archivio libertino, antologia dei piaceri

a cura del dott. Mario Graibanous

Leopardi diceva che il tabacco giova all'intelletto "ed all'ingegno generalmente, alla facoltà di ragionare, di pensare, e di trovar delle verità ragionando". Un secolo dopo Lin Yutang era ancora lì a dire le stesse cose fondandole però su una antica, lontana ed esotica saggezza, per quanto alimentata da una solida formazione occidentale (aveva studiato ad Harvard). In questo brano dell' importanza di vivere ci descrive come disgraziatamente finì, una volta, per prender la decisione di smettere di fumare. Il testo non lo estraiamo direttamente da codesto popolare libro, bensì da un interessante Il romanzo del tabacco che comparve per i tipi delle edizioni Alpe nel 1945 in una collana che aveva un titolo, in questo caso, profetico e terribile: "i libri dell'indice".

la sigaretta e l'empia lotta contro il fumo secondo Lin Yutang

da l'Importanzii di vivere, Bompiani, Milano 1939 (oggi nel catalogo Longanesi)

Una volta fui abbastanza sciocco da smettere di fumare...

La storia di quelle tre settimane, in cui fui vile verso me stesso e mi negai volontariamente qualcosa che sapevo di grande sollievo all'anima, fu davvero assai vergognosa. Ora che sono in grado di guardarla dietro di me in modo razionale e positivo, riesco appena a capire come quell'attacco di irresponsabilità morale sia così a lungo durato.

Se dovessi descrivere dettagliata. mente la mia Odissea spirituale di giorno e notte durante quelle. tre settimane, alla maniera di Joyce, son sicuro che occuperebbe tremila buoni versi omerici, ovverosia centocinquanta fittte pagine di stampa in prosa. Certamente l'obbiettivo, per cominciare di li, era ridicolo. Perchè mai, in nome della razza umana e dell'universo, non dovrebbe un uomo fumare? Non so più cosa rispondere, ora. Ma simili irragionevoli impulsi capitano all'uomo ogni tanto,. suppongo per il gusto di andare contro corrente, di vincere le resistenze e così adoperare i suoi accessi di morale energia. All'infuori di questo, non so come spiegare. la mia subitanea, empia decisione di smettere di fumare. In altre parole, io conferii a me stesso una testimonianza morale del genere di quella della gente che si dedica alla ginnastica svedese - il moto per il moto, senza alcun lavoro veramente utile socialmente. Un lusso morale.

Nei primi tre giorni, provai,. a vero dire, una strana sensazione di sprofondamento lungo il canale alimentare, specialmente nella parte superiore. Per guarirla, presi della menta da masticare, del buon tè di Fukien, delle pasticche al succo di limone. Vinsi e ridussi questa sensazione esattamente in tre giorni. Questa fu la battaglia. fisica, e perciò la più facile e, a mio giudizio, la più disprezzabile. La gente che crede consista in questo l'essenza dell'empia lotta contro il fumo,. non ha la minima idea di quel che si dice. Dimentica che fumare è un atto. spirituale, e coloro che non hanno idea del significato spirituale del fumo, non dovrebbero interessarsene mai. Dopo i tre giorni, affrontai il secondo stadio, nel quale ebbe principio la vera battaglia spirituale. Mi caddero le scaglie dagli occhi, e capii che esistevano due categorie di fumatori, una delle quali non ne meritava neppure il nome. Per costoro quel secondo stadio non era mai esistito. Cominciai a capire perchè si senta parlare di "facili conversioni" di tanti fumatori, che sembra abbian smesso di fumare senza nessuna lotta. Il fatto che essi possano smettere simili abitudini con la stessa facilità con cui gettan via lo spazzolino da denti vecchio, mostra che non avevano mai veramente imparato a fumare. La gente fa loro credito di "forte libero arbitrio", mentre sta di fatto che non sono mai stati in vita loro veri fumatori. Per loro fumare è un atto fisico; come lavarsi il viso e spazzolarsi i denti la mattina - una mera abitudine fisica, animale, senza nessuna soddisfazione per l'anima. Dubito che questa razza di gente positiva possa mai esser capace di intonare la propria anima con estatica intuizione alla "Allodola" di Shelley o a un notturno di Chopin. È gente che nulla perde smettendo di fumare. Probabilmente godon di più

leggendosi le favole di Esopo con le rispettive mogli affigliate alla Società di Temperanza.

Per noi veri fumatori, invece, esiste un problema di cui né le mogli delle Società di Temperanza né i rispettivi mariti lettori di Esopo, hanno il minimo sentore. Per me, l'ingiustizia verso se stesso, e l'assurdità di tutto ciò, divennero subito evidenti. Il buon senso e la ragione cominciarono subito a ribellarsi, chiedendo: per quale motivo sociale, politico, morale, fisiologico o finanziario, sì dovrebbe adoperare il libero arbitrio per impedirsi di attingere quel completo benessere spirituale, quello stato di penetrante, immaginosa percezione, e di piena, vibrante energia creativa - condizione necessaria al nostro pieno godimento di una conversazione amichevole al canto del fuoco, o alla creazione di un calore comprensivo nella lettura di un antico libro, o alla produzione di quella perfetta cadenza di parole e pensiero che chiamiamo arte dì scrivere? -In simili momenti si sente che stender la mano verso una sigaretta è l'unica cosa moralmente giusta da fare, e che ficcarsi invece in bocca un gommino da' masticare, sarebbe criminosamente condannabile. Di simili momenti posso citarne qui soltanto pochi.

Il mio amico B. era arrivato da Pechino, ed era venuto a trovarmi. Da tre anni non ci eravamo più visti. A Peipino, dipoi chiamata Pechino, eravam soliti discorrere e fumare la sera, discutendo di politica, filosofia e arte moderna. Ed eccolo arrivato, ed eccovi impegnati nell'affascinante operazione di rievocare le memorie. Passammo in rivista tutta la combriccola di professori, poeti e imbecilli che solevamo frequentare a Peipino. A ogni puntata mi veniva di cercar, mentalmente, un sigaro, ma poi mi trattenevo e mi alzavo per. risedermi. Il mio amico, d'altro canto, continuava a chiacchierare tra le volute del sigaro, in perfetta letizia. Gli avevo detto che avevo smesso di fumare e avevo sufficiente rispetto di me stesso per non romper l'impegno proprio in sua presenza. Ma in cuor mio, non mi sentivo a mio agio, e cercavo ingiustamente di farmi apparir freddamente. razionale, mentre desideravo dividere la piena comunione di anime, con adesione completa alle emozioni. La conversazione tirò avanti in certo qual modo da una parte sola, col mio spirito presente a metà; poi l'amico se ne andò. L'avevo portata a fine di malumore. Con quella finzione del "libero arbitrio", avevo "vinto", ma altro non sapevo che di essere scontento. Pochi giorni

dopo, l'amico mi scrisse di non aver più trovato in me il vecchio, vibrante, estatico compagno, e insinuò che potesse dipendere dal risiedere a Sciangai. Fino a oggi non mi son potuto perdonare di non aver quella notte fumato.

Un'altra notte, si teneva una riunione di intellettuali, in un circolo, che costituiva di solito un'occasione unica per fumatori...

Io solo non fumavo e mi sentivo come un peccatore abbandonato da Dio. L'assurdità della cosa cominciava a essere visibile anche a me. In quel momento di chiaroveggenza capii che ero matto a non fumare. Cercai di rappresentarmi le ragioni per cui mi ci ero deciso e non una mi parve avesse un qualunque valore.

Dopo ciò, la coscienza cominciò a tormentarmi. Perchè, mi dicevo, cos'è il pensiero senza immaginazione, e come può l'immaginazione volare in alto sulle ali mozze di una miserabile anima di non fumatore? Poi, un dopopranzo, feci visita a una signora. Ero mentalmente pronto alla riconversione. Non c'era nessun altro nella stanza e sembrava che stessimo per avere una conversazione a due. La giovane signora fumava, con un braccio appoggiato sul ginocchio incrociato, leggermente inclinata in avanti, in atteggiamento sentimentale, nella sua forma migliore. Sentii che il momento era giunto. Mi offerse il pacchetto, e io, con decisa lentezza, estrassi una sigaretta, con la consapevolezza che, in quell'atto, ero guarito del mio temporaneo attacco di degradazione morale.

Tornato a casa, mandai il figliolo a comprarmi un pacchetto di Macedonia. A destra della mia scrivania, vi era un segno regolare di bruciatura, a causa della mia abitudine di collocarci le cicche accese. Avevo calcolato che ci sarebbero voluti sette o otto anni per attraversare con la bruciatura il piano del tavolo spesso due pollici, ed ebbi un rimpianto osservando che, dopo la mia disgraziata decisione, era rimasto fermo a circa mezzo centimetro. Fu col massimo piacere, dunque, che ricollocai la mia sigaretta accesa in quel vecchio segno, dove lavora senza posa per riprendere il suo lungo cammino.

 

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