radicalianarchici.it, lunedì 23 gennaio 2023

Fabio Massimo Nicosia

La dissoluzione della cultura radicale dal "Preambolo allo statuto" del 1980 a oggi

Defunto politicamente, anche se non statutariamente, il PR degli anni ’70, quello dei “diritti civili”, nasce tra il 1979 e il 1980 un altro PR dalla fisionomia molto meno precisa e tutta da costruire, fondata su diritto e giustizia, tendenzialmente nella direzione dei “diritti umani”, ossia qualcosa di alquanto diverso rispetto ai “diritti civili” della fase antecedente.

Pannella dunque scopre improvvisamente un tema fin lì squisitamente parrocchiale, la “fame nel mondo”, anzi, come dice lui, lo “sterminio per fame nel mondo”, anzi, lo “sterminio per fame e per guerra”, e quindi si alza un bel po’ il tiro rispetto al passato. Non estranea alla scelta è stata la vicenda dell’aborto, per ammissione esplicita congressuale dello stesso Pannella: siccome, raccontò il leader, gli scrivevano le vecchiette per dargli dell’assassino, lui cercò anche questa sorta di riscatto morale, mostrandosi attivatore della vita e non della morte, anche perché certe foto di Emma Bonino che ridacchia con la pompa della bicicletta in mano davanti a due gambe di donna spalancate non rappresentavano esattamente un bel vedere, e anzi evocava scenari di tipo “satanista”.

La “battaglia contro lo sterminio per fame e per guerra nel mondo” non produsse un granché, anzi, a mio avviso fu deleteria sul piano pratico, dato che tutto ciò che ne scaturì fu un sottosegretariato per l’economista socialista Francesco Forte, acciocché realizzasse strade e infrastrutture in Africa a benefizio dei soliti noti costruttori e cementificatori, questa volta su scala internazionale, comunque relativamente quattro soldi; Pannella insisteva sulla necessità di “interventi straordinari”, in aggiunta a quelli ordinari della cooperazione allo sviluppo, ma gli esiti furono quelli, ossia del tutto deludenti.

 In ogni caso, il tema non fu mai seriamente approfondito in ambito pannelliano, veicolandosi questa concezione sostanzialmente assistenzialista, pur se Pannella lo negava, non esistendo da parte radicale alcun piano di sviluppo economico complessivo dell’affascinante continente africano, e in effetti sarebbe stato troppo pretendere; in effetti, da quelle parti, la situazione tuttora è ben lungi dall’essere rosea, di fronte allo sfruttamento multinazionale delle preziosissime risorse naturali del popolo africano, il quale nulla ne ricava, venendone indotto alla migrazione. Del resto, come notò ancora il politologo Giorgio Galli, all’epoca indicato come appartenente all’area radical-socialista, il tema fame nel mondo era tipico dell’Internazionale Socialista di Willy Brandt, e quindi non si poteva dubitare della razionalità e della laicità dell’iniziativa di Pannella, la quale si espresse in buona sostanza nella raccolta di numerosissime sottoscrizioni di premi Nobel a un manifesto-appello alquanto retorico vergato da Pannella medesimo.

Se quindi gli effetti politici della “battaglia” furono scarsi, più rilevanti mi appaiono quelli culturali, soprattutto nell’ambito dell’evoluzione del pensiero pannelliano in funzione della determinazione della fisionomia del mondo radicale italiano; intendo dire che, per l’occasione, Pannella scrisse un ambiziosissimo “Preambolo allo statuto” del Partito Radicale, che, per alcuni suoi accenti ritenuti eccessivamente mistici, lasciò perplessi numerosi esponenti radicali storici, i quali pure rimanevano devoti a Pannella (penso ad esempio a Lorenzo Strik Lievers).

Si leggevano (e si legge) infatti in tale “preambolo”, approvato al congresso radicale del 9 marzo 1980 (io c’ero), proposizioni di questo tipo, non sempre immediatamente intellegibili, se non si conoscono molto bene, tanto il dibattito interno radicale, quanto alcune idiosincrasie di Pannella, nonché i suoi tic linguistici e le sue ossessioni, non sempre sviluppate con linearità nel tempo: “Il Partito Radicale proclama il diritto e la legge, diritto e legge anche politici del Partito Radicale,
proclama nel loro rispetto la fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni,
proclama il dovere alla disobbedienza, alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto, della legge.
Richiama se stesso, ed ogni persona che voglia sperare nella vita e nella pace, nella giustizia e nella libertà, allo stretto rispetto, all’attiva difesa di due leggi fondamentali quali: La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (auspicando che l’intitolazione venga mutata in “Diritti della Persona”) e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nonché delle Costituzioni degli Stati che rispettino i principi contenuti nelle due carte; al rifiuto dell’obbedienza e del riconoscimento di legittimità, invece, per chiunque le violi, chiunque non le applichi, chiunque le riduca a verbose dichiarazioni meramente ordinatorie, cioè a non-leggi. Dichiara di conferire all’imperativo del “non uccidere” valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa”.

La cosa divertente è, a parte Pannella, nessun radicale di mia conoscenza si è mai mostrato, in un dibattito pubblico, in grado di discutere con serietà e profondità tali concetti, che sono stati recepiti in buona parte acriticamente e passivamente, senza nemmeno venire pienamente compresi, in quanto un po’ troppo dati per scontati, così come molte volte si recepivano “le cose” di Pannella con sufficienza e non prendendole troppo sul serio, ossia così come si accetta che un nonno scemo possa dire le cose tipiche del nonno scemo, senza però darvi troppo peso.

Perché, in effetti, che cosa significa fare propri politicamente “il diritto e la legge”, senza precisare subito che “diritto e legge” potrebbero anche essere “diritto e legge” di merda? E infatti poi si precisa che si deve rimanere però sempre nell’ambito del rispetto delle carte di tutela dei diritti fondamentali. E tuttavia si intravede qui il problema che ha sempre accompagnato le iniziative nonviolente di disobbedienza civile, che, indipendentemente dalla loro desiderabilità specifica, non sempre è stato chiaro come venissero fondate concettualmente, ossia su quali basi di filosofia del diritto e della giustizia; potrà sembrare una questione di lana caprina o per specialisti, quindi irrilevante politicamente, e invece vedremo come essa abbia inciso profondamente sulla forma mentis dei radicali, concorrendo, per responsabilità primaria dello stesso Pannella, di quella che considero la degenerazione della politica radicale nei decenni successivi.

Il punto che, nella prassi radicale, la disobbedienza civile veniva praticata non in nome di astratti principi superiori, ma, veniva detto, in nome del rispetto della legge, ma, questa è la questione, non sempre del rispetto di una legge superiore -quella appunto riconducibile alle carte fondamentali dei diritti-, ma anche del rispetto di una legge qualsiasi, quando non di un regolamento o di una circolare, come pure è accaduto.

Pannella aveva l’esigenza politica, che si suppone astuta, di mostrarsi moderato, legalitario, rispettoso delle istituzioni, anche più realista del re, il che può anche rappresentare una tattica brillante, ossia prospettare come classica una proposta dirompente; tuttavia emergono gravi problemi, perché se l’intento di Pannella era di ricollegare ogni sua iniziativa a una qualche “legge”, che si potesse invocare, a sostegno dell’iniziativa, in quanto la legge sia supposta come “violata dal potere”, vi sono stati infiniti casi in cui ciò non era possibile, e tuttavia si continuava, con una certa fissazione spesso fastidiosa, a invocare la legge inesistente a supporto della propria iniziativa.

Per esempio, quando si è proposta la “disobbedienza civile” sull’aborto, o quando Pannella ha fumalo lo spinello in pubblico nel 1975 per ottenere la depenalizzazione del consumo, quale “legge” potevano mai invocare a proprio sostegno? Il fatto è che Pannella intendeva prendere le distanze da ogni giusnaturalismo -salvo poi in una fase rivendicare un “diritto naturale storicamente acquisito”, che è davvero un bel concetto-, e quindi trovava seccante affermare che disobbediva in nome di non si sa bene quale bene astratto superiore: riteneva più efficace farlo in nome dell’invocazione della legge, salvo che spesso tale legge non esisteva affatto. Quindi, se io mi batto per depenalizzare aborto e fumo di spinello lo farò evidentemente in nome di qualcosa d’altro che non è la “legge”, non esistendo alcuna legge superiore vigente che imponesse di legalizzare aborto e spinello. Se simili leggi formali superiori non esistono, in nome di che cosa il radicale dovrebbe proporre le proprie iniziative e battaglie? Evidentemente in nome di un principio non scritto, che sarà molto probabilmente il principio di libertà della persona, o magari altre volte più esattamente il principio di dignità, ed entrambi in effetti sono riconducibili a carte internazionali sui diritti fondamentali, le quali pure non si esprimano specificamente su aborto e spinelli, ma si resta nell’ambito dell’opinabile interpretativo.

Ancorare una battaglia necessariamente al rispetto di una legge diventa così una distorsione culturale, una fissazione formalistica, perché parrebbe che, in assenza di una legge da invocare, io la mia battaglia di principio in nome della libertà o della dignità non la possa compiutamente condurre; e allora abbiamo avuto casi di radicali (un nome per tutti, lo scomparso Lucio Bertè) che digiunavano per il rispetto di non si sa quale stolida circolare o legge regionale, rinforzando burocratismo, formalismo e sadduceismo mentale invece di combatterli, sacralizzando ed elevando al rango di feticcio norme che non lo meritano affatto, per il solo fatto di essere “scritte”: sicché, per evitare di incorrere in giusnaturalismo, si finisce con l’incorrere in legalismo etico, ossia in qualcosa di molto peggiore. Tale atteggiamento ha portato via via alla perdita, in ambito radicale, di un autentico spirito libertario, per passare a una nuova strana forma di “statalismo”, e ciò anzitutto proprio in Pannella, pur se all’ultimo colsi qualche segno di resipiscenza.

Si badi peraltro che il “preambolo allo statuto” il termine “Stato” lo ignora totalmente, il che lasciava ben sperare: si parla, infatti, null’affatto di “Stato”, ma di diritto e legge (molto meglio) e, ancora, di carte internazionali di tutela dei diritti umani, carte che vanno contro lo Stato molto più che a favore, dato che gli Stati, come si sa, sono i primi a violare i diritti umani. E tuttavia, successivamente, nella prassi radicale, forse ancor più che pannelliana, a onor del vero, è invalsa ossessiva la locuzione “Stato di diritto”, o “stato di diritto” con la minuscola, senza alcuna cognizione precisa di che cosa la locuzione stessa significasse, salvo che ciò ha favorito l’affermarsi di tesi sempre più statalistiche in ambito radicale.

Perché l’espressione “stato di diritto” può essere anche intesa in due modi diversi, per certi versi opposti, ma i radicali, in genere carenti sul piano culturale, ostentando indifferenza per tutto ciò che riguarda le questioni teoriche -salvo che poi, trascurandole, si è finito con il procurare gravi danni pratici-, non hanno mai sciolto con chiarezza il dilemma. E infatti può intendersi con quella espressione il corrispondente del tedesco Staatsrecht, ovvero il corrispondente dell’anglo-americano Rule of Law, e non si tratta certo dello stesso concetto: mentre il primo evoca l’idea di uno Stato legislatore, che fa tutte le leggi che vuole, anche le più stupide, in quanto suprema fonte del diritto, il secondo ci racconta di un governo intrinsecamente limitato da una legge superiore, che è in buona parte consuetudinaria e giurisprudenziale, ispirata a principi superiori non modificabili dal legislatore: il primo esprime l’idea di legge uguale per tutti, che è abominio, l’altro l’idea di eguaglianza di fronte alla legge, che è libertà; dato che la semplice “legge uguale per tutti” può significare anche autorizzare lo Stato a imporre a tutti la stessa cravatta –o lo stesso green pass-, mentre l’”uguaglianza di fronte alla legge” esprime l’idea di un limite posto alla legge stessa.

Quello che i radicali non  hanno mai compreso è che l’idea di “Stato di diritto” come da loro intesa e praticata, ossia invocando sempre la benevolenza del governante e del legislatore, è fallace, dato che pretende che il diritto posto da chi governa limiti chi governa, il che è un assurdo logico: se io sono fonte della legge che posso modificare, non sono vincolato dalla legge che posso modificare, dato che posso modificarla a piacere mio, sia pure nei limiti costituzionali; e tuttavia posso sempre modificare anche la costituzione, sicché è “Stato di diritto” anche quello che fa fuori la propria costituzione, sia pure nell’apparente rispetto di determinate procedure: il che quindi comporta, come dicevo sopra, che la legge non può essere giustificazione ultima di una battaglia politica, rendendosi sempre invece necessario invocare un principio superiore alla legge, si tratti della libertà, della dignità della persona, o di altra ideologia piaccia e si preferisca: vale a dire che la battaglia politica radicale avrebbe dovuto ancorarsi a una precisa filosofia politica, salva l’assenza completa, in quell’ambito, di una elaborazione simile.

Inoltre, il governante, oltre a potere modificare la legge, la può impunemente violare in sede di arcana imperii, e quindi anche sotto tale profilo il diritto dello Stato di diritto non limita affatto il potere dello Stato di darsi il diritto che vuole e ritiene più opportuno in nome della ragion di Stato. Non può esserci poi stato di diritto, se non ci sono contrappesi; si dirà che i contrappesi sono rappresentati dai poteri divisi della divisione dei poteri, e tuttavia tale impostazione denota la cattiva lettura di Montesquieu, o incompleta, del sistema inglese, che non prevedeva poteri divisi a tavolino -che in realtà poi si costituiscono in cartello, in un’intesa orizzontale moltiplicatrice dei reciproci poteri-, ma un equilibrio spontaneo tra giurisdizione e corona, che non era stabilita a tavolino attraverso una preventiva spartizione/moltiplicazione dei poteri, ma era frutto della storia. Se, quindi, per aversi “diritto” e non abuso di dominio, occorre contrappeso, occorre che il contrappeso sia fuori dallo Stato di diritto, ossia occorre calare lo Stato (di diritto o meno) all’interno della teoria della concorrenza, sicché lo Stato viene controbilanciato perché ammette competitors nelle proprie funzioni, e, in base alle funzioni, si determinerà la dimensione di scala ottimale dell’istituzione di riferimento.

Finché lo Stato sarà monopolista della forza e delle qualificazioni di legittimità sul territorio, esso sarà poco distinguibile, proprio dal punto di vista tecnico, da una mafia vera e propria, solo molto più intrusiva e grande sul territorio, sul quale costruisce l’”omertà” dei cittadini che lo sostengono passivamente. Se invece si entra nell’ordine di idee, conforme del resto al diritto comunitario europeo, che lo Stato deve essere impresa di servizi tra imprese di servizi, allora lo Stato cessa di essere tale, e allora avremo davvero concorrenza tra istituzioni (Laski), e lo Stato dovrà meritarsi il consenso proponendosi come soggetto compresente con gli altri, solo in grado di svolgere alcune funzioni che altri non hanno la dimensione di scala per potere svolgere. A questo punto, non si tratterebbe più di uno “Stato”, ma di qualcosa di molto diverso, destinato ad essere riassorbito dal mercato e dalla comunità: solo in tal caso, allora, potremmo parlare di bilanciamento dei poteri, dato che i poteri, per bilanciarsi reciprocamente, devono appartenere a soggetti diversi –principio antitrust applicato allo Stato- e non concentrarsi fittiziamente nello stesso soggetto, come avviene nella grande mistificazione della divisione dei poteri (che, come diceva Benjamin Constant, è moltiplicazione dei poteri), che in realtà è cartello stabilizzato dalla legge dei diversi poteri autoritari.

Il fatto è che i radicali non hanno osato giungere, negli anni tra gli ottanta e fino alla morte di Pannella, a simili esiti libertari, perdendo una grande occasione di rinnovamento, giacché il “preambolo” segna anche la sepoltura del Pannella “anarchico” degli anni ’70; quello che parlava spesso di “deperimento del potere”, che scriveva di volere ripudiare ogni occupazione del potere stesso, che andava, nel 1972, al congresso della Federazione Anarchica Italiana dichiarando strategicamente la volontà dei radicali di sciogliersi nel movimento anarchico, quello che con gli anarchici conduceva le marce antimilitariste. A quel Pannella anarchico se ne sostituisce un altro “liberale” molto meno accattivante e spesso pedante e tardivo; c’è però un aspetto singolare, che merita di essere sottolineato: ai congressi radicali degli anni ’70, la locuzione “Stato di diritto” (titolo attribuito, in quel momento, dagli Editori Riuniti, quindi dal PCI, a una raccolta di saggi politici di Immanuel Kant) non veniva praticamente mai invocata; essa venne invece rilanciata, in quegli anni, da ambienti di estrema sinistra: la cosa non sorprenda, si trattava infatti sempre di una chiave “difensiva”, per cui quell’espressione iniziò sempre più spesso a essere utilizzata con vezzo da esponenti dell’Autonomia Operaia come risposta alla repressione da loro subita da parte dei magistrati del PCI, per ribadire la loro analisi.

Solo dopo iniziò a essere ripetuta come un mantra in ambito radicale, fino a giungere, da parte dello stesso Pannella, a veri e propri strafalcioni culturali, sui quali mi soffermo, perché sono alla base poi anche di quanto qui ci interessa sul piano della più generale degenerazione culturale in senso statalistico e autoritario, proprio nel momento stesso in cui essa dichiara di voler essere “liberale”, dell’intera sinistra, che è il tema che mi interessa ai fini di questo lavoro: ossia ancora una volta i radicali sono all’avanguardia, questa volta nelle cose malvage, ossia nel senso di volgere il “liberalismo dei diritti” in “liberalismo degli obblighi” e del vituperato “bene comune”.

Lo strafalcione più grave si presenta quando i radicali, e poi altri, chiedono di “legalizzare” attività che sono già libere! Ossia, non l’aborto e la droga quando sono vietati, ma altro che la legge non vieta, e però, chissà perché, i radicali sentono pressante l’esigenza di una loro disciplina normativa, il che appare loro molto “liberale”, mentre è solo espressione di una cultura statalista, che ti saresti aspettato da socialdemocratici o comunisti, ma non da loro. Qui emergono i limiti culturali di Pannella, come quando si convinse, ripetendolo ossessivamente, che tutto deve essere legalizzato”, senza rendersi esattamente conto di che cosa ciò poi comporti nella pratica, ossia aumentare l’oppressione da parte dello Stato invece di ridurla.

 Premesso che il cosiddetto principio di legalità liberale comporta che la costituzione e la legge imbriglino il potere, sia pure riuscendoci poco, e non il cittadino, che invece è imbrigliato dalla selva normativa inestricabile, dire che una cosa è “legale” può significare due cose molto diverse: a) o che è un tuo diritto compiere un’azione (agere licere), per cui si può compiere direttamente un'azione senza renderne conto a nessuno: in questo caso “legale” è sinonimo di legittimo nel senso di “lecito”, e quindi di libero; b) o che la legge disciplina, “regolamenta” una qualche attività, salvo che i limiti della regolamentazione possono essere i più vari: un libertario si batte per ampliare il novero delle attività indicate in a), non delle attività indicate in b). Ma tanto meno si batte perché le attività indicate in a) passino in b)!

 Ad esempio, grattarsi il naso rientra nelle attività sub) a: il rischio grosso è che i fautori impazziti del “legalizziamo tutto” vogliano trasportare il grattarsi il naso da a) a b), il che comporta l’introduzione di tutta una serie di vincoli da evitare, se “legalizzare” significa introdurre tutta una serie di regole burocratiche e poliziesche assolutamente non necessarie. Esempio eclatante è il caso della prostituzione, o se si preferisce del sex work, attualmente tutto sommato libera, visto che non è reato né prostituirsi, né fruirne, che vari progetti di legge di folle “legalizzazione” assoggettano a regole assurde, compresa l’iscrizione delle prostitute all'albo delle Asl, con conseguente marchio di infamia: con l'ulteriore conseguenza che, visto che prostituzione significa scambiare sesso con qualche utilità, una signora o signorina (vale ovviamente anche per i maschi), la quale accetti di fornire una prestazione sessuale in concomitanza con l’offerta di cena, o borsetta o paio di scarpe, verrà punita dallo Stato “legalizzatore” con sanzioni di carattere misto morale-giuridico. Per evitare questo, alcune proposte limitano tali adempimenti al prostituto “professionale”, con ciò introducendo questo ulteriore marchio d’infamia, e discriminando tra persone sulla base di un’assurda etichetta che lo Stato ti impone.

 Ma non è finita. Francesco Rutelli, notoriamente già radicale e a suo tempo favorito di Pannella, propose di rendere obbligatorio nel rapporto sessuale a pagamento l’uso del preservativo! Ora, si sa che i politici parlano spesso per fare prendere aria alla bocca, ma prevedere un obbligo significa introdurre controlli e sanzioni; con la conseguenza che dovremmo immaginare l’ingresso forzoso di forze dell’ordine nei luoghi dove avvengono rapporti sessuali a pagamento -che poi che cosa ne sai che è a pagamento, finché non cogli l’atto del pagare-, per verificare sotto le coperte se il preservativo sia ivi situato o no!

Per comprendere gli assurdi logici, ai quali questo genere di forma mentis ha condotto, basti pensare a come un militante radicale propose qualche anno fa a un congresso di pronunciarsi a favore dell’abolizione dell’uso del contante (proposta per inciso assurda, posto che il contante è la moneta legale per definizione, e quindi non si comprende come possa essere vietato l’uso della moneta legale per definizione, a favore dell’emissione di crediti-debiti bancari privati, quali sono quelli espressi da una carta di credito); ebbene, il simpatico esponente radicale propose il seguente ragionamento totalmente contorto: siccome il contante consente l’esercizio di attività oggi illegali (per fortuna), noi aboliamo il contante, in modo tale che lo Stato “si senta costretto” a legalizzare attività illegali o ai limiti della legalità come commercio di stupefacenti e prostituzione!

 Vale a dire che costui pensava, limitando delle libertà, di costringere poi lo Stato a ripristinare quelle libertà, però diminuite, sotto forma di loro regolamentazione da parte dello Stato stesso, in modo che il loro esercizio sia poi reso trasparente alla tua banca e agli organi pubblici, in quanto chiaramente risultanti dall’estratto conto bancario: come si vede, la mentalità distorta e contorta del “legalizziamo tutto” ha condotto i radicali a lavorare per il Re di Prussia, finendo con il proporre di rinforzare poteri pubblici e privati, invece di combatterli come dovrebbe essere nella loro vocazione. Ma questo poi lo si è visto molto bene nella vicenda della cosiddetta pandemia, che ha visto i radicali totalmente proni alle proposte di Draghi e Speranza ed entusiasti di fronte al controllo digitale del green pass: si vede che questa dei controlli digitali è diventata la loro nuova vocazione, in senso diametralmente opposto a quella che è sempre stata la cultura radicale dei decenni lontani.

Concludendo sulla questione del “Preambolo allo statuto”, non si può infine lasciare sotto silenzio la fuga in avanti pannelliana sul fatto che il precetto nobile del “non uccidere” debba nientedimeno diventare “legge storicamente assoluta, senza eccezioni”, nemmeno quella della legittima difesa, affermazione che già allora lasciò perplessi diversi radicali. In effetti, accanto alla legittima difesa esiste lo stato di necessità; ma a parte tale puntualizzazione, io non mi sento di avallare la messa fuorilegge del tirannicidio, ad esempio; ma occorre anche considerare come i radicali, Pannella per primo, abbiano fatto carne di porco di tale grave presa di posizione in occasione di tutte le “esportazioni della democrazia” amerikane, fino all’attuale questione Ucraina, che vede i radicali stessi schierati tra gli entusiasti esportatori di armi. Il che contrassegna ormai puramente e semplicemente la fine dell’esperienza radicale come la conoscemmo: sipario.