Dal convegno tenutosi a Roma il 10
novembre 2022. “Una Città” n° 288, 2022
Sergio Soave
Angelo Tasca, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte
Per analizzare il
rapporto di Nicola Chiaromonte con due personaggi, Ignazio Silone e Angelo Tasca,
devo partire dagli anni Trenta, e cioè dal momento in cui i tre, pur così
diversi l’uno dall’altro per origini famigliari, educazione ricevuta, studi
fatti, e anche per conoscenze maturate, esperienze politiche vissute,
formazione culturale, ebbero modo di conoscersi personalmente e di iniziare un
rapporto caratterizzato da stima fraterna, ammirazione reciproca e intesa
profonda sugli obiettivi politico culturali da raggiungere. Col tempo, anzi,
quando dovevano ricordare amicizie che erano state per loro fondamentali, in
questo o quel periodo della loro travagliata esistenza, amavano citarsi in
sequenza, nonostante avessero conosciuto donne e uomini di straordinario valore
in tutto il mondo.
La differenza di età non aveva permesso loro di vivere all’unisono momenti
fondamentali della storia d’Italia, ma le complesse traiettorie culturali che
li avevano visti analizzare ciascuno per proprio conto i caratteri delle
società in cui vivevano, della politica che cercava di dominarne le
contraddizioni e della funzione degli intellettuali, li avevano portati a poco
a poco a convergenze insolite, straordinarie e, per loro, vivificatrici.
Naturalmente i reciproci rapporti furono differenti.
Della coppia Silone Chiaromonte, la più nota, sappiamo molto: Cesare Panizza
non cita a caso nelle prime pagine del suo splendido volume l’impressione
fortissima (una inaspettata, autentica rivelazione, una sorta di folgorazione e
di sbalordimento), che Silone trasse, al primo incontro con quel giovane che
non conosceva, che gli aveva mandato Tasca, e di cui avrebbe scritto:
“Chiaromonte costituiva per me la scoperta di un fenomeno nuovo e imprevisto di
autoliberazione. Egli appariva immune dalla retorica dominante, senza l’aiuto
di una tradizione politica, famigliare o di gruppo. Era approdato a idee chiare
sulla società leggendo i classici, specialmente i greci e qualche autore
recente [Proudhon, il Marx
dell’Ideologia tedesca, Husserl e altri]”. Ed era
stufo degli amici romani la cui insofferenza nei confronti del regime “si risolveva
in chiacchiere”.
Siamo nel ‘35 e da qui parte quel lungo tragitto che conosciamo: le difficoltà
pur diseguali degli anni Trenta (che Silone risolve con un successo letterario
significativo, mentre Chiaromonte arranca tra drammi umani e difficoltà economiche);
poi, l’interruzione di rapporti in tempi di guerra, vissuta in modi e
luoghi distantissimi con una separazione che durerà ben oltre il tempo della
liberazione; infine, il ritrovarsi dovuto alla loro azione nel “Congresso
internazionale per la libertà della cultura”, cui seguirà la parallela
associazione italiana e sopratutto il loro comune
capolavoro: la rivista “Tempo presente” di cui molto sappiamo.
Sostanzialmente sconosciuta, ma non meno forte anche se più limitata nel tempo,
fu invece la relazione con Angelo Tasca. La quale nasce in un momento di rara e
quasi magica dinamica di gruppo e cioè di quella “gang” (Tasca, Caffi, Levi, Giua e Natoli) cui Chiaromonte finalmente approda dopo
tanti e mai soddisfacenti tentativi di radicamento in quella parte del mondo
antifascista con cui aveva cercato di relazionarsi. Tasca, che della “gang” è
il perno, sa come valorizzare le caratteristiche di ognuno e sa che a
Chiaromonte, il “cesarismo democratico” di Rosselli ha creato un qualche
fastidio. Si comporta dunque di conseguenza, secondo quella che, del resto, è
la sua natura. Sicché, già dopo il primo incontro diretto, Chiaromonte gli
scrive “di tenere moltissimo alla sua amicizia... è per la prima volta, con la
sua conoscenza, che ho avuto un profondo sospiro di sollievo: l’emigrazione
cominciava davvero a parermi un luogo angoscioso e disperato”. Parole
impegnative, come si vede, di cui Caffi, proprio citando Chiaromonte, avvalora
il senso, descrivendo l’armonia emotiva e intellettuale del gruppo come una
sorta di prefigurazione di una comunità socialista. Così scriverà, infatti, in
una lettera a Tasca di qualche mese dopo (aprile ’36):
“Vorrei dirle tante cose, caro Tasca, sull’eccezionale sentimento che serbo del
suo modo così semplice e così affettuoso di essere un valido amico -mi sembra
che tutte le altre parole rimarrebbero goffamente inadeguate- Luciano [cioè
Chiaromonte] le confermerà come in ogni nostra discussione sull’efficienza del
socialismo, io abbia prodotto, come argomento dei più persuasivi: ‘Ma pensa
all’esempio che ci dà Tasca’. Mi permetto di dirlo ancora, e direttamente a
Lei, perché è stata per me una esperienza essenziale: non speravo di ritrovare
quel clima di effettiva umana solidarietà, a cui ero stato educato fra i
compagni tra il 1904 e il 1912 […]. È stata per me una rinascita morale l’aver
incontrato quasi in uno stesso tempo due prove d’una realtà contro corrente: ho
conosciuto Lei e ho visto in Luciano, Mario, Renzo esempi di uno schietto,
generoso, delicato fervore -non inferiore (e forse più meritorio) di quello che
animava i giovani socialisti della nostra generazione [...]. Ho impaccio ogni
volta che voglio dichiarare sentimenti. Il fatto è che mi sento
indissolubilmente legato a Lei, caro Tasca, da quel che c’è di più prezioso fra
uomini: l’assoluta fiducia. L’azione sociale, la politica, le idee possono caso
per caso essere più o meno efficaci, necessarie, geniali ecc. Ma senza quel
sostrato di stima, di affetto fiducioso verso coloro che le ‘fanno’ sono sempre
insoddisfacenti; quando c’è invece quel fondo, non sono mai sterili”. Ed è su
questa base che inizia l’amicizia tra Chiaromonte e Tasca ed è precisamente
questa la ragione per cui resisterà a lungo.
Poi le cose si complicano per la non totale coincidenza delle reciproche
aspettative. Tasca li vorrebbe tutti attorno a sé come compagni di una parabola
politica che contempla prima una collaborazione stretta a lato degli ambienti
culturali del socialismo francese e poi in quello italiano; ma nonostante un
“corteggiamento” continuo (sia pure rispettoso e discreto) sa che i due amici a
cui tiene maggiormente e cioè Silone e Chiaromonte, rifiutano ormai per
principio, (uno dopo le drammatiche vicende vissute nel partito comunista,
l’altro per la delusione della breve parentesi rosselliana),
ogni coinvolgimento diretto nella politica. Tuttavia, la considerazione che ha
della personalità di Chiaromonte non scema, anzi. Proprio verso la fine del
’36, quando si dedica a riflettere sulla crisi del socialismo, mettendo nel
conto, per la prima volta, di dover risalire a quelli che definisce i salti
logici del marxismo, e quindi la prova della falsa sua pretesa di
scientificità, pensa a lui e lo invita a casa sua per una giornata intera di
riflessione sull’argomento insieme all’anarchico Diego de Santillana.
L’incontro genera una trentina di fitte pagine di appunti da cui traspare tutta
la densità delle riflessioni che i tre hanno saputo esprimere con diversa e
convergente sensibilità.
I due ospiti si troveranno di lì a poco insieme nella guerra civile spagnola,
l’unico grande momento “romantico” della vita di Nicola che se ne ritrarrà però
poco a poco, non senza aver inviato regolarmente a Tasca lettere informative
sugli avvenimenti e aver lasciato trapelare prima entusiasmo e poi la crescente
delusione per l’andamento dei medesimi, vis a vis con i metodi stalinisti che
condizionano pesantemente lo slancio libertario dell’avventura popolare
repubblicana. Il peggio è che al ritorno e nel corso del ’37 noterà una scia
negativa delle vicende spagnole ne “Il Nuovo Avanti” con cui, pur sollecitato,
rifiuta di collaborare, perché a leggere quelle pagine intuisce il progressivo
scivolamento fusionista di Nenni. “E pensare che della fusione -aggiunge amaro
in una lettera a Tasca- non ci sarebbe neppure bisogno dal momento che, già
senza fusione, il periodico “impiega, nei riguardi del Poum
[Partido obrero de unification marxista di Nin e
Mauri] per es., un linguaggio e dei concetti più che paralleli a quelli Grieco-Ercoli”. Tasca che pur condivide l’assunto,
continuerà tuttavia la sua battaglia interna al partito, ma senza dimenticare
gli amici. Si batte ancora su “Il nuovo Avanti” e su “Le populaire”
e la sua spinta è decisiva per arrivare, infine, all’edizione di una nuova
rivista “Problemi di politica internazionale”, attorno a cui raccoglie
socialisti, uomini di Gl frastornati dall’assassinio
del loro capo, nonché anarchici sbandati dopo l’uccisione di Camillo Berneri, a Barcellona, in circostanze misteriose, ma non
difficili da immaginare. E a Chiaromonte, che continua a porre dubbi, scrive
francamente che “non si tratta di collaborare più o meno con Angelo Tasca. Non
è un problema che si possa risolvere sul piano della stima e dell’amicizia
(benché io tenga all’una e all’altra)”.
Il fatto si è -ed è il nocciolo della questione, il motivo vero del loro
disassamento- che lui, Tasca, si è orientato a combattere dentro il partito
socialista e quindi a prendere la misura degli inevitabili condizionamenti,
mentre Chiaromonte arriva “a conclusioni per autodefinizione e per
autodecisione”.
Annus horribilis davvero questo 1937 in cui Gramsci
muore, il governo Blum cade e la Spagna va verso la
sconfitta. La sensazione di un destino incontrastabile piega gli amici, tanto
che perfino un uomo strutturato e indomito come il torinese, a fine anno scrive
lapidario di sé: “Solitude: cuirasse
et cilice”. Avverte attorno a sé una greve stanchezza
e un senso di fine. Tenta ancora di ricostruire con la solita generosità la
“gang” di un tempo sistemando un Chiaromonte senza reddito, e con lui Levi e
Caffi, come commentatori di una radio che può raggiungere l’Italia. Ma non è
più il ’35 e ai primi del ’38 la morte di Giua in Estremadura li fiacca.
Anche Chiaromonte ne risente. Vede nero, pensa con la sua acutissima sensibilità
che si stia scatenando la catastrofe di una terribile guerra, ma ha bisogno di
orientarsi e a chi può rivolgersi se non a Tasca qualche mese dopo?
“Veramente si è piuttosto inquieti. Dico la verità; può darsi che [di fronte a
una guerra] la disperazione dell’ultimo momento mi consiglierebbe di
arruolarmi, ma forse sarebbe più giusto seguire passivamente un destino
qualsiasi. Il campo di concentramento? Un lavoro forzato? A me non importa
nulla. Ma ho responsabilità di Annie […]. Insomma ho bisogno di argomenti […]
Se lei mi scrive due righe, mi rende un favore più che d’amico, direi:
paterno”.
Chiaromonte ha un senso sacro del valore della parola. Quella chiusa dice tutto
del loro rapporto. Tasca risponde subito, con una lettera che contiene gli argomenti
desiderati e Chiaromonte lo ringrazia:
“Caro Tasca, grazie. Ho mandato la sua lettera ad Annie. Contribuirà a
persuaderla e a tranquillizzarla. A dire il vero nemmeno io riesco a credere
alla guerra. Ma quel che succede è di una inumanità spaventosa... Insomma
aspettiamo. Grazie davvero, caro Tasca e arrivederci”.
Non si vedranno sostanzialmente più, perché poi tutto precipita: Monaco, il
patto Ribbentrop Molotov (che porterà Tasca ai
vertici del Psi) e poi la caduta della Francia. Nel décalage
del minor male, nella ricerca di un tenue filo di salvezza collettivo, Tasca
farà allora una scelta per lui fatale, mentre Silone rimarrà in Svizzera e
Chiaromonte se ne andrà negli Usa dove il vecchio e sempre aleggiante Salvemini
gli porge la mano.
La distanza di scelte e la lontananza non mettono però a repentaglio il
bagaglio di convinzioni su cui i tre, attraverso scritti, lettere e colloqui
diretti sono giunti (e questo vale anche per il Tasca doppiogiochista vichissoise, ma sarebbe un discorso che esula da questo
convegno) e che possiamo così riassumere :
1. Sul piano dell’analisi storica è chiaro che “il socialismo si è sconfitto da
se stesso” e che con le sue divisioni ha finito per consegnare l’Italia a
Mussolini (Così in Naissance du fascisme, di Tasca e ne La scuola dei dittatori di Silone e in tanti articoli di
Chiaromonte).
2. A guerra in corso, aggrapparsi al mito della vittoria del comunismo sul
nazismo e assumere l’Urss come modello è fuorviante non solo perché si è
rivelato essere una forma di totalitarismo assimilabile al fascismo
(Chiaromonte nel ’32, Silone e Tasca nel ’37 con la definizione di “fascismo
rosso”), ma anche per il dovere di “respingere ogni identità di filosofia e
storia”, dal momento che “sul piano dello storicismo nessun criterio valido di
vita e di morte delle idee e delle istituzioni può essere disciplinato e
assunto”.
3. D’altro canto la democrazia politica sbandierata dalle democrazie
occidentali è un valore assoluto solo se correlata a termini quali
l’autogoverno, il principio di sussidiarietà, il federalismo.
4. È necessario un terzo fronte. Se cioè si vuole passare dalla negazione
all’affermazione e considerare ancora il socialismo come principio cardine
della liberazione dell’uomo, occorre restituire al medesimo il suo forte
carattere morale, perché “un movimento socialista che, per vincere e mantenere
il potere più facilmente, non rispetta i principi etici del socialismo è
condannato a veder inaridire i principali frutti della sua forza vitale”. “Noi
-scrisse e ripeté più volte Silone agli amici d’oltreoceano con cui Chiaromonte
avrebbe di lì a poco collaborato- dobbiamo combattere il fascismo come
rivoluzionari italiani e non come agenti anglo sassoni”, perché una libertà
restituita da altri non è vera libertà. Deve perciò trattarsi di un socialismo
che inveri “il vecchio messaggio cristiano di uguaglianza e fratellanza”,
dandogli “un significato concreto, moderno, vivo”, soprattutto “per
l’estensione dei principi della morale individuale alla morale collettiva”.
Aggiunge Tasca che delle tre parole d’ordine della rivoluzione francese, la “fraternité” è stata infatti la più negletta. Trascurandola,
si è perso un secolo in tentativi che, assolutizzando i termini di libertà e
uguaglianza, hanno prodotto i mostri del nazionalismo e del totalitarismo.
5. sul piano internazionale, occorre infine battersi per una federazione degli
Stati europei depotenziando il mito della nazione, con tutto ciò che questo
comporta.
E saranno questi i cardini di un pensiero che li faranno ritrovare nel
dopoguerra (in una sorta di heri dicebamus)
e segneranno le loro parabole successive che, nel caso di Silone e Chiaromonte,
arriveranno quasi all’identificazione.
Quanto a Tasca, il reietto, il traditore, l’indegno, l’inqualificabile
sostenitore del governo di Vichy, tutto si chiarirà quando, non solo passerà
indenne davanti ai severi tribunali francesi per l’epurazione, ma riceverà le
più alte onorificenze per meriti resistenziali dal governo belga e dagli
alleati, per i quali aveva rischiato un rischioso doppiogioco rivelatosi
utilissimo alla causa. Che poi quella scelta di “doppio gioco” avesse messo
Tasca “fuorigioco” per ogni rientro nella politica è un altro discorso. Del
resto, di tutto quello che lui aveva pensato sul rinnovamento del socialismo
non sembrava esserci traccia nella realtà dei partiti che in Francia e in
Italia si erano appropriati del nome. Note, articoli e saggi di avvertimento su
varie riviste non mancarono da parte sua; gli interlocutori validi sì. E così
rimase in Francia a scrivere poderosi volumi di smascheramento dei comunisti
che nei due paesi continuavano con successo a diffondere i dogmi di una falsa
“religione” e che quindi non perdevano occasione per infangarlo, qualunque
fosse la prova del contrario.
E a Salvemini che di fronte all’ultima sua opera, Autopsia dello stalinismo,
consigliava infine di lasciar perdere l’argomento, perché gli interlocutori
erano irredimibili e più di così non era possibile fare, risponderà che il
prezzo da pagare da parte della sua generazione era precisamente questo:
“sbarazzarsi dei mostri spirituali” in cui si era creduto e che “erano
diventati mostri materiali”. Se non si compiva quella missione -scrisse- “la
vita non gli [sarebbe parsa] degna d’essere vissuta”. E quando gli si chiese su
un giornale francese se al fondo si sentisse ancora socialista, rispose: “Je pourrais dire avec une égale vérité que
je suis socialiste et que
je ne le suis plus”.
Così facendo tuttavia si apprestava a diventare l’archivista della rivoluzione,
ma non più lo straordinario pensatore e sollecitatore che era stato in passato.
Sicché, si potrebbe dire che tutto lo straordinario bagaglio culturale che
s’era accumulato insieme negli anni Trenta, rimanesse maggiormente materia viva
e valida per il presente e per il futuro negli sviluppi di pensiero e delle
iniziative che caratterizzarono il dopoguerra di Chiaromonte e Silone.
Un esempio può aversi nella reazione pensosa che entrambi ebbero davanti alla
travolgente marcia dello sviluppo economico che, negli anni Cinquanta e
Sessanta, trasse l’Italia fuori dalla crisi e alimentò qui come altrove il mito
del progresso illimitato. Era solo un sintomo di modernità
recuperata, un riallinearsi del Paese con gli altri paesi europei?
Già negli anni Trenta, al proposito, e di fronte a una situazione complessiva
molto diversa, Tasca aveva ammonito che la forza del socialismo stava
“nell’aver introdotto l’idea del limite che deve imporsi allo sviluppo
‘oggettivo’ della produzione e delle forze economiche, limite che non sorge dall’interno
del meccanismo economico, ma è parte della coscienza umana”. Sì da indurlo a
pensare che “la rivoluzione socialista è della stessa natura della rivoluzione
cristiana”. Anche Chiaromonte conveniva a suo modo (si legga il capitolo sul
Sacro nel suo Credere e non credere). Il tema dello sviluppo, da tutti inteso
come salvifico e liberatore dalla povertà endemica dell’Italia rurale,
diventava anzi per loro il vero argomento su cui misurarsi. E fu Chiaromonte
quello che andò più a fondo nell’analisi anche perché, guardando ai contributi
in proposito di pensatori di sinistra, vedeva il vuoto o l’inconsistenza. Se ne
uscì al riguardo con giudizi aspri e quasi temerari.
Pier Paolo Pasolini? “Un pedagogo petulante ed equivoco, un cattocomunista
tutto bandiere rosse e rigurgiti parrocchiali”; Franco Fortini? “un corruttore
di giovani e un uomo sleale”. Il Piero Calamandrei
che dava inopinatamente credito al regime maoista solo dopo un breve viaggio in
Cina gli faceva orrore; e Gramsci? Di fronte al coro di apprezzamenti e alla
quantità di studi, troppo scopertamente a servizio dell’operazione politica di
un Togliatti che dopo averlo osteggiato in vita, lo metteva da morto sugli
altari, il suo giudizio era tranciante: “un farraginoso studioso di provincia
che ha insegnato a scrivere e pensare male ad almeno due generazioni di
intellettuali italiani”.
Irrispettoso? Sì certo, almeno nel dimenticare che il sardo aveva dovuto
riflettere sulla politica, sull’uomo e sul mondo in condizioni carcerarie che
gli impedivano di navigare nel vasto mare di quella cultura contemporanea di
cui lui, errante solitario in Europa e in America, aveva potuto invece, più di
tutti, avvalersi.
Detto questo e in conclusione:
1) I tre furono amici perché “l’onestà intellettuale assoluta” fu la loro
comune legge: E sottolineo l’aggettivo “assoluta”, perché così fu
effettivamente (potrei fare un lungo elenco di casi specifici), qualsiasi fosse
il prezzo da pagare.
2) Furono i primi a individuare il pericolo di una “collettivizzazione e
meccanizzazione dell’esistenza collettiva” delle società di massa anche
democratiche e ad aggiungere che ciò preparava per gli individui una condizione
progressiva di pratica tirannia. Ma nessuna delle idee o delle loro proposte
ebbe a trovare applicazione in una società che si dimostrò sorda a ogni tipo di
avvertimento profetico.
3) Loro comune “credenza” (per dirla con Chiaromonte) fu che la civiltà si
definisce nell’ordine morale e i soli veri mutamenti si danno nella coscienza
individuale, unico luogo dove tutto accade veramente.
4) Li accomunò nel profondo una laica religiosità che li portò a riflettere
sulle questioni ultime del senso della vita umana nel suo rapporto con la
storia, il destino e la necessità. E furono tre donne ad accompagnarli in
questo ultimo tratto.
Nell’incapacità di contrastare la forza del loro pensiero, furono tutti e tre,
in momenti diversi, colpiti da immorali maestri della squalifica morale che li
additarono al pubblico ludibrio, definendoli servi del nemico, traditori
dell’idea, moralmente abietti e marci.
E tuttavia, mentre quei maestri della malafede sono scomparsi dalla scena, è a
loro che dobbiamo ancora quelle parole di verità che servirebbero, oggi, per
cambiare il verso di un mondo in cui una sinistra che si dice erede delle tradizioni
liberal-socialiste e social-cristiane sembra priva di pensiero e di stelle
polari che la orientino nel cammino.