'Inferno è questa: facciamo di
tutto!»
«Accordato?»
«Accordato. Il mio numero di cellulare ce l' hai, io ho il tuo... in caso di problemi chiamami.
Ma non fare come i vampiri che mi chiamano ogni momento per raccontarmi i loro complessi: io non sono uno psicologo!»
Scomparve nella sua classica nube di zolfo.