Guglielmo Piombini

il "socialismo" di Benjamin Tucker

Benjamin Tucker si è considerato per tutta la vita un "socialista", o quantomeno un esponente di una delle correnti di questa grande famiglia ideologica; i maestri di pensiero che cita con più ammirazione, come Proudhon, sono quasi tutti socialisti; nelle sue pagine la parola capitalismo assume sempre connotati negativi; lo Stato è visto come lo strumento con cui le classi abbienti si garantiscono ingiusti privilegi; il profitto viene paragonato spesso all’usura, perché impedisce ai lavoratori di godere dell’intero prodotto del loro lavoro; negli scontri sociali del tempo si è sempre schierato con decisione a fianco degli operai in sciopero, dei manifestanti, dei nemici dell’autorità.

Un rivoluzionario radicale, dunque? Un sostenitore del socialismo scientifico, della lotta di classe, della dittatura del proletariato, o della socializzazione dei mezzi di produzione? Tutto il contrario! Le idee diffuse da Tucker su Liberty hanno rappresentato, nel secolo scorso, una critica al marxismo e a tutte le altre varianti di socialismo statalista ben più diretta ed efficace di tante altre provenienti dal campo opposto. I suoi argomenti a difesa della libertà individuale, della proprietà, e del libero scambio superarono, per intransigenza e coerenza, quelli avanzati dai numerosi "timidi" liberali del tempo, spesso conniventi con regimi conservatori, protezionisti o militaristi.

L’assoluta SOVRANITA’ DELL’INDIVIDUO, secondo il principio enunciato dal capostipite dell’anarchismo individualista americano, Josiah Warren, rappresenta il punto di partenza del sistema teorico di Tucker, per il quale l’individuo costituisce la "vera e inalienabile fonte d’autorità". Qualsiasi autorità imposta al singolo senza il suo consenso rappresenta una pura e semplice usurpazione, a prescindere dal fatto che questa "sia esercitata da una persona su un’altra, come avviene nel caso di un delinquente comune, oppure da una persona singola su tutte le altre, come succede nel caso del despota, od infine da tutti contro un singolo, come avviene nelle nostre democrazie moderne". La società può autorganizzarsi spontaneamente nel rispetto della sovranità individuale, senza bisogno di costrizioni dall’alto, conformandosi alla LEGGE DELL’UGUALE LIBERTA’, secondo cui ad ognuno deve essere garantito "il massimo della libertà compatibile con il rispetto reciproco, da parte degli individui che vivono in società, delle rispettive sfere d’azione".

Da questi due principi complementari consegue l’illegittimità di ogni aggressione alla persona e ai beni altrui, qualora la proprietà di essi sia stata ottenuta con i mezzi pacifici e non invasivi della produzione e dello scambio volontario. Tucker afferma infatti che a tutti deve essere garantito "il possesso dei prodotti del proprio lavoro e di quelli altrui acquistati senza frode e senza violenza". Il suo anarchismo - cioè la sua condanna di ogni forma di Stato, compresi quelli democratici - discende dal rifiuto di accettare anche una sola eccezione al divieto d’aggressione dei diritti del prossimo. Lo Stato - che di fatto è costituito da "una o più persone che si attribuiscono la facoltà di rappresentare e comandare l’intera popolazione di un territorio" - è infatti un’entità invasiva per definizione, dato che si regge su delle entrate (le imposte) ottenute con la minaccia della forza armata e non col consenso, e pretende un monopolio arbitrario in numerose attività che potrebbero essere svolte in maniera più giusta ed efficace da privati in concorrenza tra loro. Similmente ai moderni anarco-capitalisti come Murray Rothbard o David Friedman – i quali hanno in più occasioni riconosciuto il proprio debito intellettuale nei confronti degli anarchici individualisti del secolo scorso - Tucker include tra queste funzioni anche la protezione e la sicurezza: come si potrebbe infatti conciliare "l’uguale libertà di tutti col fatto di sottrarre all’individuo una parte dei frutti del suo lavoro per pagare una protezione da lui non richiesta né desiderata?"

Lo Stato rappresenta quindi il mezzo con cui le classi privilegiate si assicurano innumerevoli privilegi e monopoli legali, tra i quali Tucker ne individua quattro principali: il monopolio del credito, della terra, delle tariffe, e dei brevetti. I "capitalisti" (definiti come casta politica e non come classe economica), disponendo delle leve dell’apparato di governo, possono così impedire la libera concorrenza nell’attività bancaria e nell’offerta di moneta (il free-banking), ostacolare il libero accesso alle terre non occupate, imporre dazi a proprio favore, e proteggere illimitatamente gli inventori dalla concorrenza. Come conseguenza, il costo del denaro, degli affitti, e dei prodotti industriali rimane artificialmente alto, a scapito dei lavoratori, degli imprenditori, e in generale delle classi inferiori, ai quali queste imposizioni stataliste sottraggono una consistente fetta del valore di mercato del proprio lavoro.

La soluzione per porre rimedio a queste forme di sfruttamento non è però quella proposta dai socialisti di Stato come Marx, i quali vorrebbero rendere universale il monopolio centralizzando tutte le imprese e le risorse nelle mani del governo. Un tale sistema, per Tucker, ha come suo ideale sociale quello di "una comunità uniforme e miserabile di buoi aggiogati, pacifici e asserviti", e condurrebbe inesorabilmente alla suprema tirannia e alla schiavitù generalizzata. Il "socialismo" anarchico, al contrario, vuole estendere ad ogni ambito i principi della libera concorrenza, in modo da abbassare al minimo i prezzi di ogni prodotto o servizio, fin quasi al livello del prezzo di produzione o di costo. Per gli anarchici individualisti, insomma, i principi della libera competizione dovrebbero essere applicati senza indugi anche in quei settori in cui i "capitalisti" non li desiderano: se vi è piena libertà nella domanda e nell’offerta di lavoro, ragiona Tucker, per quale motivo non dovrebbe esserci completa libertà anche per quanto riguarda la domanda e l’offerta di capitale, di moneta, e dei servizi di protezione?

Come si può vedere l’impegno di Tucker in favore delle classi lavoratrici più povere, cioè il suo "socialismo", aveva ben poco a che fare con il socialismo di Stato cui siamo abituati oggi. Il fatto che nel nostro secolo sia prevalsa la versione statalista del socialismo - nelle sue varianti lassalliane, marxiste, leniniste, o socialdemocratiche - non deve farci dimenticare che nel secolo scorso e fino ai primi decenni del ‘900 esistevano robuste correnti socialiste non solo avverse allo Stato (come lo fu, con qualche contraddizione, il collettivismo anarchico dei Bakunin, Kropotkin e Malatesta), ma anche favorevoli alla proprietà privata e al più completo laissez-faire.

Storicamente l’Inghilterra fu il primo paese in cui si affermarono movimenti sindacali portatori di un programma radicalmente antistatalista, liberoscambista, e pacifista, la cui egemonia rimase indiscussa per tutto il periodo vittoriano. Questi filoni, rappresentati in Italia dai cosiddetti socialisti liberisti (come Enrico Leone, Arturo Labriola o Romeo Soldi, che Turati accusava di essere degli anarchici) e in America dagli anarchici individualisti - Ezra Heywood, William Greene, Stephen Andrews, Lysander Spooner, e Benjamin Tucker - erano accomunati dalla convinzione che i più gravi problemi sociali che affliggevano le masse lavoratrici non derivavano dalla libera concorrenza, ma dalle pratiche protezionistiche e monopolistiche; che il laissez-faire rappresentava una condizione positiva per gli interessi delle masse operaie, sia come lavoratori che come consumatori; e che lo Stato rappresentava una sovrastruttura parassitaria, dannosa tanto per le attività degli imprenditori che per quelle dei lavoratori.

Il colossale disastro con cui si è conclusa la parabola del socialismo statalista, autoritario e accentratore non può che rivalutare le intuizioni di Tucker e della tradizione liberista e libertaria del movimento operaio.

postfazione al libretto Copia Pure edito nei "millelire" di Stampa Alternativa

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