"il manifesto"
30 dicembre 2000Non bruciate i libri che non leggete
SANDRO PORTELLI
Roma, 21 dicembre, liceo Mameli. Dibattito sulla mozione della regione Lazio sui libri di storia. Dice un ragazzo: "E' inaccettabile che nei libri di testo si scriva che è stato giusto manipolare la storia per imporre l'antifascismo". Chiedo, dove sta scritto? E lui: "Camera-Fabietti". E' il libro che i giovani fascisti hanno timbrato come "fazioso" nel raid in una libreria di Roma, principale imputato sui manifesti di Alleanza nazionale. Con la studiata lentezza di chi non aspettava altro, apro la borsa e tiro fuori il libro, già segnato alla pagina incriminata: "'Necessaria' deformazione della storia? Perché dunque la Repubblica potesse essere proposta come patria comune di tutti gli Italiani è stato necessario, per un verso, alterare la prospettiva storica" arruolando tutti gli afascisti nell'antifascismo, negando "la qualifica d'italianità ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana" e dimenticando "l'ignominia delle foibe". E conclude: "Questo insieme di alterazioni e censure, per quanto spiegabile con la necessità di fondare la nuova Italia democratica... deve cessare" perché "nessuna solida unità nazionale può poggiare sulla reticenza o sull'alterazione della verità storica". Cioè: il contrario di quello che credeva il malcapitato ragazzo. Come mai avevo già la pagina pronta? Perché in dieci giorni ho fatto sei assemblee in scuole e ogni volta mi sono sentito riproporre le stesse tre frasi: questa del Camera-Fabietti, un'altra attribuita allo stesso libro in cui si direbbe che Berlusconi è come Somoza, e un passo dell'Ortoleva-Revelli in cui si spiegano le ragioni del consenso al culto della personalità di Stalin. Della prima, abbiamo parlato; la seconda semplicemente non esiste: magari c'era in qualche edizione precedente che non ho visto, ma non in questa che è del 1999 e quindi anteriore alla mozione Storace. La terza - come mostra l'uso di verbi quali (cito a memoria) "veniva percepito" "dava la sensazione", "poteva sembrare" - non è un'adesione al culto staliniano ma una spiegazione delle sue fondazioni soggettive. Mi è dispiaciuto mettere in difficoltà un ragazzino. La colpa non è sua, ma di chi che non gli insegna a controllare da sé le fonti, e lo manda allo sbaraglio con informazioni sbagliate (che si gonfiano di bocca in bocca: un ex deputato pannelliano ha detto agli studenti del Visconti che sul Camera-Fabietti c'è scritto che le foibe le hanno fatte i nazisti. Anche lui non l'aveva letto). Gli interlocutori di destra si presentano ai dibattiti con fogli su cui sono elencate le citazioni incriminate, persino con le indicazioni di lettura: all'Avogadro, l'onorevole Rampelli (primo firmatario della mozione) crede di impressionare gli studenti mettendo Hitler al posto di Stalin nel passo di Ortoleva-Revelli; il giorno dopo, al De Sanctis, il leader studentesco di Forza italia ha un foglio con la stessa citazione e "Stalin" cancellato: chiaramente, un copione predisposto per fare la stessa scena e distribuito agli addetti ai dibattiti. C'è una regia, alle spalle di questi interventi. Quando uno gli fa vedere che le frasi del loro repertorio o non esistono o significano il contrario, dicono: potremmo fare decine di esempi. Ma non ce li hanno e si arrampicano sugli specchi. Giordano Bruno Guerri si ricorda di un libro che dice che dopo la prima guerra mondiale i serbi volevano fare uno stato slavo. "Ebbene?" "Come! non c'è scritto che è finito con la pulizia etnica!" Rampelli cita la definizione di gulag nel dizionario di De Mauro (ma non è un libro di testo, osservano gli studenti): "nel sistema sovietico, campo di lavoro forzato". La faziosità starebbe nel fatto che non ci sono i dettagli degli orrori ivi perpetrati. Gli suggerisco di guardarsi se nella definizione di "piantagione" si parla degli schiavi frustati e ammazzati. Forse un dizionario serve ad altro. Tutto questo mi ha insegnato alcune cose sulla cultura di destra. La prima è che faticano a distinguere fra spiegazione e giustificazione: c'è uno storicismo perverso per cui far capire come nascono l'uso pubblico della storia nella repubblica o il mito di Stalin equivale e giustificarli. La cosa è complicata da differenze culturali per cui scambiano per elogio quello che per noi è un'accusa: per chi si definisce comunista, "culto della personalità" è un'accusa, ma è una bella cosa per i seguaci del Fuehrer, del Duce o del capo-azienda. Siccome legittimano il fascismo col consenso, allora credono che parlare di consenso a Stalin significa legittimarlo. In altre parole: per loro è una soluzione quello che per noi è un problema. La ricerca rivede le sue conclusioni per tenere aperto il discorso, il revisionismo storico di destra la fa per chiuderlo, con una specie di partita doppia a somma zero, Stalin bilancia Hitler, le foibe pareggiano le Ardeatine, e chi s'è visto s'è visto. Anche per questo ho l'impressione che dei morti delle foibe in quanto tali non gliene importi gran che (chiedo a Rampelli quanti sono, e lui spara una cifra a caso di cui non sa dare la fonte). Non sarà un caso se gli unici libri seri li hanno fatti gli storici triestini antifascisti. L'altra scoperta è quanto sia viva la modalità paranoica nella cultura di destra. Mi sento ripetere ogni volta che da cinquant'anni in Italia si insegna "una sola verità" (io ho finito il liceo nel 1960 e di antifascismo non c'era neanche l'odore!) perché c'è l'egemonia marxista (col beneplacito della Chiesa cattolica e della Nato) e l'insegnamento della storia nelle università è infeudato ai comunisti (per stare solo alla Sapienza: De Felice, Romeo, Gaeta, Scoppola, Paolo Brezzi, De Rosa, Sabatucci, Aga Rossi... tutti liberali o cattolici. Certo, non sono fascisti, ma non è più obbligatorio!). Giordano Bruno Guerri, i cui peraltro non spregevoli libri di divulgazione sono stati pubblicati da Feltrinelli e che appare spesso in televisione, si presenta come vittima emarginata perché non ha avuto abbastanza recensioni (neanche il mio ultimo libro è stato recensito sul Giornale, Il Tempo, La Padania, La Nazione, Il Secolo, né sul Corriere della Sera, che pure ama fare la lezione agli altri. Ma non mi viene in mente che sia per un complotto fascista). Che succederebbe se leggessimo noi gli stessi libri con la stessa minuziosa ottica paranoica? Come mai sul Camera-Fabietti ci sono cinque pagine sulle foibe e cinque righe su Marzabotto e le Fosse Ardeatine? Perché non si parla di Civitella, Padule di Fucecchio, Leonessa, Caiazzo, e nemmeno di Sant'Anna di Stazzema? Cosa vogliono nascondere, costoro? Per quale fazioso disegno si passa sotto silenzio il numero e la sistematicità delle stragi nazifasciste in Italia? E siamo sicuri che le pagine sulle foibe non sono faziose? Nella lotta antipartigiana, leggo, le truppe italiane "certo non si attirarono le simpatie dei popoli assoggettati". Tutto qui? La commissione alleata per i crimini di guerra accertò più di dodicimila vittime dei 29 mesi di occupazione italiana (fra campi di concentramento, massacri vari, fucilazioni, deportazioni): perché si tace su questo crimine? Ma andiamo più indietro: come mai sbriga in due righe la guerra italo-etiopica? Dove sono i gas, le pallottole dum-dum, il massacro di Debrà Libanòs, più di mille ammazzati, fra cui 350 monaci, per un attentato a Graziani? Quale oscuro disegno colonialista sta dietro queste omissioni? Secondo me, invece, fanno bene gli autori a insistere sulle foibe più che sulle Ardeatine: per una coscienza di sinistra, la ferita profonda sono le prime, non le seconde. Non abbiamo bisogno di calcare la mano sulle stragi per essere contro il fascismo. Per questo è perdente affrontare il confronto con atteggiamento concessivo: parlare delle foibe non deve essere una concessione alle ragioni della destra ma una riflessione sulle nostre. La destra si è troppo abituata a dettare i termini del discorso - i libri sono faziosi, gli immigrati sono troppi, i clandestini sono criminali, il costo del lavoro è troppo alto... - e trovarsi davanti gente che gli concede i presupposti di fatto e poi cerca di negoziare sulle conseguenze e i rimedi. Intanto, più concedi e più esigono (il momento più divertente in tutte queste assemblee è stato quando un invasato professore di un liceo romano ha accusato Guerri di faziosità perché sottovalutava la portata della vittoria franchista a Guadalajara; una volta che entri in questo vortice, nessuno è al riparo). Bisogna contestargli le premesse, invece: il momento più alto è stato quando un ragazzo ha detto allo sconcertato Rampelli: ma onorevole, il nostro libro non è fazioso. Dove, tornando all'episodio iniziale, si vede la differenza fra il ragazzo di destra che crede a quello che gli dicono e obbedisce e combatte di conseguenza, e un ragazzo che pensa con la sua testa, va a controllare di persona, e scopre che il re è nudo.