Alberto Mingardi

Zeitgeist: intervista a Bruce Sterling

Assieme a William Gibson (l'autore di Johnny Mnemonic), negli anni Ottanta ha rivoluzionato la fantascienza, spazzando via il buonismo delle favole futuristiche alla Asimov, e ridando spazio a tematiche e inquietudini "sociali". Oggi Bruce Sterling è uno scrittore diverso, più maturo. Si è lasciato alle spalle l'etichetta di narratore "cyberpunk" - un po' profeta della rete, un po' ritrattista impietoso dell'uomo telematico - che ormai gli va stretta. Ma non ha smesso di giocare con le parole, di sperimentare nuovi generi, tentare improbabili contaminazioni: un esempio è Lo spirito dei tempi, Zeitgeist, uscito in anteprima mondiale in Italia per i tipi di Fanucci e che in questi giorni approda nel resto d'Europa. Una storia che si diverte a scompaginare le tessere del domino della politica mondiale: dal G8 alla Nato, dal Kossovo alla Russia postcomunista. E' un romanzo ambizioso, con qualcosa da dire su quest'emblematico inizio millennio. Che cosa, l'abbiamo chiesto direttamente a lui.

Caro Sterling, Zeitgeist, come gli ultimi suoi libri, non è esattamente fantascienza. E lei stesso, una decina di anni fa, si lasciò scappare che il cyberpunk, il sottogenere che l'ha fatta conoscere dai lettori di mezzo mondo, non esiste più. La narrativa popolare ha bisogno di "contaminazioni"?

Non sono ossessionato dalle etichette; so bene che, essendo stato un ideologo, molto chiassoso ed entusiasta peraltro, del cyberpunk, ogni cosa che scrivo agli occhi di chi legge dev'essere "cyberpunk". Non importa se mi occupo di sedie, o forchette, o di risotto alla milanese: è tutto cyberpunk. L'unico modo per uscirne sarebbe firmarmi con uno pseudonimo, ma di fatto questa situazione mi piace. Quando dico alla gente di essere uno scrittore di fantascienza, molti restano scandalizzati e si chiedono che autorità abbia per occuparmi di altre cose.
Ecco, dobbiamo uscire da questa mentalità a compartimenti stagni. A me piace "contraddirmi" e "contaminare" tematiche e stili: è una delle gioie della vita.

Con Lo spirito dei tempi, lei sembra aver dato forma di romanzo alle tesi del politologo Samuel P. Huntington, quello dello "scontro delle civiltà". Anche lei, in tempi di globalizzazione, si sente preoccupato?

Sono molto interessato alla tesi di Huntington: mi pare che lui dica che gli stati nazionali stanno segnando il passo ma, se anche lo stato-nazione non può trovare spazio in quest'era globalizzata, noi avremo ugualmente dei conflitti militari. Avremo guerre che si dovranno a ragioni "sociali", portate avanti da entità culturali più grandi, e dai contorni vaghi - qualcosa come le crociate nel medioevo, forse. Ebbene, a me tutto questo sembra soltanto il punto di vista di un disperato nostalgico della guerra fredda, che cerca una scusa per tenere alte le spese militari. Perché, se proprio si devono scontrare delle "civilizzazioni", esse dovrebbero darsi battaglia come hanno fatto gli stati? Una guerra "culturale" non ha bisogno di bombe atomiche. Le guerre culturali sono combattute non sui campi di battaglia, ma nei supermercati, nelle scuole. Sono cose come le radio o i computer portatili che stabiliscono chi le vince e chi le perde. Quando i fondamentalisti islamici si metteranno a costruire radio e computer, allora sì lo scontro fra le civiltà sarà un problema vero. Ma finché questo non succede, non lo è, o lo è di meno. Non ci sono più ragioni di alzarsi in piedi, sfoderare la pistola e farli fuori tutti: nell'era della globalizzazione, una guerra vecchio stile, "militare" insomma, è un dramma per tutti.

Nel romanzo, lei sviluppa tutta una serie di considerazioni sul conflitto in Kossovo. Sorprendenti, visto che vengono da uno scrittore americano: come mai l'establishment culturale ha supportato compatto l'intervento nei Balcani? E, soprattutto, perché lei ce l'ha tanto con il "nuovo ordine mondiale" formato Zio Sam?

Credo che l'abbia detta giusta Joschka Fisher: basta una parola per spiegare perché l'intellighenzia occidentale ha visto con favore la guerra in Kossovo, e quella parola è "Srbrenica". Allo stesso modo, agli europei piace parlare di mondialismo "americano", ma, se l'America sparisse domattina in una nuvola di fumo, la marcia verso il nuovo ordine mondiale non subirebbe certo un'inversione. Che cos'è l'Unione Europea se non una forma di "mondialismo" in salsa continentale? L'Ue tende ad ampliare i suoi confini ogni giorno di più. Gli americani per sé sono semmai isolazionisti, e tendono a disprezzare cose come l'Onu, il Wto, la Nato o gli accordi di Kyoto. Quanto a me, è vero, sono di nazionalità americana, ma in questo particolare momento storico non conta la bandiera che mi sventola sulla testa, conta il fatto che scrivo in inglese. E' questo che mi consente di essere letto e considerato: il governo americano non sa neppure che esisto, e a dire il vero non mi interessa farglielo sapere.

Lei ha scritto un libro in difesa degli hacker (Giro di vite contro gli hacker, ShaKe Edizioni) e s'è occupato più volte di cyberlibertà. Oggi che "Napster" chiude i battenti, la rete è più povera?

Il problema di Napster è che si tratta di un sistema efficacissimo per diffondere messaggi, ma il sistema in sé non produce nulla. Sino a che non ci sarà qualcosa che si possa costruire in Napster, con Napster, continuerà a sembrare solo una forma di parassitismo ai danni di un'altra industria. E' un grosso problema, in generale, della rete: copiare è facile, creare è difficile. Ma credo che Internet sia destinata ad andare oltre questa fase.

"il nuovo", 12 marzo 2001

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