Massimo
Bacigalupo
poeta americano nel piccolo buco: “Hotel Insonnia” di Charles Simic
Charles Simic (pronuncia “Simik”) è un poeta americano dei più
prolifici degli ultimi decenni,
circondato da premi e onori, presidente di turno dell’Academy of
American Poets, pubblicato sulle maggiori riviste (“New Yorker”, “Times
Literary Supplement”), recensore e articolista della “New York Review of
Books”, dove scrive non di rado di Balcani. Infatti questo ragazzo fortunato,
prodotto di una success story da manuale, à nato 64 anni fa a Belgrado e ha
passato l’infanzia sotto le bombe e l’occupazione tedesca. Poi la madre è
riuscita a portar via i figli per raggiungere il padre a New York. Una
rivelazione per un sedicenne ragazzo di strada di Belgrado. L’America con le
sue infinite possibilità , la sua piattezza, la sua energia e indipendenza.
Simic ha saputo farsi forte
del suo passato di emigrato e da quando ha cominciato a scrivere, studente e
poi soldato e poi impiegato di giornali, ha mescolato lampi della sua storia
violenta con lo stile surrealista dell’Est (è stato in seguito amico
dell’ex-compatriota Vasko Popa). A questi ricordi e influssi stilistici unisce
il paesaggio fisico e mentale dell’America, paese dalla normalità surreale
(vedi Hopper). L’America è materialista ma profondamente legata a una
tradizione idealistica. Emerson è il filosofo dell’America, nebuloso e
praticissimo, con la sua insistenza che ognuno deve fare per sé, e piuttosto
essere dalla parte del diavolo se così vuole il suo carattere che stare con i
santi per conformismo. Simic, che insegna fra le colline del New Hampshire care
al grande (ed emersoniano satanico) Robert Frost, dice che proprio Emerson non
gli riesce di metterlo da parte. Eppure ha “letto tutti i libri”, certamente
tutti i filosofi, che qualche volta cita, magari mettendo la Fenomenologia
di Hegel in mano a una bella ragazza (ricordate la foto di Marilyn che legge Ulisse?
ecco Simic).
Come ricorda Andrea Molesini
in appendice a questa raccolta di 76 poesie di Simic, Hotel Insonnia
(Adelphi, pp. 191, E 11,50), Simic ha letto Platone e Micky Spillane, ma nella
sua bara, “un giorno”, vorrebbe... chissà: “Il Libro tibetano dei morti
sarebbe molto appropriato, ma preferisco un manuale di sesso o le poesie di Emily
Dickinson”. Di Dickinson Simic riprende la felicità epigrammatica, il gusto
dell’indovinello, la nettezza delle immagini, e magari la preferenza per l’
“io” in prima riga, protagonista presunto dell’opera.
Che infatti ci accoglie
sulla porta dell’Hotel Insonnia di Simic. I liked my little hole...:
“Mi piaceva quel mio
buchetto / con la finestra che dava su un muro di mattoni. / Nella stanza
vicina c’era un piano. / Un vecchio sciancato veniva a suonare / My Blue
Heaven / due tre sere al mese. / / In
genere, però, era tranquillo. / Ogni camera con il suo ragno incappottato
pesantemente / a catturare la sua mosca con una ragnatela / di fumo di
sigaretta e fantasticherie. / Così buio / che non vedevo la mia faccia nello
specchio per radermi. // Alle 5 di mattina uno scalpiccio di piedi nudi sopra
di me. / La chiromante “zingara” / la cui vetrina è all’angolo / che va a far
pipì dopo una notte d’amore. / Una volta, anche, il suono del singhiozzo di un
bambino. / Così vicino che per un
momento / pensai che a singhiozzare fossi io”.
Tre strofe di sei versi,
circa 1990. Una simmetria classica per una versificazione nervosa e prosastica.
Fa parte del carattere e della letteratura americana non drammatizzare,
raccontare (umorismo nero) le cose più strane a faccia impassibile. Simic ci
dice senza batter ciglio della sua vita alla Bartleby, e in effetti ha un muro
di mattoni davanti alla finestra proprio come il pallido scrivano di Melville.
Ma, più fortunato di questo, lo raggiunge una canzonetta suonata da uno storpio
al pianoforte. Anche il piano e il vecchino claudicante sono motivi cari al
surrealismo e antecedenti (i pianoforti di Laforgue e Dali). Nella seconda
strofa appare un altro insetto molto letterario, il ragno di Frost e Dickinson,
che però sembra metafora degli inquilini dell’hotel, che cercano la loro
mosca-pepita fumando e fantasticando. E lo specchio vuoto è un classico oggetto
inquietante. La terza strofa con la chiromante pisciatrice ricorda l’interesse
di Simic per i manuali di sesso, comunque c’è la presenza dell’erotismo che si
insinua nel fantastico (ma una chiromante con il negozio all’angolo, cosa
potrebbe essere più banale?). E si sente anche un bambino che piange, o sono
io? Una vocina nel buio. E siamo di nuovo sotto le bombe di Belgrado, vecchie e
nuove, e nel mondo per eccellenza surreale che è l’infanzia.
I temi dunque sono
classici. L’impasto è originale nel suo carattere di racconto minimo:
descrizione di un paesaggio urbano che esce dal sogno e dalla notte. E da
notare quell’inizio disaramante: I liked my little hole. Nel suo Hotel
Insonnia (l’hotel della poesia, della vita, l’immortale Chelsea Hotel del
Village, ecc.) Simic sta bene. Anche la Dickinson inizia una famosa poesia con I
like to see it lap the miles: mi piace vederlo sorbire le miglia. Simic in
questo mondo inquietante ha trovato uno spazio pieno di stranezze normali. Non
si annoia. Può sempre andare a farsi le carte dalla chiromante-amante.
Insomma senza muoversi
dall’America e addirittura dalla Nuova Inghilterra Simic pratica il suo
surrealismo filosofico. Le sue poesie piacciono, come a lui in fondo piace il
mondo che si è inventato. I tratti sono chiari, come nei quadri di De Chirico e Magritte che certo conosce bene.
Non c’è sfumato. Leggere Simic è come andare in una galleria, o sentirsi
raccontare delle fiabe che insieme terrorizzano e rassicurano. Dopo l’insonnia
si può sempre dormire.
Possiamo avvicinare
l’aspetto più riflessivo, metafisico, di Simic, attraverso le prose poetiche raccolte in Il mondo non
finisce, a cura di Damiano Abeni (Donzelli, pp. 155, E 9,30). Ma non
spaventarsi, i testi sono sintetici e realistici e godibili come quelli di Hotel
Insonnia.
“Mia madre era una
treccia di fumo nero. Mi portava in fasce sulle città in fiamme. Il cielo era
un luogo troppo vasto e ventoso perché un bambino vi giocasse. Incontrammo
molti altri che erano proprio come noi. Cercavano di infilarsi i cappotti con
braccia fatte di fumo. I cieli lontani erano pieni di piccole orecchie
avvizzite e sorde al posto delle stelle.”
Questa è un’istantanea da
un documentario sui campi di concentramento trasformata in uno spazio onirico.
La fantasia trasforma il reale in qualcosa di “ricco e strano”, non lo
neutralizza ma lo elabora e proietta nell’espressione. Come in Guernica.
Il mondo non finisce
è un’autobiografia neppure troppo segreta di Simic. Nella prima parte, rileva
Abeni, c’è il mondo dell’infanzia, nella seconda quello delle letture a
confronto con la storia, nella terza il presente messo in discussione. “Oh il
gran Dio della Teoria è solo un mozzicone di matita...” Nichilismo? Solipsismo?
No, Simic ha imparato dall’Europa e dall’America a fare i conti con le cose;
non lasciarle “mettersi in sella e cavalcare l’umanità” (Emerson), ma sottoporle
a revisione e combinatoria. Riaffermare la possibilità della parola. E
nonostante tutto, della felicità. My Blue Heaven.
“Il Manifesto-Alias”, 28 settembre2002