Nel mezzo del
tavolo
un groviglio inestricabile
di fogli,
in cui annoto pensieri e riflessioni.
Non sono altro che una rassegna
di eventi marginali, di foglietti volanti,
di appunti dettati mentalmente
da una nuova alba.
Le mani e le unghie,
perfino le mezzelune,
ingiallite di nicotina.
Contemplo le volute di fumo.
Non faccio altro
che picchettare la cicca
sull'orlo del posacenere.
Tengo gli occhi bassi,
lo sguardo perso
nella geometria delle piastrelle
della mia stanza.
La mente si perde
nelle diramazioni del torpore.
Può succedere di
avere in superficie
un tuttoniente da scandire
in un giorno che non ha più
niente da dire.
In definitiva la
civiltà è questo continuo
trattenere gli impulsi,
ma a noi
non resta altro che farci graffiare
dall'autodistruzione,
lenta ed inesorabile.
E' lei che ci affascina e ci ammalia,
sirena dalle mille voci incantevoli;
è lei che ci pervade e ci annichilisce,
tarlo che rode l'animo,
giovinezza che incancrenisce.
La gola getta
suoni nell'aria.
Parliamo sempre,
con la nostra voce interiore
anche quando leggiamo,
anche quando dormiamo.
Parliamo sempre.
E se la parola è il fiore della bocca
la fitta rete di rimandi di una frase
talvolta è una corona di rose,
che si apre e si chiude sull'inesplicato.
Sarà un momento come un altro,
il pensiero cadrà
in letargo e si aprirà un varco
tra parola e parola,
e lì al confine di una pausa del discorso
o nel mezzo di un deittico
troveremo
il senso segreto di una sera.
Pisa di notte è deserta.
Le ragazze israeliane
ci dicono che coi fatti
della terra in cui sono nate
aprono tutti i telegiornali del mondo.
Pisa di notte è deserta.
Le ragazze israeliane
in vacanza studio parlano sommesse
nel loro inglese stentato
di un amore mai nato.
Non resta che
guardare
le persiane chiuse
o la crepa sul soffitto.
E' questa insonnia
dove ogni abbaglio di idea
accelera e invano si intensifica
fino
all'ultima quintessenza spicciola
di metafisica.
Un'osteria come le altre.
L'insegna là fuori è spenta.
La ragazza che ci apparecchia
sciorina i soliti convenevoli
e poi
a capo chino e sguardo basso
scompare.
Un'osteria come le altre
e un ininterrotto colloquio
che cova nel proprio inconscio
campagne malinconiche e strade
non asfaltate né illuminate.
"Deus sive natura (naturans)"
mi ripeto mentalmente e non
potrebbe essere altrimenti.
Ma la cifra trascendente
in un dettaglio di natura
non giunge a destinazione
nel pianeta sconosciuto
della mia peregrinazione.
Sarà uno stormire di fronde
o uno sguardo che abbraccia
un panorama? Oppure la visione
della campagna dall'abitacolo
della macchina?
Deglutendo la saliva vigliacca,
che mi era andata di traverso,
faccio il bilancio del giorno,
mentre il cane rosicchia l'osso
e uno schianto d'azzurro mi rinnova
il mondo.
Mia pelle, mio mucchio d'ossa
altrove le contrazioni di un grembo
porteranno alla luce un futuro assassino !!!
Sono qui,
luce fioca che filtra dalla mia stanza,
che scrivo inutilmente impoesia
contro la poesia senza alcun senso;
sono qui, sagoma che non riconosce
il suo profilo né la consistenza delle cose,
a chiedermi incessantemente:
se - come sostiene Lacan -
l'inconscio è strutturato
come un linguaggio riusciremo
ad imparare malamente e lentamente,
l'alfabeto di simboli
che ci trasciniamo dentro ?
So a memoria
come la forma
delle mie mani
di questa curva
smisurata di cielo
che culla dolcemente
le colline già in fiore.
Il trucco
che ognuno impara da solo
è fissare un punto qualsiasi
nell'indefinito.
E ricominciare così
di volta in volta..
ad libitum.
In un luogo imprecisato dell'animo,
quando ridisegno me stesso
nella tela della mente,
fa e si disfa,
disfa e si fa
e di nuovo ed ancora
punto e a capo,
in un continuo e caotico alternarsi,
l'incedere del tempo.
Gli aghi di pino
alla finestra
portano il segreto
di un vento nuovo.
I miei occhi combaciano
con le labbra esili
del mattino
e ammiro
con malcelato disincanto
l'anatomia di ogni nuvola.
"Trovare il buco alla conca"
mi dici. Come se fosse facile,
qui ed ora, non sapendo nemmeno
dove inizi e finisca questa
benedetta conca.
Poi le strade, gli alberi,
l'orbita del cielo,
e noi che sfioreremo sempre
il centro ignoto
delle nostre divagazioni.
Sorridi allora per un istante
solo e scalcia con un urlo
la polvere della quotidianità.
Nei deliri
ero perseguitato e
le telecamere sembravano
spiare i miei gesti.
Non mi fidavo più,
nemmeno di me stesso.
Scrivevo messaggi allucinanti.
Il mondo là fuori
era una minaccia costante.
Almeno così sembrava.
Che tu sia maledetta noia
che rechi il desiderio
in improbabili approdi !!!
Il cervello alla fine
del giorno era stanco
di girare a vuoto e
nel sonno ricaricava la memoria.
E' un paesaggio di pianura
che riannoda gli interrogativi
con i dubbi.
Le cime ricurve degli alberi,
perfino i fusti sotto il giogo
del vento,
fanno perdere le coordinate
dell'abitudine.
C'è di più e di meno
della logica
in tutta questa amalgama
di espedienti della natura.
Qualcosa di inspiegabile,
una voce che ha una sua
musica interna, una vocazione
inconfessabile
che inizia dove finisce la ragione.
Le tortore accovacciate
sui fili della luce,
di tanto in tanto
scendono in picchiata
sui girasoli.
Io me ne sto
a crogiolarmi al sole,
a cogliere l'interezza
di un io frammentato,
che travalica se stesso.
La strada è colma
di saliscendi e tornanti.
E' fiancheggiata da dei pini,
le cui radici
creano crepe e rigonfiamenti
nell'asfalto del ciglio della strada.
Salendo l'aria diviene rovente
e non si ode più il canto degli uccelli.
Solo un silenzio irreale,
che fa dimenticare l'amore
ed invoca la morte.
Cammino, cammino
sui lungarni,
rasentando le spallette
del fiume
e guardando
gli antibecchi
del ponte,
che ripartiscono
le acque dell'Arno.
Sarebbe magnifico
se il battito del mio polso
per un istante
si accordasse al ritmo del mondo.
Finito il rettilineo
la strada si snoda
tra le colline.
Ormai è un sentiero accidentato,
fatto di dossi e cunette.
Arrivati spegniamo la macchina
e ci fermiamo a guardare
il viaggio di andata e ritorno
del tergicristallo,
che smista le gocce di pioggia
di questo temporale primaverile.
Questo parco
è un intreccio di melodie
e di canti delle più svariate
specie di uccelli.
Questo parco
ha quel tanto
di pioggia che basta
a saziare le radici degli alberi;
quel tanto
di taglio di luce che basta
a rigenerare le foglie e i rami.
E' qui che sono cresciuto.
Porto in giro
il mio odore di animale,
dove i fendenti del vento
possano spargerlo nel mondo,
perché c'è sempre qualcosa
di noi che va oltre il messaggio
ed il contenuto.
C'è una ragazza che passa.
Ha un tatuaggio sul braccio
e ogni volta che parla
con l'amica
escono fuori parole
come ponti di colori.
"Ti dissi che ci saremmo rivisti.
Ti ricordi quella stanza ?
E quella stampa delle ninfee ?
Dove vai ora ?
Dove ti portano le tue idee ?
Pensi ancora o vivi soltanto ?"
E dovrei ancora rispondere
accuratamente
ed elencare le mie vicissitudini
per poi rimestare in silenzio
quel che c'è stato dato
quel che c'è stato tolto
di volta in volta,
di fiato in fiato.
Un cane randagio
scodinzola al primo passante
e la luna tra i tetti
modula la sua luce d'avorio.
Vuoto immenso
nel cielo
prendimi
e con me i miei aneliti;
annullami
in quelle striature di grigio,
in quel vagheggiare senza tempo;
cancella
per un amen
il mio respiro
e poi ripristinalo,
perché la sua cadenza
diventi per un attimo solo
un canto silenzioso
da porgere alle cose morte.
Strisce di sole
albergano
in un mattino d'Inverno.
La brina e il gelo
avvolgono
fiori, rami e campi.
"D'accordo siamo a metà strada
tra il nulla e Dio,
ma non pensare a me
che sono un pensiero
già pensato, un sogno
già passato."
Ci sarà speranza
fino a quando attenderai
la solita gazza ladra
sul solito ramo di pino
a Primavera.
Prendo un treno
Per una città lontana;
una città
che non significa niente
per me.
Una città anonima,
connubio
di civiltà,
illusioni momentanee,
slogan pubblicitari
e barbarie.
E gli occhi
che mi sono attorno
non sono nulla per me
ed io non sono nulla per loro
e l'estraneità mi rende libero.
Chi è più solo
di un bambino,
che ascolta
il coito
dei genitori
nella stanza accanto ?
Sangue che si aggruma,
capello che schiarisce,
tramonto che scolora ?
Sei sempre lì
nell'afasia del risveglio,
nell'amnesia di un tic.
"Finchè spari alla luna
c'è ancora un po' di amore"
e dopo aver detto questa frase
se ne va via ridendo,
occhi tristi d'Inverno,
perde l'eco dei suoi passi
sulle scale.
Domani sarà giorno di mercato
e di bisce al sole.
Per la mia barba di due settimane,
per la mia pelle e le mie palpebre,
per le mie gambe che solfeggiano il suolo,
per questa mia fibra di capello
che ho perso
la misantropia
controlla ogni mia mossa
e la disarmonia
della strada intona l'alba.
La siepe, l'orto, la calce,
e tutto il mio essere
e tu piuma
volteggia e cadi
sulla tela
di un ragno morto.
In un vibrio di fronde assolate,
in un gioco d'ombre dentellate,
pietra senza monte né greto,
spina senza roveto.
Perché io distrugga e crei,
getti scompiglio tra le rose,
e scomponga e mi ricomponga
in uno scompartimento di un treno
e fortifichi la mia scorza
melodia fischiettata
firma queste gocce di pioggia.
In questo dissesto mi assesto,
mentre c'è chi prolunga sbadigli
e chi balbetta bisbigli.
Ci salveranno le intenzioni,
le coincidenze
o le nostre viscere.
Reticoli di sinapsi
chimiche ed elettriche...
l'autocoscienza
corre nei labirinti
dei neuroni. Come
atomi di sabbia al vento
le nostre velleità
e digressioni.
La finalità
dei cinque sensi
è integrare
incessantemente
ininterrottamente
stimoli disomogenei
(accartocciarsi su se stessi
per divorare tutti i nessi).
La terapia
è questo rinnovarsi
nei miasmi degli orgasmi
per poi sterminare
sensi di colpa
e rimuginare tutti interi gli alibi
al confessore d'occasione.
Tutto tace. Dì al nemico
che abbiamo scelto
la non appartenenza
ma resta la genesi
dei nostri pensieri in fuga.
Esili ciuffi d'erba
hanno pernottato
nell'esilio della tempesta.
Dategli mille fermagli
al sole per riassettare
tutto il creato,
mentre trame di trecce
sorridono ai passanti
e la luce dell'arcobaleno
mira l'incavo della mia mano.
Quell'uomo nel vicolo
vive solo
di croce e di pane.
"Non si può non essere
cristiani" sosteneva Croce.
Quell'uomo
si nutre ogni giorno
del fosforo dei libri
e piange
sul cadavere
di quel che è stato un tempo.
Nel fondo del mio astratto
ti contemplo stagione
di ripari dalla pioggia
e di richiami del freddo,
per scuotere senza posa
l'orizzonte nel mio orizzonte