DEJA VU…
di
Cucciolo
L’AUTOBUS
24
Novembre.
Era un po’ contrariato, avrebbe preferito andare a scuola
col suo scooter, ma la pioggia lo aveva costretto dentro quell’autobus. La
mattina era grigia e le gocce che sbattevano violentemente sul vetro sbiadivano
tutto lo sfondo. Sembrava che il mezzo stesse portando lentamente tutti i
passeggeri all’altra sponda dell’”Acheronte”, tanta gente pensierosa,
con le stesse spalle che pur in uno spazio così stretto cercava di non
comunicare con gli altri poveri dannati, tutti accomunati da uno sguardo quasi
annoiato. C’era chi studiava, chi sonnecchiava e chi purtroppo era addetto a
guidare quell’autobus dal paese fino alla città. Le frenate si susseguivano
noiosamente e le accelerate scuotevano tutti i passeggeri costretti in piedi.
Non mancavano i discorsi tra i più anziani che, con la loro flemma senile,
scherzavano sulla partita di ieri o sui biscotti bruciati in forno. Dario era
seduto nella prima fila di sedili e con il bavero della giacca si riparava dal
cattivo odore dell’uomo che gli stava accanto. Era un anziano, barba bianca ed
ispida, pochi capelli, occhi azzurri scoloriti. L’alito della mattina era un
po’ pesante sulla bocca di quel vecchio e Dario se n’accorgeva ogni secondo
sempre di più. Finalmente arrivò la sua fermata e lui di gran carriera scavalcò
agilmente l’anziano e saltò fuori dall’autobus che stava già ripartendo.
“Se il
buongiorno si vede dal mattino…”. Dario si ritrovò tutto inzuppato a
percorrere la strada che lo separava dalla scuola, sotto una pioggia spessa e
battente. Mezz’ora di ritardo: “Meglio del solito!” esclamò
sarcasticamente contento tra se Dario e fece per entrare dal cancello
principale. Il bidello addetto alla sorveglianza lo guardò con un’aria di
compatimento e quasi con disprezzo gli aprì la porta a vetri. Dario, dopo aver
imboccato il lungo e buio corridoio, che lo avrebbe portato alla sua aula, alzò
il dito medio sventolandolo contro il bidello e mormorando quasi sotto voce: “
Vaffanculo sporco ignorante e pezzente di un bidello stronzo!”. Ancora una
rampa di scale, salita rigorosamente tre scalini alla volta e si ritrovò dietro
la porta sgangherata della sua aula. Si fermò ad origliare e come al solito la
professoressa d’inglese era già in classe che parlava quel suo fottutissimo
inglese sperando che quei poveri diavoli dei suoi alunni capissero qualcosa. Non
aveva assolutamente voglia di sorbirsi due ore di lezione e magari una ramanzina
per non aver studiato il capitolo su “Re Artù”. Rimase ancora un po’
dietro la porta, ma tolse l’orecchio dal legno marcio vicino al buco della
serratura. Era in piedi, col peso del corpo spostato sulla gamba destra, mentre
col piede sinistro batteva il ritmo di una melodia immaginaria, ora col tacco,
ora con la punta. Si guardò intorno, sfilò una sigaretta dal pacchetto
inzuppato e la impugnò come fosse una pistola. Si poggiò al muro, vicino
l’angolo che dava verso la cabina del bidello, poi scattò fuori come per
prenderlo di sorpresa e farlo fuori con la sua “arma”, ma quello era sotto
la tettoia del piano terra a leggere chissà che. Soddisfatto della sua azione,
ritornò dietro l’angolo e accese quella benedetta sigaretta. L’assaporò
fino al filtro, poi entrò in punta di piedi nel bagno dei professori e gettò
con due dita il mozzicone nel water. Era passato appena un quarto d’ora e
Dario aveva finito le idee per non entrare in classe. Portò ancora l’orecchio
alla porta. La vecchiaccia stava facendo svolgere un esercizio di “listening
and repeat”. “Niente di più irritante” pensò fra i denti Dario e con un
movimento annoiato, tutt’altro che sicuro fece per aprire la porta. La
maniglia scattò e nello stesso istante un tuono impetuoso rimbombò in tutto il
corridoio e il contatore generale scattò portando con se l’elettricità.
Il
bagliore del lampo seguente scoprì la sagoma magra ed alta di Dario.
“Buongiorno professoressa Iuculano, bella giornata, vero? Chiedo
very scusa for my ritard!” La poveretta, quasi in crisi cardiaca per il
boato generato dal tuono, accolse le sue scuse facendo un cenno con la testa e
lo invitò a prendere posto nel suo banco. Dario con fare spavaldo si avviò
verso il suo posto, occupato dallo zaino della compagna di banco. “Togli
quella merda dal mio posto, troia!” La poveretta, anche lei ancora ansimante
per lo spavento, abbassò lo sguardo e velocemente tolse zaino e cappotto dalla
sedia di Dario. Laura Di Stefano era una ragazzetta bassa di statura, magrissima
anche se proporzionalmente ben formata, bionda con due occhi azzurrissimi ed
espressivi. Si era trovata accanto a Dario per disgrazia. Infatti, al primo
giorno di scuola, arrivando in ritardo, trovò libero soltanto quel posto
accanto alla finestra. Dario era “leggermente” interessato a lei e, pur non
dimostrandolo in maniera ortodossa, le voleva un gran bene. “Per favore
traslochi quella tua massa schifosa dalla mia parte di banco? Grazie
imbecille!” La poveretta ancora una volta ubbidì timorosamente. Lui non era
proprio un ragazzo per bene e Laura non osava neppure pensare di potergli
chiedere di smettere di ruttare. Dario, dopo l’ultimo rutto, esordì verso la
classe: “Visto che non c’è la luce, non potremo proseguire il “lista-del-ripit”!
Propongo di darci all’amore libero! e gettò le sue braccia sulla povera Laura
che stringendo le spalle e chinando il capo, cercava di sgattaiolare fuori dalla
morsa di lui. La professoressa intervenne con il suo solito, fastidiosissimo
colpetto di tosse acutissimo: “Silent please! Dario, smettila di stringere a
quel modo Di Stefano!”. Lui quasi nell’atto di baciarla, s’interruppe e la
guardò ammiccando come a dire: “Ti aspetto fuori!”. Il silenzio fu
recuperato e la professoressa, vista la mancanza d’elettricità, decise di
interrogare sulla lezione del giorno…”Chi mi ripete <<Re Artù e i
cavalieri della tavola rotonda>>? Ok, vieni tu, Dario!” Replica: “Ma
porcaccia miseria, come cazzo fa questa stronza a sapere che non ho aperto il
libro ieri pomeriggio? Senti prof. Chiama un altro, io c’ ho mal di
test….mal di test…icoli!” La classe scoppiò prima in una grande risata,
subito dopo in un silenzio di terrore ed attesa. La professoressa, quasi
spaventata da quel linguaggio così scurrile, scese col dito sul registro di
classe e chiamo il povero Totò Seminara alla cattedra…
Le 11:10.
La sirena suona e le porte delle classi si aprono quasi contemporaneamente.
Dario con il suo solito fare da spavaldo, da sborone del cazzo, prese il comando
della lunga fila di ragazzi affamati e spossati dalle prime tre ore d’inferno.
“Tutti al bar bestie!” gridò e si avviò corricchiando verso l’uscita.
Tappa fondamentale, prima della colazione era la bellissima ragazza della III D.
“Ciao bonazza, quando ti decidi a darmela, io sono qui, mi sto per eccitare
veramente!” La ragazza imbarazzatissima gli voltò le spalle e abbassando la
minigonna in senso di pudore, quasi di vergogna, si avviò verso il cortile
della scuola.
Era un
buco buio e puzzolente di frittura. Zio Ciccio, il titolare del bar della
scuola, era un omino grassoccio, una corona scarna di capelli attorno alla testa
e un paio d’occhialetti con la montatura verde. Lo trovarono che correva da un
capo all’altro del locale con una scopa in mano. D’un tratto, mentre tutti
assaporavano il loro insipido pasto, fritto sempre con lo stesso olio ormai da
due settimane, sbuca da un angolo una coda lunghissima che scappa
disperatamente. Il colpo di scopa di zio Ciccio scoprì un topone grigio, per lo
meno obeso. Il sangue schizzò in tutto lo zoccoletto del muro. Silenzio di
tomba nel bar. “Che cosa guardate? Continuate a mangiare i vostri panini! e
portò via il topino in una paletta sudicia.
“Ha
smesso di piovere! Rimangono cinque minuti ragazzi, rilassatevi, tanto ora
abbiamo educazione fisica!”. Dario si accese un’altra sigaretta e si poggiò
al muretto che dava sulla campagna che circondava la scuola per tre dei suoi
lati. Tirò un grosso respiro sperando di dimenticare il tanfo di frittura del
bar e si accorse che stava inalando un tremendo odore di cavolfiori. Scoppiò in
un colpo di tosse grassa, vibrante che gli scosse il petto. Prese l’occasione
al volo e con il muco raccolto in bocca durante la tosse, sputò una palla di
saliva enorme al di là del muretto. Gli si avvicinò Totò Seminara: “Ti ho
salvato il culo oggi con la Iuculano, come minimo adesso mi offri una
sigaretta!” Dario, lo degnò appena di uno sguardo, poi prese il pacchetto con
le ultime due sigarette. “Mm… Mi dispiace Totò, ne ho solo due, però ti
devo dire una cosa, sinceramente: VAI A FARTI FOTTERE!”. Poche boccate ancora
e la sigaretta finisce dritta in una pozzanghera. La sirena suona: “ Bene
ragazzi, possiamo tornare a rompere le pietre e dopo per ricompensa una doccia
nella camera a gas!”. Entrarono scomparendo lentamente nel buio del lungo
corridoio.
La
professoressa Li Causi aveva già cominciato la lezione. Dario con la sua solita
camminata dondolante e flemmatica, entrò in palestra, calpestando la moquette
di gomma con i suoi stivaloni dalla punta di ferro. “Scusa proffa, sono andato
al cesso a far prendere aria alla “proboscide”. La professoressa lo guardò
con la coda dell’occhio e poi girandosi lo squadrò per bene da capo a piedi,
anzi stivali…Stai infangando tutta la palestra, perché non hai la tuta? Ti
metto due e ti faccio bocciare!” Dario la guardò fissa negli occhi e
squadrandola pure lui da capo a piedi le rispose: “Azzo, come sei bella oggi,
ce le hai le mutande sotto quei fusò?” La povera Li Causi, tutta rossa di
vergogna e rabbia lo guardò con disprezzo e fece per cacciarlo ma: “Ops,
tasto dolente prof? Non ce le ha le mutandine vero?” e avvicinandosi di scatto
le calò i pantaloni neri aderenti scoprendo effettivamente le nudità della
professoressa. Beccatosi il suo bel rapporto sul registro (e chissà come mai
soltanto quello e non qualche provvedimento più serio), Dario uscì dalla
palestra tra le risa dei compagni e la vergogna della professoressa e tornò
fuori, nel cortile a fumare una delle due sigarette rimaste nel suo pacchetto
inzuppato di pioggia.
La
professoressa Li Causi era una ragazza giovanissima, fresca, alla sua prima
cattedra da titolare. Aveva ventiquattro anni ed era una bellissima donna,
capelli neri, occhi verdissimi ed un fisico bestiale. Il primo giorno di scuola
Dario non aveva neppure immaginato che quella fosse la sua nuova professoressa
d’educazione fisica. Lui ci rimase male quando lo scoprì e da allora ha
sempre cercato di “abbordarla” in tutti i modi. La domanda di Dario sulle
mutandine non fu casuale quella mattina. Infatti, lui in una delle sue infinite
passeggiate per gli antri della scuola i primi giorni dopo l’arrivo della
nuova insegnante, s’imbatté nello spogliatoio dei professori. La porta era
socchiusa e Dario cercò di guardare se riusciva a scorgere la professoressa Li
Causi. La fortuna volle che riuscì a vederla bene, forse troppo, mentre la tuta
da ginnastica la scopriva senza nulla sotto. Niente biancheria intima, ne altro.
Rimase pietrificato mentre La Li Causi si infilava rapidamente un abito
piccolissimo e trasparente e completamente nuda sotto dopo essersi un po’
toccata qua e là, si avviava verso la porta, dove c’era lui quasi in estasi.
L’incontro fu inevitabile e Dario prese subito al volo l’occasione per
ricattare la poveretta. Il ricatto svanì proprio quella mattina quando Dario
denudò davanti a tutti la Professoressa e di conseguenza si ritrovò con
l’undicesima nota di demerito sul registro in un mese.
Anche i
mozziconi delle due sigarette del pacchetto inzuppato finirono in una
pozzanghera nel cortile della scuola. La sirena indicava l’inizio
dell’ultima ora di lezione. L’ultima ora di scuola è già pesante di per
se, se poi c’è lezione di matematica, il cervello fonde prima che questa
inizi. Era questa la convinzione di Dario che, tenendo stretta tra le braccia la
povera Laura, iniziò a cantare una famosissima canzone di Battisti: “Capire
tu non puoi, tu chiamale se vuoi…EQUAZIONI! Risata generale e poi tutti sopra
i libri a far finta di aver capito qualcosa.
La sirena
stile “campo di concentramento” suonò per l’ultima volta quel giorno e
tutti i ragazzi, le stesse spalle, gli stessi zaini, le stesse facce, si
spingevano tra loro come impazziti, per guadagnare l’uscita e poter scappare
via. Dario vide sparire pian piano la sagoma di Laura Di Stefano e con il volto
cupo si avviò verso la fermata dell’autobus che l’avrebbe portato nella sua
tranquilla periferia. Lo sguardo divenne triste, i pensieri gli passavano piano
davanti gli occhi come una processione funebre e ritornava quella terribile
sensazione di essere un inutile, fallito essere umano. L’autobus ripartì
lasciando giù Dario, che pian piano, con un po’ di tristezza, si avviò verso
casa. Le scritte sui muri… Ne aveva fatte tante nella sua vita, ma mai era
riuscito a scrivere le iniziali del suo amore. Nei muri, nelle scale della
chiesa di paese, nei lampioni della luce tante coppie avevano lasciato un segno
indelebile della loro unione che non sarebbe durata più di un mese. Scosse le
spalle, come per scrollarsi di dosso la malinconia e accelerò il passo. Tante
coppie sul muretto della ferrovia, che si stringevano forte e si sfinivano il
cuore di baci. Quante promesse d’amore per l’eternità, quanti baci e ore
sprecate a non far niente, a cercare soltanto di stare accanto. Dario, solo,
continuava a ripararsi dal freddo e dalla vista di quelle coppie di bastardi che
infierivano sulla sua solitudine. Poca strada ancora prima di potersi chiudere
nella propria solitudine…
Arrivò a
casa e non guardò neppure il pranzo che la madre gli aveva lasciato nel forno,
prima di andare al lavoro. Accese la televisione: telegiornale. “Chi ci
capisce più niente di questa guerra? La gente si ammazza, si travolge con gli
aerei, si contamina d’antrace a vicenda. A chi non ha la forza per guadagnarsi
la libertà, viene imposta una libertà forzata, non c’è niente da
fare…”. Spenta la TV, Dario avanzò lentamente, ciondolando, verso la sua
camera. Mandò a quel paese la sua immagine riflessa sullo specchio ad angolo
del corridoio, che lo guardava fisso in controluce ed entrò in camera. Con
movimenti lenti e pesati staccò la fascia della sua chitarra dalla stessa e
salendo sullo sgabello del pianoforte, attaccò il nastro di tessuto ruvido in
cima al lampadario semi-sferico. L’immagine offuscata in lontananza di Laura
Di Stefano, la sua sagoma che si allontana, poi la nebbia copre il salto nel
vuoto. Tutto buio…
…Era un
po’ contrariato, avrebbe preferito andare a scuola col suo scooter, ma la
pioggia lo aveva costretto dentro quell’autobus. La mattina era grigia e le
gocce che sbattevano violentemente sul vetro sbiadivano tutto lo sfondo…
“Ma
questo mi è già successo, possibile?” Esclamò Dario “ripercorrendo, sotto
una pioggia spessa e battente, la strada che lo separava dalla scuola…
…Il
bidello addetto alla sorveglianza lo guardò ancora con un’aria di
compatimento e quasi con disprezzo gli aprì la porta a vetri. Dario, dopo aver
imboccato il lungo e buio corridoio, che lo avrebbe portato alla sua aula, alzò
il dito medio sventolandolo contro il bidello e mormorando, come già gli era
sembrato di aver fatto, quasi sotto voce: “ Vaffanculo sporco ignorante e
pezzente di un bidello stronzo!”…
...
“Buongiorno professoressa Iuculano, bella giornata, vero? Chiedo
very scusa for my ritard!” La poveretta, quasi in crisi cardiaca per il
boato generato da un tuono, accolse le sue scuse facendo un cenno con la testa e
lo invitò a prendere posto nel suo banco…e ancora una volta…“Togli quella
merda dal mio posto, troia!” La poveretta, anche lei ancora ansimante per lo
spavento, abbassò lo sguardo e velocemente tolse ancora una volta zaino e
cappotto dalla sedia di Dario.
…ancora
lo stesso copione per la ricreazione, lo stesso topo grigio e obeso da “zio
Ciccio”, la stessa lezione d’educazione fisica, ancora l’ultima ora di
matematica, l’uscita, il ritorno a casa, il TG che parla della guerra, la
fascia della chitarra, lo sgabello, la sagoma di Laura che si allontana nella
nebbia.
Accanto al
letto, sul calendario elettronico della radiosveglia… il 25 Novembre…