> Wu
Ming, 54,
Einaudi, Torino 2002
1954
- Le profezie di Wu Ming
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Tutti gli anni, a modo loro, sono cruciali nella storia, ma qualcuno - anche se non diventa una data strica - può servire meglio di altri a mostrarne (a posteriori, certo) le tendenze. E ad ambientare più efficacemente una narrazione come quelle che piaccioni a Wu Ming, il nome collettivo dei cinque scrittori bolognesi che hanno fatto parlare di sé nel 1999 con Q (scritto da quattro di loro e firmato Luther Blissett): narrazioni avventurose e ritmate, che parlano di gente comune, delle loro esperienze, delle loro gioie e dei loro dolori, dei desideri e delle delusioni, gente comune che fa la storia senza sapere di farla (come sempre accade), ma la cui storia privata è incomprensibile e scialba se non la si legge sullo sfondo della storia collettiva. L'anno 1954 è dunque lo sfondo di questo romanzo (54, Einaudi, 676 pagine, euro 15, in libreria da oggi), in cui le storie individuali di alcuni personaggi di fantasia si intrecciano con quelle di personaggi storici: un romanzo corale (come peraltro già era Q), alla maniera del 42° parallelo di John Dos Passos o di molti romanzi di Dick. Ma un romanzo in cui la storia "ufficiale" non la fa da padrona, e viene usata come collante degli eventi privati che concatenano intrighi politici, servizi segreti, contrabbando, traffico di droga, corse di cavalli truccate, amori impossibili, serate al Casinò, scazzottate e sparatorie, e la vita sociale quotidiana di un'umanità minuta ma descritta con grande affetto, a volte in modo un po' caricaturale ma in genere con grande vivezza. E che è, a mio parere, il pregio maggiore del libro.
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Anno 1954: nello specchio della storia gli
eserciti sono diventati polizie militari, ma l’immagine disgustosa delle divise
è sempre la stessa; gli ordigni atomici non esplodono più sulle città, bensì
negli angoli più remoti del pianeta, ma la scena di morte non è cambiata, si è
solo dislocata nella concreta possibilità di un inverno nucleare.
1954: la guerra continua, il conflitto si è
allontanato dal fronte, ma basta superare la prima duna per accorgersi che la
lotta prosegue. Lo scontro è quello spettacolare tra chi si è spartito il globo
a Yalta; non solo: è anche quello, meno coreografico, di chi, fin dalla
nascita, ha dovuto sempre combattere per tirare avanti, e per quel conflitto
non ci sono né coesistenze pacifiche né tregue possibili. La guerra è quella
dei tanti eretici che non hanno saputo stare a guardare e quando hanno agito lo
hanno fatto dalla parte sbagliata. È la guerra di Vittorio Capponi, soldato
italiano ammutinatosi sul fronte jugoslavo nel 1943, esule rivoluzionario nei
Balcani di Tito ed esponente di una fazione non allineata alla politica del
Maresciallo, ma è anche la guerra di Robespierre, il figlio più giovane di
Vittorio, comunista inquieto nella Bologna del 54, Telemaco emiliano alla
ricerca del padre, ballerino provetto, stile Cary Grant, ostinatamente
impegnato a riappropriarsi di un futuro che gli è negato, anche a costo di
doversi scontrare con il potente Odoacre Montroni, medico e mandarino della
federazione bolognese del PCI. Dalla stessa parte del fronte, gomito a gomito
con Vittorio e Robespierre Capponi, strisciano nella medesima trincea,
inzuppandosi dello stesso fango, quello riservato agli “ultimi” della Storia,
il gangster italoamericano Stefano Zollo ed il picciotto Salvatore Pagano,
figura dipinta con i colori di un’ironia irresistibile. Steve “Cemento” Zollo
ha deciso di fregare un ricco capitalista, di rifilare il pacco ad uno dei
tanti potenti e per portare a termine il piano deve trovare lo sfuggente “Mr.”
McGuffin, personaggio che “parla” soltanto per eloquenti ed insoliti monologhi.
Ma l’uomo da stangare è un individuo pericoloso, molto più pericoloso dei
banchieri Fugger truffati da Gert in Q, è don Salvatore Lucania,
passato alla storia con il nome di Lucky Luciano.
Le avventure di alcuni comunisti eretici si
intersecano inaspettatamente a quelle di un proletario della mafia che vuole
farla finita con una vita di merda, per trovarsi un angolo di mondo con il
sole, le belle donne ed un bar in cui sappiano shakerare un buon Manhattan. I
piani dell’intreccio si sovrappongono anche perché le rotte del traffico della
droga e quelle dell’eterodossia politica passano per lo stesso braccio di mare
e l’Adriatico, si sa, non è propriamente un oceano. In più, i soldi fanno
sempre comodo e, nel 54, conta poco l’aver fatto la resistenza o la battaglia
di porta Lame, anche gli eroi comunisti possono finire contrabbandieri. Da
quando Sergio Leone ha spiegato come può un bandito diventare un “grande e
glorioso eroe della rivoluzione”, è possibile anche il contrario: del resto,
l’odore della polvere da sparo è uguale per tutti.
A rendere ancora più intricata la trama del
romanzo provvedono le “comparse”, perché Wu Ming, nelle vesti di regista
sornione, ribalta completamente i ruoli. L’effetto è disarmante ed è come
guardare una vecchia pellicola in bianco e nero che racconta la storia di un
barman russo trasferitosi durante la guerra in una città del Marocco. Qui il
protagonista incontra un capitano della polizia di Vichy e ne scaturisce un
intreccio animato da truffatori rapaci, affaristi di piccolo calibro e donne di
dubbia moralità. Alla fine del film la città si rivela una inattesa Casablanca
ed il locale in cui si sviluppa la vicenda quello di un certo Rick Blaine, interpretato
da Humphrey Bogart. Sullo sfondo di 54, infatti, si muovono sir
Alfred Hitchcock, David Niven, Grace Kelly, il patetico e volgare imperatore da
operetta Bao Dai ed un impeccabile Josip Broz, in arte Tito, mentre il
principale personaggio non protagonista è tal Archibald Alexander Leach,
schizoide blissettiano, conosciuto anche come Cary Grant. Sotto la sapiente
regia di Wu Ming, i grandi attori patiscono il riscatto delle comparse per poi
finire, in un rovesciamento spiazzante, pienamente surclassati. In tal modo, il
romanzo semina insidiosi granelli di sabbia in quel “grande ingranaggio”,
apparentemente ben oliato, che conosciamo con il nome di “storia”, mentre il
proiettore si inceppa e la sala precipita nel buio.
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Tommaso De Lorenzis, “Zero in condotta -
quindicinale di Bologna”, anno VII, n.143, venerdì 1 marzo 2002
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Intervista a Wu Ming
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Napoli, Nizza, Genova, la Dalmazia sono alcune
delle ambientazioni che avete scelto. Luoghi che richiamano il miglior noir
mediterraneo: dalla Corsica di Carlotto, attraverso la Marsiglia di Izzo, fino
alla Campania di Ferrandino. Come misurate il debito che avete contratto con la
letteratura di genere?
Per
quanti omaggi le facciamo, rimane un debito inestinguibile. In 54,
oltre a uno dei personaggi di Casino totale di Izzo, compaiono i protagonisti del romanzo Rififì
di Le Breton, che a loro volta citano il protagonista de La vita è uno
schifo di Malet e il film Grisbì con Jean Gabin.
Compare anche (anzi, ha un ruolo fondamentale) il protagonista de La paga del
sabato di Fenoglio, il suo esperimento noir, pubblicato postumo perché Calvino
lo aveva boicottato in quanto troppo simile a un romanzo poliziesco. Allora che
dire di Una questione privata , un vero e proprio western? Noi ci siamo formati
su quelle letture e su quel cinema. Per quanto ci si muova e si esplorino gli
oceani, il “genere” resta la Stella Polare.
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54 è anche un romanzo di stile, nel senso che pone
una non indifferente questione formale. Il lavoro sulla lingua sembra lungo e
impegnativo, l’impiego di certe forme dialettali e lo slang anglo-napoletano
confermano questo tipo di attenzione. Alla fine il neorealismo ha prodotto
qualcosa di buono oppure si tratta di altro?
Senza
dubbio c'è l'influenza della miglior "commedia all'italiana", di
sceneggiatori come Age e Scarpelli (I soliti ignoti, L'armata Brancaleone).
Rileggendo 54 con un certo distacco sentiamo anche Beppe Fenoglio, e nei
dialoghi c'è una notevole dose di Elmore Leonard (il miglior
"dialoghista" vivente. Purtroppo in traduzione perde il 70%
dell'effetto) e ovviamente rimangono i riferimenti a James Ellroy. Il lavoro
sulla lingua fu faticoso anche in Q, ma qui il labor limae è stato molto più
intenso.
“Zero in condotta …”, ecc.
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E' cambiato il nome del marchio.
Il collettivo dei cinque che aveva firmato con lo pseudonimo collettivo Luther
Blissett il "western teologico" Q adesso, con accorta operazione di
marketing editorial-letterario, si chiama Wu Ming. In compenso non è cambiato
l'editore, che è Einaudi, e la collana, quella di "Stile Libero". Ma
il romanzo dello pseudo-Wu Ming 54, che sarà tra pochi giorni in libreria, si
segnala per aver mandato definitivamente in soffitta l'idea (o il pregiudizio,
o lo stereotipo) che la giovane e meno giovane narrativa italiana sia tutta
ripiegata nella contemplazione narcisisticamente compiaciuta dei propri dolori
ombelicali o che, come più volte ha sarcasticamente notato Alberto Arbasino,
sia attratta esclusivamente dai pensieri confusamente elaborati nei pressi del
proprio lavandino. In 54 ci si cimenta con la storia italiana, con i decenni
cruciali della nuova Italia post-fascista e uscita devastata da una guerra
feroce. E vengono costruiti personaggi, e ricamate trame, a partire dalle
atmosfere, dai nodi irrisolti, dagli irriducibili contrasti che hanno
impregnato di sé il carattere italiano nel corso degli ultimi cinquant'anni.
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Pierluigi Battista, “La stampa”, venerdì 8 marzo
2002