Negli ultimi
anni, nelle librerie americane, un bell’addensarsi di
libri di Mark Strand ha
consacrato finalmente un grande poeta dell’oggetualità
e del silenzio, un “realista metafisico” non per caso innamorato di Edward Hopper (e di de Chirico e Bailey): linea nella quale ha infatti trovato il più
congruo corrispettivo figurativo
Non a
caso Selected Poems
(1964-1980), testo fondamentale per avvicinarsi alla poesia di Mark Strand, e riedito ora da Knopf, propone in copertina proprio una natura morta del
pittore americano William Bailey, quasi un preludio
visivo alle poesie che si stanno per leggere. Sul piano di un tavolo di legno,
addossato a una parete rossa, sono raggruppati otto oggetti da cucina. Sono
caraffe, brocche, tazze, vasi, pentole e altri utensili ripresi frontalmente e
dipinti con precisione. Le forme e i materiali sono antichi, i colori naturali,
le ombre e le luci definiti con accuratezza fotografica. Ma c’è qualcosa in
loro di strano: sono oggetti quotidiani che sentiamo come estranei. Gli
strumenti dipinti sono insoliti nelle nostre cucine e fanno pensare a un
villaggio del New England anziché a Terontola, la cittadina Toscana, che dà invece il titolo
all’olio di Bailey. Inoltre hanno forme antiche
eppure sembrano nuovi, non consumati dall’uso, come contenitori che non hanno
mai contenuto nulla. Sembra che la loro sola funzione sia di mettersi in posa.
C’è, nella loro disposizione, una calma silenziosa che invita ad osservarli, ma
anche ad andare oltre.
Calma, silenzio, immobilità sono parole che ritornano continuamente sia nelle poesie di Strand sia nei suoi scritti sull’arte e sulla poesia. In questa atmosfera di “stillness” onnipresente, di quiete assoluta, gli oggetti, sempre uguali eppure sempre diversi delle nature morte di Bailey, sembrano negarsi allo sguardo, assumendo un’aria di riservatezza e di mistero. Si mostrano, ma da una sorta di incolmabile distanza, come fossero edifici di cittadine dell’Italia centrale arroccate sulla cima di colline. E i titoli dei quadri (Città di Castello, Mercatale, Monterchi) ne sono una chiara indicazione di lettura. Il mondo delle nature morte di Bailey ( e“natura morta” in inglese è “Still life”, vita quieta, immobile e silenziosa a un tempo) non è un “mondo delle apparenze”, ma un mondo “di idee”. Il realismo di Bailey, per Strand, non ha niente a che fare né con il naturalismo né con il realismo ideologico. Si tratta piuttosto di un “realismo platonico”, in cui il mondo pittorico tende a un mondo invisibile delle idee, un realismo ieratico e distaccato che ha molti più punti in comune con la pittura metafisica del primo de Chirico che non con un realismo esistenzialista alla Morandi.
Lo
stesso approccio “estetico” guida Strand anche nella
sua originale lettura dell’opera di Hopper. “I
dipinti di Hopper – scrive nella premessa – non sono documenti sociali, né allegorie
dell’infelicità o di altre condizioni che possono essere applicate con
altrettanta imprecisione alle caratteristiche psicologiche degli americani”. Le
figure dei suoi quadri non sono rappresentazioni di una realtà determinata, non
vivono in uno spazio e in un tempo definibiti. Il
loro spazio è solo virtuale. Sono come colti nell’interstizio tra due tempi, “a
time between times”, in una
“still life”, appunto, dove improssivamente
il tempo viene a mancare e si resta avvolti in una “amazing
stillness”, in una sorprendente quiete, in attesa che
qualcosa avvenga, “come se una rivelazione fosse a portata di mano”.
L’annunciazione non avviene o, se avviene, è contemplata solo da coloro che
sono all’interno del quadro. I dipinti di Bailey e di
Hopper, come quelli di de Chirico, si offrono dunque
allo sguardo dell’osservatore come un enigma.
Come queste tele, anche la poesia di Strand è una poesia di domande più che di risposte, che non ha il compito di cambiare il mondo né di comunicare nessuna verità teologica, ideologica o etica. Non è una poesia confessionale né sentimentale: l’io lirico sembra addirittura abdicare a se stesso, annullandosi continuamente anche e soprattutto nell’uso prevedibile e canonico di certa lingua poetica: ogni luogo comune della dizione poetica viene sempre accuratamente evitato e la lingua, sorvegliatissima, ne esce essiccata, rastremata.
Eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni. È una poetica quella di Strand che vuole guardare in faccia la vita e la morte con la “discretion” disillusa e l’acre ironia della tradizione scettica. La poesia di Strand ferma la vita su un palcoscenico silenzioso e ci costringe ad osservarla nella sua nullità, con occhi asciutti. E proprio lì, sul palcoscenico autonomo della sua rappresentazione, nella ricerca ininterrotta di una perfezione formale, la poesia trova le ragioni della propria legittimazione. Le riflessioni estetiche di Strand, che ricordano certe pagine dell’Angelo necessario del maestro Wallace Stevens (a cura di M. Bacigalupo, Se, 2000), e che si inseriscono nella tradizione dell’autonomia dell’arte che da Kant, attraverso Coleridge, permea l’estetica del novecento americano, non potevano essere più lontane dalle preoccupazioni di Siqueiros.