Geoffrey O'Brien*

cinema e pop(corn): Spider-Man di Sam Raimi

 

 

In alcionii pomeriggi dell'Età del Pop, intorno al 1966, studenti universitari e altri sfaccendati - maschi, per lo più, come usava allora - amavano sfogliare pile di recenti fumetti Marvel per darsi a commenti in libertà. Il punto di partenza contava poco: la psicologia junghiana, le dinamiche della vita sociale americana, le implicazioni sessuali dei costumi indossati dai supereroi. Le creazioni della Marvel erano fieno per ogni sorta di ruminazioni, alte e basse che fossero; fornivano etichette per categorizzare personalità e situazioni (abbondavano nell'universo in rapida espansione della Marvel analogie applicabili praticamente a tutto) e, cosa assai soddisfacente, potevano essere prese sul serio o per scherzo, a piacere. Non era raro, in quei giorni, sentire elogiare Stan Lee (allora solo autore di tutta la dozzina di titoli della ditta) come un intelletto di dimensioni quasi shakespeariane, mentre lo stile particolare degli artisti impiegati dalla Marvel - Jack Kirby, Steve Ditko, Jim Steranko e molti altri - accendeva discussioni prolungate sulla natura della linea e l'uso dello spazio.

La vera Pop Art era qui, si diceva: non l'appropriazione della cultura di massa da parte di gente come Lichtenstein e Warhol, ma una sofisticata re-invenzione di quella stessa cultura da parte di veterani della sua espressione più bassa. Le semplicistiche attrattive dei fumetti di supereroi vecchio stile, con le loro motivazioni infantili e i loro banali mondi di fantasia, erano state rivisitate da Stan Lee e dai suoi colleghi e sottoposte a elaborate variazioni delle loro potenzialità narrative. I loro supereroi erano consapevoli di sé, turbati dal dubbio, soggetti a ossessioni irrazionali; le storie sempre più complesse nelle quali si trovavano a interagire rappresentavano una esplicita enciclopedia di tutti gli elementi delle avventure a puntate e delle soap opera. I loro personaggi principali - i Fantastici Quattro, l'Incredibile Hulk, il Dr Strange (Maestro delle Arti Mistiche), Iron Man, Thor e Spider-Man, il più popolare di tutti - avevano ciascuno una sfaccettatura emotiva e particolarità feticistiche individuali. Meglio ancora, il dipanarsi delle vicende era imbevuto di un umorismo che, se non proprio spiritoso, conferiva al fascicolo un'affidabile ed elegante cadenza: ´Ci saranno pure tanti scrittori, ma solo Stan Lee avrebbe potuto buttar giù un racconto così! E ci saranno pure tanti artisti, ma solo Steve Ditko avrebbe potuto disegnarlo! E sebbene ci siano tanti esperti di impaginazione, solo Artie Simek faceva allo scopo!.

I fumetti Marvel erano esplicitamente fedeli a una formula, attiravano persino l'attenzione sulle tecniche narrative e visive seguite, arrivando a inframmezzare le scene più portentose con sagge avvertenze didascaliche. Non si perdeva occasione di ricordare al lettore che si stava inventando la storia vignetta dopo vignetta, il che portava a creare un senso di complicità tra il lettore e l'artista. Agli inizi almeno, prima che evolvessero anche loro in una gigantesca industria, i fumetti Marvel erano percepiti come un antidoto alla monotonia e prevedibilità del divertimento di massa. Simpatici e antieroici al tempo stesso, preservavano lo spirito di improvvisazione che animava l'ispirazione delle riviste pulp o dei film di terza categoria; avevano qualcosa del libero flusso di invenzione comica del “Mad dei primi tempi, unito a una seria concentrazione sulla mitologia in evoluzione dei loro personaggi. Se non proprio fatti in casa, sembravano almeno costruiti in una piccola, simpatica e rumorosa officina, ravvivata da continue battute di gente che sta a guardare e improvvise esplosioni di entusiasmo collettivo. In effetti, il mito di un posto di lavoro siffatto, instillato nelle didascalie e nelle introduzioni alle storie, è stato probabilmente l'invenzione più geniale di Stan Lee.

C'era poi l'arte. Le storie potevano andar bene per un giro, ma la grafica assurgeva spesso a ruolo di riferimento duraturo. Un fumetto era come un film che potevi tenere in mano, contemplando l'azione come una serie di momenti di tensione immobilizzati: per certi versi era meglio di un film, per la possibilità che offriva di ricamare con l'immaginazione su ogni singola pagina. A parte la difficoltà di mettere in scena i combattimenti immaginari e le guerre intergalattiche dei fumetti (ora risolta in qualche modo dall'avvento degli effetti speciali computerizzati), sembrava improbabile che un film potesse riuscire a catturare il modo in cui i migliori fumetti riescono a essere al tempo stesso monumentali e leggeri, lasciando sempre intravedere un tocco umano. Ciò che i film guadagnavano in realismo, lo perdevano rispetto alla leggerezza impalpabile di un mondo creato con penna e inchiostro.

Spider-Man di Sam Raimi, l'ultimo blockbuster di primavera a battere tutti i record di pubblico durante la prima settimana di programmazione, aderisce piuttosto fedelmente al fumetto originale. Racconta le origini di Spider-Man, come vennero ricostruite nel primo fumetto della serie, Amazing Fantasy, dell'agosto del 1962: la trasformazione di un serio, imbranato studente in scienze all'ultimo anno di corso in un supereroe capace di scalare pareti, altalenare di palazzo in palazzo con l'aiuto di ragnatele, sentire l'avvicinarsi del pericolo grazie alle doti sensitive della specie, il tutto grazie al morso di un ragno radioattivo (nel film, geneticamente modificato). Il rovescio della medaglia era costituito dal fatto che non riusciva ad accettare quella trasformazione. A quel tempo, l'idea di un adolescente supereroe era una novità, e l'idea di un supereroe adolescente e nevrotico, turbato da sentimenti ricorrenti di colpa e di inadeguatezza, sembrava assolutamente rivoluzionaria.

Il punto cruciale della storia raccontata nella prima puntata era che l'iniziale esplosione di arroganza cui soccombette Peter Parker nel ricevere i suoi poteri aveva prodotto una serie di conseguenza non volute, culminate nella morte dell'adorato zio Ben. La nozione di una colpa morale (il suo momentaneo delirio di potere) inespiabile e a cui non si potrà più porre rimedio conferiva al fumetto una certa aria d'insoddisfazione; essere Spider-Man non era solo un peso in sé, ma anche il ricordo incessante delle colpe dell'eroe, una sorta di pena senza fine. C'era poi il pericolo che potesse soccombere ancora al senso di onnipotenza, il che lo condannava a vigilare sulle sue reazioni e impulsi. Dunque, non vi era spazio per qualsivoglia trionfalismo: goffamente, The Amazing Spider-Man insisteva sul senso tragico della vita.

Raimi si rivela particolarmente sensibile a queste sfumature psicologiche; eppure, ciò che nel fumetto era all'inizio solo caratterizzazione appena accennata e quasi inconsapevole, viene assumendo un tono quasi solenne. Alla metà degli anni Sessanta, era divertente paragonare Stan Lee a Shakespeare, trovare analogie tra la ricchezza di sfaccettature del drammaturgo e la popolosa mitologia di Lee, e contrapporre il sicuro istinto per l'intrattenimento rivelato da Lee alla teatralità senza tentennamenti di Shakespeare. Il che non vuol dire che Spider-Man riesca mai ad assumere la gravitas di Lear o Amleto, anche con la malinconica colonna sonora di Danny Elfman, che crea un'atmosfera di pensoso turbamento. Il problema ha in parte a che fare con il senso della proporzione. Se si mette a confronto il tratto grafico dello Steve Ditko del primo episodio con l'impatto visivo del film di Raimi, è come porre la vignetta stampata su una scatola di fiammiferi degli anni Cinquanta accanto a uno degli immensi tabelloni digitali che occupano l'orizzonte visivo di Times Square. I disegni di Ditko possiedono tuttavia un vigore, una immediatezza, una grazia caricaturale che lascia intravedere la mano che li sta tracciando, e quando queste piccole figure appena tratteggiate sono costrette a fronteggiare dilemmi morali, acquistano una statura donchisciottesca. È proprio questo lo strano intimismo che i fumetti riuscivano a evocare.

Al contrario, il film di Raimi - e questo vale per la maggior parte di analoghi film contemporanei - sembra proprio quello che è, il prodotto della grande industria. Se lo ammiri, lo fai come ammireresti una esposizione internazionale o un ponte sospeso. The Amazing Spider-Man emerse dal fondo: non c'era molta gente che cercava cose nuove nel mondo dei fumetti da dieci cents del 1962. Spider-Man, il film, scende dall'alto, portandosi dietro una scia di copertine di riviste e di giocattoli derivati, assumendo così una presenza e un peso di cui l'originale era affatto privo. Le scene di combattimento simulate in digitale — al pari di molte scene di combattimenti simulate in digitale - non hanno più vita del rapido disporsi di cifre sullo schermo di un calcolatore elettronico. Nemmeno per un istante riusciamo a credere che un'entità qualunque stia entrando in collisione con una qualunque altra entità; la corposità di esseri reali e il contatto vero e proprio sono sostituiti da un gioco irrimediabilmente impalpabile di puntini digitali. Le scene d'azione sono prive dell'ironica inventiva di pezzi di corpi umani svolazzanti che percorrevano la prima produzione, a basso costo, di Sam Raimi, il film dell'orrore La Casa (1983). Si trattava di una pellicola che per la sua ininterrotta sfilata carnevalesca di possessioni demoniache in una casetta infestata di spiriti, per il suo spirito inventivo e per il contenuto macabro era molto vicina al meglio dei fumetti della Marvel.

Va anche detto che la realizzazione di scene di attacco aereo - a esempio la scena infinitamente protratta in cui Green Goblin, la nemesi psicotica di Spider-Man, massacra i dirigenti di una grande industria tecnologica nel bel mezzo di una festa pubblica - sono caratterizzate da una brutalità che arriva quasi a uccidere la fantasia. Ammetto che il fatto di assistere alla proiezione in un cinema di New York riaperto da poco, proprio di fronte al Ground Zero delle due torri, ha reso l'evocazione di strutture urbane distrutte da oggetti volanti molto poco divertente. A ogni modo, non ero il solo tra il pubblico a essere men che entusiasta dei pietrificanti annunci digitali di impatti devastanti.

Il paradosso degli effetti digitali è che più sembrano veri più si ha la sensazione che non lo siano; i primitivi modelli e le quinte dipinte del primo cinema muto riuscivano meglio a dare la sensazione di eventi che accadono in uno spazio reale, e avevano maggiore possibilità di suscitare un coinvolgimento emotivo. Proprio come la Roma digitale de Il gladiatore, che non riusciva a sembrare nulla di più del disegno di un architetto, i balletti aerei di Spider-Man sono privi di un elemento cruciale: l'aria. Il film di Raimi è per certi versi un'epica di New York ma, nonostante l'elaborata localizzazione (alterata in modo altrettanto elaborato), non si può fare a meno di avere l'impressione che si tratti solo di un simulacro.

Lo Spider-Man originale della Marvel, all'opposto, derivava gran parte del suo effetto dall'intersezione tra l'assurdità del fumetto con la banalità della New York di quegli anni. Scontrosi guidatori di taxi, carretti di hot-dog, l'Ed Sullivan Show: era in mezzo a simili familiari icone culturali che Spider-Man conduceva le sue guerre di annientamento contro l'Avvoltoio o il Dottor Octopus. Contava ben poco che New York fosse descritta in modo assolutamente stilizzato; il fatto che fosse appena indicata bastava a dare un effetto di realismo pari allo sbuffo di vapore da un cantiere stradale. J. Jonah Jameson, l'irascibile editore di quotidiani sempre intento a masticare un sigaro (che nella versione cinematografica viene rapidamente congedato), coglieva qualcosa di essenziale di quelle soffocanti stanze sul retro dove ti immaginavi si fabbricassero i vecchi fumetti.

Raimi se la cava molto meglio con gli elementi da soap opera - la zia invalida di Peter Parker, i problemi della sua ragazza, le sue gelosie e i suoi risentimenti - che erano probabilmente la ragione segreta della speciale attrattiva di quel fumetto. Ci sono persino momenti in cui Raimi sembra evocare l'atmosfera di rappresa domesticità che aveva coltivato con effetti così sconvolgenti nel sottovalutato giallo Soldi sporchi, quasi per sfidare l'inevitabile momento di intensa e melensa emozione che tutti i film americani debbono ora imperativamente mostrare. The Amazing Spider-Man era essenzialmente un fumetto romantico truccato da fumetto di supereroi, caratterizzato dalla segreta femminizzazione del tradizionale uomo tutto-di-ferro; l'incarnazione di Peter Parker fornita da Tobey Maguire possiede indubbiamente un tenero fascino che garantisce l'uscita di molte ulteriori puntate, anche se la sua interpretazione non riesce a catturare l'impotente angoscia così bene espressa da Steve Ditko nelle rozzamente espressive vignette originali. Maguire sembra sempre troppo pronto a divertirsi, col risultato che diventa difficile credere all'atto finale di romantica rinuncia, quando sceglie di abbandonare la ragazza dei suoi sogni per imboccare il sentiero ascetico e solitario dell'eroismo. Di contro, l'interpretazione circense del Green Goblin da parte di Willem Dafoe è pressoché troppo riuscita; fa sembrare tutti gli altri come ancora occupati nelle prove.

Tutto sommato, Raimi ha portato a termine un lavoro impeccabilmente professionale e vi sono tutti i segni premonitori della nascita di un'altra linea di lucrativi prodotti derivati. Come intrattenimento, Spider-Man ha tutto quel che gli serve; gli manca solo quel fattore di eccentricità, quella carta di casuale improvvisazione che rendeva i fumetti così divertenti : ma sarebbe forse troppo pretenderlo. Se fosse stato girato negli anni Sessanta, avremmo avuto qualcosa come Modesty Blaise di Joseph Losey (1966) o Diabolik di Mario Bava (1968), esercizi sopra le righe di applicazione a ogni fotogramma di uno stile Pop Art intensamente colorato, con risultati che colpivano gli occhi senza essere necessariamente coinvolgenti o nemmeno interessanti; se fosse stato girato negli anni Settanta o Ottanta, sarebbe stato probabilmente una dubbia produzione girata in un paese del Terzo Mondo resa appetibile da qualche scena di nudo o una spruzzatina di arti marziali. Quel che abbiamo ora è uno Spider-Man come narrazione da parco a tema, cauta, rispettosa, studiata fino all'ultimo brandello di tela svolazzante, realizzato dai soliti gruppi ben coordinati di disciplinati professionisti, prevenduto con una abilità che è un'arte in sé a un pubblico mondiale che si sveglierà pensando che è proprio quello che stava aspettando da sempre.

(trad. di Pietro Corsi)

La rivista dei libri”, luglio-agosto 2002

 

prendi qui visione de “La rivista dei libri

edizione italiana di “The New York review of books

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Geoffrey O'Brien è direttore della Library of America ed è autore, fra l'altro, di  The Times Square Story (Norton, 1998) e Castaways in the Image Planet: Movies, Show Business, Public Spectacle (Counterpoint, 2002).