Alessio Lega

il grido del popolo

dal romanzo di Jean Vautrin, l’ultima opera di Jacques Tardi

L’attesa di un nuovo libro di Jacques Tardi molto raramente viene delusa, sia dalla prolificità felice dell’autore, sia dall’importanza dell’opera, sia dal dominio perfetto dei meccanismi narrativi – che si tratti di un soggetto originale, che si presenti come la riduzione di un romanzo, che sia l’esecuzione di una partitura di parole completamente messa in piedi da un altro – di scansione della storia; soprattutto non si è mai delusi dal meraviglioso disegno in grado di armonizzare, in un coerente universo, unico per capacità di ricostruzione degli ambienti storici, rigore di estrema sintesi, pregnanza di fisionomie al limite del grottesco, direttamente eredi della tradizione del miglior Lautrec (filtrato attraverso la grande scuola del fumetto mondiale Pratt in testa).

Tardi, com’è ovvio, ha già vinto tutti i premi disponibili in campo, ma da uomo poco uso a riposare sugli allori dei traguardi raggiunti, ogni nuovo anno si è sicuri di trovarlo presente sui banconi dei librai con qualcosa di ancor più significativo della volta precedente; così un premio a Tardi sembra cosa “ovvia”, e quasi non ci si fa più caso.

Quest’anno il festival d’Angoulême (la più importante manifestazione dedicata al fumetto in Europa) si è onorato ancora conferendo un ennesimo riconoscimento al suo genio... ma proprio non se ne poteva fare a meno!

La nuova opera dell’autore è folgorante.

Il romanzo di cui quest’opera è la versione a fumetti era uscito giusto qualche anno fa, suscitando molte curiosità in chi scrive, per cui quando l’ho ritrovato tradotto in italiano lo scorso anno per i tipi di Frassinelli, cominciai immediatamente a leggerlo.

Il grido del popolo si presenta sin dal titolo (lo stesso di un fondamentale giornale di Jules Vallés pubblicato durante l’esperienza comunarda) come “il romanzo della Comune”... lungo (decisamente troppo!) e complesso (come sopra!) non tardò a deludermi: gli spunti sono ottimi! L’idea è di scrivere un vero romanzo storico in cui non si facesse della facile apologia per i protagonisti del “primo assalto al cielo”, ma si desse la percezione reale di quei turbinosi giorni, riflessi nella vita dei cittadini, o meglio, degli abitanti dei bassifondi: criminalità organizzata, ladri, barboni, prostitute, saltimbanchi, è ottima. Il romanzo è molto corale, e gli sforzi di rendere su carta stampata un concerto di linguaggi e punti di vista sono encomiabili... il problema che l’autore, notissimo in tutt’il mondo per i precedenti romanzi (in Italia pubblicati da Feltrinelli), Jean Vautrin, non è riuscito a risolvere è il necessario dominio narrativo che impedisce alla storia di perdersi nei rivoli di un barocchismo in cui nomi, descrizioni, linguaggi gergali formano un insieme compatto e di difficile penetrazione attraverso cui non si può passare che con estrema fatica alla ricerca del bandolo della matassa; chi ha familiarità con Zola e Hugo sa che il romanzo novecentesco potrà anche approdare a risultati d’introspezione notevolissima, ma per ricchezza e ampiezza si confronta con i colossi inarrivabili del secolo che lo precede. Vautrin ha fallito il colpo.

Tardi no. L’aderenza al romanzo nel suo sviluppo è totale, i tempi e le scansioni sono rispettate al millesimo, ma la maestria del fumettista in grado di ovviare a pagine e pagine di farraginosi dialoghi con due vignette, di lussureggiare con lunghissimi piani che abbracciano interi quartieri, in grado di entrare e uscire dalla folla in tumulto, di stringere su significativi primi piani, di tradurre nel suo linguaggio snellendo, chiarificando e infine conferendo alla sua riduzione un pathos infinitamente superiore al testo di partenza, rende del tutto compiuta quest’opera, che altrimenti sarebbe restata mezza abortita. Bisogna per onestà precisare che il fumetto è solo la prima parte del romanzo, e che bisognerà aspettare i prossimi tomi per stilare un giudizio definitivo.

La storia di questa prima parte ruota dunque intorno alle giornate del 18/20 marzo 1871; Parigi è debilitata dalla disfatta inferta al secondo impero dai Prussiani, la Parigi del tempo è però piena di quei fermenti politici e culturali che la porteranno a dominare i successivi 50 anni in un’egemonia artistica e ideale incontestabile; Parigi è ben consapevole di tutto ciò. Sono consapevoli ovviamente gli artisti come Gustave Courbet, che è uno dei più deliziosi cammei del fumetto (e lo vediamo apparire con sottobraccio uno dei suoi quadri più piacevolmente scioccanti L’origine du monde) e che fu – come sappiamo – commissario delle arti nella primavera comunarda. Consapevoli sono gli idealisti militanti come Jules Vallés, cui, pur nella fulgida vita di uomo di lettere e politico cristallino e indomito, si rimprovera un eccesso di “moderazione” proprio nel fuoco degli avvenimenti del 1871, perfettamente spiegabile invece con la preoccupazione di cogliere i meccanismi in atto per minimizzare i rischi delle occulte dittature rivoluzionarie. Ma consapevole è soprattutto il popolo di Parigi che per espressione di una folla di personaggi, anonimi e non, riesce a far compiere un passo decisivo al revanchismo che vedeva di cattivo occhio la resa incondizionata ai boches (ha lo stesso significato dell’italiano crucchi. N. d. R.), trasformando tale sentimento di patriottismo stantio in un empito verso l’autogoverno, il comunismo, la libertà. I cannoni posti sulla collina di Montmartre non saranno confiscati dall’esercito Versagliese: sono del popolo, e il popolo comprende che se ha le armi la libertà segue come una conseguenza.

Ma tutto questo si trova in ogni decente libro di storia, ciò che si trova nel capolavoro di Tardi è ben di più: vi si trovano i volti di un popolo indomito, ora consapevole dello sfruttamento e desideroso di scapparne, ora preda anch’egli di meccanismi di potere mafioso nei gruppi criminali organizzati in fermento per il ridisegnarsi dei meccanismi del potere consolidato che vacilla; vi si trova quella meravigliosa espressione in carne e ossa dello spirito di rivolta che fu Louise Michel, che fragile e candida, uguale alle foto ingiallite in cui campeggia sui muri del museo di Montmartre, ma restituita a nuova vita dal tratto avaro di segni ma carico di emozione dell’autore, affronta i soldati venuti appunto a requisire i cannoni, e che dalla ieraticità di questa e dalla provocante e coraggiosa vitalità delle donne montmartrois, che tette al vento, come nella famosa stupenda immagine di Steinlen simbolo della Comune, vanno contro l’armata cantando La canaille, saranno indotti alla diserzione rifiutandosi di sparare sul popolo e anzi unendosi a lui.

La storia inizia appunto così e poi segue i rivoli dei personaggi principali: un capitano dell’esercito completamente conquistato alla causa comunarda, e alla più personale causa di strappare una donna, di cui si innamora perdutamente proprio durante la rivolta, al milieu malavitoso di cui è prigioniera; un ex galeotto divenuto per i misteriosi percorsi della vita un implacabile poliziotto, che persegue un ossessivo disegno di vendetta (e mal gliene incoglierà!) nella situazione dello sbando delle forze dell’ordine e del conseguente vuoto di potere seguito all’insurrezione. Ma non trascuriamo che gran parte del potere di fascinazione, anche nell’intenzionalità del romanzo, sta appunto nella coralità di una ridda di personaggi minori, tutti perfettamente tratteggiati dall’autore, che domina come nessun altro il sottile equilibrio di scritto e disegnato che regge il complesso edificio della narrazione per immagini.

Un capolavoro dunque: l’ennesimo – per l’autore – e nuovo come ogni opera maestra; un colto feuilleton che inchioda alla prima lettura e che spinge a penetrare ogni passaggio fino in fondo alle letture successive; un’immensa orchestrazione da parte di un genio del pennello, che compone e dirige una sinfonia che porta in se l’eco di molti canti rivoluzionari, ma che ha il suono inconfondibile e sempre nuovo della libertà.

 

 A-rivista anarchica”, anno 32 n. 283, estate 2002

 

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