ALDILA’ DEL BENE E DEL MALE

 di Giovanna Mulas

 

“Regalatemi il mare

per conoscere l’uomo.

Io sono un  Mare.”

(G. M.)

 

 

 

 

      Aldilà del bene e del male, del giusto e dello sbagliato,del silenzio e del rumore, dell’oro (giusto, caldo e prezioso chè raro, contemporaneamente ed emblematicamente fonte di peccato; vanità, lussuria) e dello sbagliato, rustico e improbabile bronzo; nonostante fuso a ciò che è e rappresenta la tradizione, l’atavico. La pietra stessa, dogma dello scorrere dei tempi, della conoscenza del sé e dell’attorno; riporto inconfutabile alle teorie escatologiche, alla coscienza e autocoscienza dell’uomo.Ma sempre pietra, immobile e fredda (richiamo alla morte), ovunque presente e comune, priva di psiche e quindi fondamentalmente, per l’umana creatura; sbagliata. Aldilà del bene e del male. Chi o cosa sancisce il confine, quella sottile linea di demarcazione tra ciò che è bene e ciò ch’è male?Chi se non la morale comune rappresentata da colui o colei che, chiunque sia e già in sé, porta per natura il bene come il male?Secondo Hemingway “è morale ciò che ti fa sentire bene dopo che l’hai fatta, immorale ciò che invece ti fa sentire male”. Giusto e Sbagliato.Le tre Gorgoni figlie di Ceto e Forco: Stenno, la forte, Euriale; colei che salta lontano, Medusa, male allo stato puro. Pietra e serpi, ali d’oro e mani di bronzo.Eppure, donne simbolo di solitudine dolorosa (Occhi di Medusa.Ancora pietra. Cosa è simbologicamente più solitudine d’ una pietra? Quell’eterno “non sento-non vedo-non parlo” che potrebbe però essere tradotto in un meno prosaico “vedo e faccio finta di non vedere.Non sento ma ascolto tutto e so tutto comunque.La conoscenza stessa è in me. Pare che io non parli ma ispiro, e da mani umane mi lascio plasmare,io pietra. Modellare fino alla metamorfosi finale,da bruco a farfalla, da pietra a Pietà. Ecco che, infine, anch’io parlo.E parlo per l’eternità com’è eterna l’arte”.Le tre Gorgoni dalle ali d’oro. Streghe, arpie,regine dei serpenti ma con ali d’oro tipiche degli angeli, creati in stato di grazia ma con facoltà di scegliere tra il bene e il male, intermediari tra Dio e gli uomini,circonfusi di luce. Le Gorgoni; il buio. Donne che, con la loro bruttezza ( brutto = sbagliato ) e grettitudine d’animo figurano il male eppure, tramite le ali d’oro, paradossalmente in grado d’innalzarsi al male.L’uomo, per natura, è portato a disprezzare chi lo blandisce e ad ammirare chi non si dimostra condiscendente. Io,Medusa, muto in pietra chi possiede l’ardire di fissarmi negli occhi, sfidare la mia mostruosità.  Lo faccio per difesa.Ti trasformo in pietra.Carpe diem. Colgo l’attimo e lo fermo.Ma ti concedo comunque di vivere in eterno, come eterna è l’arte; affinché io non venga trasformata, ferita dal disprezzo e dalla compassione del tuo, di sguardo e affinché tutti possano ammirare te, pietra, in eterno,che non puoi però manifestamente godere di tale ammirazione.

Reputo interessante, in letteratura, l’eterno conflittuale tra amore/vita dell’ “Amiamoci l’un l’altro”, del “Vissero tutti felici e contenti” (il bene,il giusto) e l’amore/ morte, l’Eros-Thanatos ( il male? Sbagliato?). Curiosa resta la fusione degli elementi succitati e presenti in The tragedy of Romeo and Juliet (1594-95) di Shakespeare,(e come non citare, in tale sede, l’Otello; opera appartenente al così chiamato “periodo nero” della produzione dello Shakespeare,a quella fase cioè in cui più intensi divengono dramma,disperazione e solitudine nei protagonisti lacerati da sentimenti sconvolgenti); scrittore “di rimanenza e ritorno” a distanza di tempo e a dispetto del mutare dei gusti letterari e sociali. Romeo e Giulietta rappresentano l’amore puro e disinteressato ma condannato dalla morale comune e perciò,nonostante buono e puro, reso cattivo e sporco e trascinato dallo stesso autore – che immedesimato, com’è inevitabile nella scrittura, nella tragedia; si lascia a sua volta trascinare dalla pseudo morale di questa- fino al pathos della (meritata per il lettore?) distruzione finale la quale, si pensa e si spera, grazie al sacrificio della vita innalzerà i due giovani amanti alla resurrezione, probabilmente in un altro luogo più consono al loro amore eterno, alla loro purezza ed immune da una morale comune in questo caso senza dubbio madre/matrigna.

Rapporto al lettore una perla del “Soneto de la guirnalda de rosas”; “Sonetto della ghirlanda di rose” tratto dai  SONETOS DEL AMOR OBSCURO di Federico Garcia Lorca. Vibrano Eros e Thanatos nell’opera ritenuta da più parti e Vicente Aleixandre a capo un “prodigio di passione, di entusiasmo, di felicità, di tormento,puro e ardente monumento all’amore, in cui la prima materia è la carne, il cuore, l’anima del poeta preso da macerazione” e dove, appunto, serpeggia di continuo l’inquietudine di un amore impossibile da cui scaturisce una condizione di vita sofferta in frequenti, sublimate avvisaglie di morte.

(si è seguito, per la traduzione, il testo pubblicato da Miguel Garcia-Posada sul quotidiano madrileno ABC datato 17 marzo 1984, con il titolo SONETOS):

“Presto con la ghirlanda, su, ché muoio!/ svelto,intrecciala! Canta,gemi, canta!/ L’ombra m’intorbida la gola/ e mille volte e più splende Gennaio./ Tra l’amore mio per te e tuo per me,/ vento di stelle e fremito di pianta,/densità d’anemoni solleva/ in un gemito cupo,un anno intero./(…)Uniti, avvinti,/bocca rotta d’amore, anima a morsi, il tempo ci ritrova consumati.”.

La ghirlanda, corona di fronde,erbe, fiori intrecciati, simbolo più che mai di amore sincero;un riporto all’ “uniti,avvinti” dunque; avvinti, legati per sempre come fiori intrecciati.”Canta e gemi”, esaltazione dell’amore in netta contrapposizione col “gemito cupo”( Eros/Thanatos), gennaio= pieno inverno = sonno della natura (e della vita?= ancora Eros e Thanatos/ bene e male?), anima a morsi; non è forse presente nel parlare comune il “ti amo così tanto che ti mangerei?”? Ti mangerei affinché TU, mio, rimanga in eterno fisso dentro di me, TU e questo istante; la tua anima mangia la mia a morsi, la fa sua, e viceversa. Ed ecco che il Lorca innalza la passione amorosa all’infinito con “vento di stelle e fremito di pianta”, dove avvertiamo pulsare solo l’ Eros.E’ nel “tempo ci ritrova consumati” che, prepotente, torna la cognizione della realtà che ha comunque sempre attraversato più o meno manifestamente la composizione del poeta. Dopo la perdizione degli attimi d’amore (e l’apparente morte dell’amplesso al suo apice) ritorna il vero,il reale,il tempo che ritrova sfiniti ma pronti ad affrontare nuove stagioni, di vita e d’amore.

Voglio ricordare che a Granada, secondo Ian Gibson, il maggior  biografo del poeta  andaluso; il Garcia Lorca era considerato omosessuale, “disgrazia grave in una città nota per la sua avversione nei confronti della sessualità non convenzionale”.Le prime composizioni lorchiane evidenziano profondo struggimento sessuale,la sensazione di essere isolato; reietto. Quel maschio spagnolo, generalmente ossessionato da concetti stereotipati di virilità, contrapposto all’omosessuale ovunque trattato con disdegno. Il Lorca avvertiva senz’altro profondamente il suo essere “diverso”.Un nome appare nell’obscurità di quegli anni: Francisco “Paquito” Soriano, che fu intimo amico di Federico. Una sorta di Oscar Wilde granadino; uno dei pochi in città al quale il poeta confidava i suoi problemi. Tono stilistico gongorino, amore estremo e angoscia surreale, solitudine e morte.La morte, quindi e ancora, appare come resurrezione, accettazione della metamorfosi finale; da bruco a farfalla, da pietra a Pietà.

Da “Recodo”; “Svolta”, sempre dai Sonetos:

“Voglio tornare all’infanzia./E dall’infanzia all’ombra./Te ne vai usignolo?/Vattene !/Voglio tornare all’ombra./E dall’ombra al fiore./(…)Te ne vai, amore?/Addio!/(Al mio deserto cuore!).

Aldilà del bene e del male, dove homo mundus minor e la scrittura, la poesia divengono comunque magnificanti,nel bene e nel male,di tale mondo.Come non citare il Verga ( Catania,1840- Catania, 1922), scrittore arcaico e moderno insieme, ottocentesco e castigato ma straordinario cantore del corpo, del bene e del male, dell’eros da un punto di vista incredibilmente femminile. Il  suo primo successo fu legato alle frustrazioni sentimentali della giovane Maria, la Capinera (scritto in forma epistolare nel 1869 e pubblicato in volume nel 1871) che dal piano di un bestiario simbolico rappresenta l’altra faccia della Lupa, Gnà Pina invasata, dominata dalle pulsioni elementari; donna drammatica che ha una vita da difendere, un corpo e lo vuole soddisfare: “Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele” inveisce lei a Nanni Lasca, descritto ne “Le scene drammatiche in due atti (1896)” come “un bel giovane – tenero con le donne,ma più tenero ancora del suo interesse; sobrio e duro al lavoro, come chi mira ad assicurarsi uno stato. –Fronte bassa e stretta, sotto i capelli ruvidi – denti di lupo, e begli occhi di cane da caccia”. Documento umano? Il Capuana accertò che Giovanni Verga conobbe sia la Capinera che la Lupa.

Capuana: “Quella Lupa io l’ho conosciuta(…) Si vedeva ritta,innanzi il pagliaio,(…)spiando le viottole,”pallida come se avesse sempre addosso la malaria” in attesa di qualcuno che doveva arrivare dall’Arcura o dai Saracini o dalla Casa di mezzo, o da sopra la Rocca. Spesso la si incontrava alla zena, china sulla lastra di pietra accanto al ruscello,apparentemente per lavare i panni, in realtà per fermare tutti quelli che passavano e attaccar discorso.”.

Nell’estate 1854-1855, in seguito ad un’epidemia di colera, la famiglia Verga si era rifugiata nella proprietà di Tebidi, fuori da Catania, tra Vizzini e Licodia.Fu durante questo esilio che il quindicenne Giovanni s’invaghì di una giovanissima educanda dell’abbazia vizzinese di San Sebastiano dov’era monaca la zia di Verga.

Annota il De Roberto che l’educanda,La Capinera verghiana, era: “una creatura soave,una bellezza pallida e bruna,un fiore di simpatia.Finchè durò l’epidemia, la vide (il Verga, n.d.r.) assiduamente,sussultando al suo apparire,tremando nel parlar con lei,sentendo schiudersi le porte del paradiso quando la prendeva per mano e le cingeva col braccio la vita sottile nell’ebbrezza del ballo.Cessata l’epidemia la giovinetta aveva ripreso il suo posto nel monastero: ma egli l’aveva riveduta lì dentro,tutte le volte che era tornato a Vizzini.”. Nella “storia di una capinera” Maria,figlia di primo matrimonio,è avviata dal padre al convento. Sebbene fosse proibito dalla legge del 1867, (cfr. Gazzetta Ufficiale di Milano, 29 giugno 1853) infatti, purtroppo stentava a scomparire in Sicilia l’uso della monacazione forzata per le ragazze prive di sostentamento economico.Ma è l’amore puro, ricambiato e ingenuo per Nino che renderà la vita di Maria un tormento, il dubbio fra il bene (il convento imposto) ed il “male”, - il peccato?- dell’amore che porterà gradatamente la giovane donna alla pazzia.

Da “Storia di una capinera”:

                                                                                                                                 

“ 20 novembre

      

     Marianna!Marianna!…Io lo amo!io lo amo!Pietà!pietà di me!Non mi disprezzare!Son molto infelice!Perdonami!

Mio Dio!Perché questo castigo così duro?Ecco che bestemmio!Oh, mio Dio…quanto ho pianto!Oh, Dio mio…vi ha una donna più sciagurata di me?…L’amo!E’ un’orribile parola!è un peccato!è un delitto!(…).Tutto il mio essere è pieno di quell’uomo:la mia testa,il mio cuore,il mio sangue.L’ho dinanzi agli occhi in questo momento che ti scrivo,nei sogni,nella preghiera”.