Eric Stark

Roorda o il diritto di scartare

Henri Roorda, Le Rire et les Rieurs suivi de Mon Suicide (Mille et une nuits, 2011) | Henri Roorda, Le Roseau pensotant (Mille et une nuits, 2011) | Henri Roorda, Le Pédagogue n’aime pas les enfants (Mille et une nuits, 2012)

Colloquiare, socraticamente, con gli amici assenti, intorno al proprio imminente suicidio, elaborare una teoria del riso che, leggendovi una manifestazione di rivolta contro l’ordine universale, completi quella bergsoniana ma avendo esordito, in gioventù, con riflessioni sul “gusto delle lacrime”, caldeggiare una pedagogia libertaria sottratta alla tutela di quegli stessi Stati che si sbranavano nel primo conflitto mondiale, consegnare, partendo dalle briciole quotidiane, umoristiche noterelle filosofiche ai giornali cittadini. Altrettante occupazioni da cui originò la pubblicazione di queste operine-pamphlets, opportunamente rimesse in circolazione dalle edizioni “Mille et une nuits” per la cura di Éric Dussert. Era dai tempi del primo centenario della nascita di Henri Roorda (1870-1925) , quando “L’Âge d’homme” stampò due volumi di opere complete, che gli scaffali delle librerie non subivano una simile pacifica offensiva. Occasione è data per non lasciare nell’indifferenza colpevole del Tutto-Equivalente l’opera dello scrittore, pensatore e didatta svizzero (d’origine olandese ma nato a Bruxelles) con un padre frequentatore di Multatuli e Élisée Reclus. Quest’ultimo gli aveva consigliato di essere sì in rivolta, ma allegramente e il giovane Henri cercò di conformarsi a quella divisa, anche se ammetterà in fine che il nostro cuore-thermos non riesce a conservare fino in fondo l’ardore della gioventù (Mon Suicide).

Gli effetti dell’educazione libertaria paterna non si limitarono certo ad una tirata di sigaro tra lo stupore dei quindicenni compagni di collegio, ma si allargarono alla riflessione sui compiti educativi riservati a chiunque scegliesse il campo anarchico e pacifista sul finire dell’ottocento. Se l’educazione e l’insegnamento furono la sua occupazione, sempre vi accompagnò, dalle prime collaborazioni (fossero la rinomata Revue Blanche o un foglio di Jean Grave) il ripensamento degli automatismi e rigidità di quella pretesa missione. A partire dal 1912 Roorda prese a pubblicare i Corsi e Manuali di aritmetica, algebra o geometria, ma è alle pagine di Le Pédagogue n’aime pas les enfants, apparse in pieno conflitto mondiale, che la sua sommessa, poco invadente notorietà è affidata. Immischiarsi nel problema scolastico-educativo era, per il nostro autore, tra i compiti privilegiati di un pensiero libertario diffidente di una scuola maestra di docilità ed incurante del tema dell’emancipazione.

Il posto sempre maggiore occupato da una pedagogia moralizzante era un segnale del calo di spontaneità nelle vite individuali; al venir meno di una naturalezza subentravano atti regolati e parole dette dal moralista. Da subito il programma di Roorda tentò di contrastare questa deriva, fino all’esplicita scelta di campo degli anni di Losanna quando, oltre che a collaborarvi tra il 1913 ed il 1917,  redasse gli statuti della scuola Ferrer ivi fondata. Questa e altre esperienze originarono la stesura di Le Pédagogue...

Pagine cui manca la spigolosità fondamentalista ed assiomatica di altri rifondatori, scritte, come tutte le sue del resto, nel segno dell’affabilità e del dubbio: la medesima titubanza che coglie chiunque osi mettere mano al tema educativo-scolastico, dettata forse dal sospetto che  attribuiamo un’eccessiva importanza alle cose dello spirito nel momento in cui esigiamo dalla scuola qualcosa di più che la custodia dei propri figli per poche ore al giorno o la concessione di diplomi adatti allo svolgimento di professioni più o meno lucrative. A petto di un sistema scolastico affannosamente in corsa per modellarsi su di un apparato industriale che gira a vuoto, il pedagogo che davvero avesse a cuore gli allievi sarebbe il primo a  protestare contro il regime scolastico cui vengono sottoposti, l’educazione agendo come freno più che come stimolo e portando alla conservazione del “mediocre” piuttosto che alla realizzazione del “meglio”.

(Altrove Roorda evocherà il disgusto che talvolta gli fermava sulle labbra l’ennesima, pur vera, enunciazione di  leggi matematiche e formule immutabili).

Se solo metà della Storia è imitazione del passato, l’altra metà essendo innovazione, il pedagogo non deve mettere la docilità e l’ingenuità dell’allievo al servizio di un passato, già di suo protetto da leggi e gendarmi, ma coltivarne slanci e illusioni oltre il punto in cui stanchezza e prudenza ci hanno fatto arenare. L’autentico educatore, la vera scuola dovrebbero osar dire “non contate più su di me “ a chiunque si faccia scudo dell’azione conservatrice dello stato o dell’ordine stabilito.

In pagine che risentono dei recenti e contemporanei avvenimenti, in una esplicita chiamata di correità di tutto il sistema scolastico,   Roorda scrive che invece di riempire le giovani teste di conoscenze inutili, occorrerebbe svuotarle di quanto vi si viene cocciutamente e sbadatamente accumulando da parte di chi non vede nell’allievo se non un futuro soldato. L’espressione «débourrage des crânes» (svuotamento, evacuazione delle teste) ritorna spesso, ad indicare un’altra via pedagogica, sciolta dalla tutela statale e dallo spirito di uniformità, in grado di coltivare (e convivere con) una certa dose di indisciplina.

Salvare lo scarto parve essere lo scopo delle sue pagine. In fondo lo stesso umorista è individuo il cui umore non è disciplinato se non dall’osservanza secondo cui il riso libera potenzialità e salva individualità. Il profilo di Roorda si disegnò per i suoi contemporanei soprattutto grazie ai pezzi di “colore” (firmati  Balthasar) apparsi sulla stampa quotidiana e raccolti in diversi volumi: un susseguirsi di note che lavoravano ai fianchi il senso comune e il dato preteso immediato, secondo una linea eterodossa indicata da Allais, Jarry e Fénéon. Privilegiandone l’aspetto negativo e distruttore ma con giudizio, Roorda incentivò un uso critico, disarmante (in ogni senso) del riso, come quando, constatato il fallimento del compito civilizzatore e progressista dell’Europa, invitava gli africani (i Negri, come allora si scriveva), istruiti dal nostro esempio, a riprendere quel compito ed ad inviarci loro missionari e promettendo che noi, però, non li avremmo mangiati. Solo una risata irrispettosa, diffusa, diseducativa nel senso migliore, al pensiero di chi allora (ed oggi) guidava il mondo, può proteggere i popoli dai bugiardi e agitatori che vorrebbero trascinarli, attuando perciò qui ed ora, nel riso universale, un disarmo generale.  “Fogli di Via” , luglio 2012