da “barbadillo.it”, aprile 2022
Nicola Caricola
Jacques Perrin alter ego di Pierre Schoendoerffer,
romanziere e premio Oscar
Jacques Perrin, scomparso il 21
aprile, è ricordato nel mondo per i suoi documentari naturalistici (Il popolo
migratore, ecc.) da lui prodotti e talora anche diretti, che hanno avuto
spettatori a decine di milioni. Per fare un paragone, simili incassi li hanno
fatto solo i documentari di Gualtiero Jacopetti tra
anni ’60 e ’70.
In Italia Perrin è associato, dai
pochi che si sono accorti che esistesse, a Nuovo cinema Paradiso. Nella
versione integrale di Giuseppe Tornatore, questo film enfatico era un
polpettone e il pubblico giustamente lo respinse. Il produttore Franco
Cristaldi lo sfrondò parecchio riproponendolo ben più breve. Così il film di
Tornatore/Cristaldi ebbe, a quel punto giustamente, perfino l’Oscar per il film
non in lingua inglese. Il problema è che il protagonista di Nuovo cinema
Paradiso è Philippe Noiret, non Perrin…
Per evocare credibilmente il Perrin
“italiano”, giovanissimo, occorre risalire ai primi anni ’60 della Ragazza con
la valigia di Valerio Zurlini e a quello di poco successivo delle Rose rosse per
Angelica di Steno, con Perrin accanto a Raffaella Pelloni, alias Raffaella Carrà. Ma di questi titoli
italiani scrive accanto Franco Grattarola.
Di un attore, regista e produttore come Perrin
è il complesso del suo lavoro che va dunque evocato. In Francia è stato ben più
noto che in Italia, a differenza dei quasi coetanei Delon, Belmondo,
Trintignant. C’è una continuità nell’uomo e nell’artista: l’essere stato sempre
una persona di sinistra, ma essersi fatto un nome come personaggio di destra.
Ciò è avvenuto in particolare come alter ego di Pierre Schoendoerffer, regista francese di origina alsaziana, nei
titoli principali della sua filmografia: due classici come La 317ème Séction (premio per la sceneggiatura al Festival di Cannes
nel 1966, uscito in Italia come 317.mo battaglione d’assalto); e Le Crabe-tambour (1977, in Italia L’uomo del fiume). Notevoli,
ma non capolavori sono, L’Honneur d’un capitaine (1982, inedito in Italia) e, infine, La-haut (Lassù, 2003, dove Perrin si
vede solo ventenne, nei frammenti di La 317ème Séction).
Militare della Marine Nationale,
cioè della Marina Militare, come operatore cinematografico in prima linea in
Indocina, Schoendoerffer partecipa alla battaglia di
Dien-Bien Phu nel 1954 e
cade prigioniero dei Vietminh. Torna in Francia
ridotto a uno scheletro. Non ha solo filmato la guerra, le è sopravvissuto
combattendo.
Parrebbe una storia tipicamente francese. Ma la vicenda di Schoendoerffer evoca quella di un regista italiano, il
padre del neorealismo, Francesco De Robertis, anche
lui ufficiale di Marina e, come il personaggio di Perrin
nell’Uomo del fiume, coinvolto in un’insurrezione: per De Robertis
quella della Repubblica Sociale nel 1943-1945; per il personaggio di Perrin quella dei “generali di Algeri” nell’aprile 1961.
Vent’anni dopo i fatti d’Algeria, nell’Uomo del fiume un
ufficiale di Marina (Jean Rochefort), che non ha
aderito al golpe di Algeri, comanda un cacciatorpediniere. Incrocia il
peschereccio d’alto mare dell’amico di un tempo, ormai radiato dai ranghi. I
due si vedono solo coi binocoli, separati nel tempo dalla politica e nello
spazio dalle onde attorno alle isole atlantiche di St. Pierre et Miquelon…
Nel 1968 Schoendoerffer ha vinto
l’Oscar col documentario La pattuglia Anderson sulla guerra americana nel
Vietnam. Quando in Italia lo trasmette il secondo canale Rai, la stampa lo
passa sotto silenzio, come opera filoamericana firmata di un colonialista
francese. Io, che ho già visto 317.mo Battaglione d’assalto, invece m‘incanto.
Passano anni e anni. L’11 ottobre 2003 Schoendoerffer
mi riceve a Parigi. E mi racconta la sua vita per un’intervista rimasta
inedita. Mi racconta che nel 1965 Perrin gli si era
presentato paffuto, offrendosi per il personaggio principale di 317.mo
battaglione d’assalto, che però doveva essere magro. Mi racconta anche che Perrin torna da lui un mese dopo, deperito come auspicato,
senza che nemmeno che il ruolo gli sia stato promesso. Schoendorffer
ne è colpito e lo assume. Mi spiega perché: “Volevo attori disposti a
sacrificarsi proprio come si fa in guerra”.
Nelll’ottobre 2003 Schoendoerffer
è un giovanile settantenne, che ha appena pubblicato il romanzo L’aile du papillon. Me lo dedica,
mentre nel salotto, a Parigi, XVI arrondissement, il gatto di casa vaga
osservandomi. Mi osserva anche Madame Schoendoerffer,
figlia di un ambasciatore della “France Libre” di De Gaulle: per lei un
italiano è un (ex) nemico.
Con un percorso a cerchi concentrici il gatto di casa mi si
avvicina. Ricordo che Nell’Uomo del fiume, mentre risale nel 1953 il Mekong su
una vedetta, l’ufficiale interpretato da Perrin ha un
altro gatto, ora tra le braccia, ora a tracolla…
Noto che Il gatto di casa ha intanto sciolto benevolmente
la riserva su di me: si arrampica sulla poltrona, poi sul mio braccio, infine
mi si mette a tracolla e s’addormenta. E’ una sciarpa
vivente. Madame Schoendoerffer ora sa ciò che voleva
sapere e infine mi sorride.
Franco Grattarola
Perrin un francese
a Cinecittà
Uno spaccato del percorso artistico in Italia dell'attore,
regista e produttore transalpino
Per capire l’involuzione dell’industria cinematografica e,
di conseguenza, del cinema italiano, basta tornare indietro nel tempo di
qualche decennio. Tra la fine degli anni 50 e per buona parte degli anni 70 del
secolo scorso, il nostro cinema è stato storicamente anche, se non soprattutto,
un cinema di coproduzioni (con le altre nazioni europee, ma non solo) e di
grandi produzioni estere (il fenomeno della cosiddetta Hollywood sul Tevere)
che, grazie alle leggi varate da un politico lungimirante come Giulio
Andreotti, riusciva sia a incrementare il PIL, sia a essere considerato
economicamente e strutturalmente solido. Una fertile filiera produttiva che
coinvolgeva tutti i comparti della nostra industria cinematografica, dai produttori
ai registi, dagli stabilimenti di sviluppo e stampa alle società di doppiaggio,
dai montatori alle parrucchiere, dai divi fino all’ultima comparsa.
Oggi, invece, l’unico rapporto che il cinema italiano ha
con le altre cinematografie si limita ai pedissequi rifacimenti dei successi
altrui (da Cose dell’altro mondo, ispirato a un film
americano-messicano-spagnolo, a Il nome del figlio e Corro da te, ispirati ad
altrettanti film francesi). L’unica eccezione in questo campo è costituita da
Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese, che, al contrario, ha generato
un’infinità di rifacimenti in tutto il mondo.
Lo scambio (co)produttivo più proficuo è stato senza dubbio
quello con la vicina Francia. Maggioritarie o minoritarie che fossero, le
coproduzioni italo-francesi potevano infatti vantare, oltre che la presenza
dietro la macchina da presa di maestri come Julien Duvivier,
Claude Autant-Lara, Vittorio De Sica e Dino Risi, il
nome in cartellone di giovani promesse quali Jean Sorel,
Alain Delon, Jean-Paul Belmondo, Romy Shneider
(austriaca di nascita ma francese d’adozione), Maurice Ronet,
Philippe Noiret, Bernard Blier
e di tanti altri attori spesso di eguale bravura, ma non sempre di eguale fama.
Jacques Perrin, morto il 21
aprile 2022 nella natia Parigi all’età di ottant’anni, è stato, senza essere un
divo, uno dei migliori attori francesi che abbiano mai calcato un set italiano.
E questo ben prima che il suo nome fosse indissolubilmente legato al film
premio Oscar Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore. La sua figura
elegante e la sua recitazione, efficace e mai sopra le righe, hanno
attraversato, grazie all’interpretazione di personaggi il più delle volte
memorabili, oltre quarant’anni del nostro cinema.
Fautore dell’esordio italiano di Perrin
è il regista Valerio Zurlini, che assegna all’attore un ruolo centrale nella
sua opera terza La ragazza con la valigia (1961, un film drammatico che
riecheggia la nouvelle vague). Il sodalizio tra
l’attore e il regista proseguirà con Cronaca familiare (1962, coprotagonista
insieme a Marcello Mastroianni e Salvo Randone),
tratto da un omonimo romanzo di Vasco Pratolini, per concludersi, nel 1976, con
la trasposizione cinematografica del capolavoro di Dino Buzzati (e opera ultima
di Zurlini) Il deserto dei Tartari, in cui veste l’uniforme militare del
protagonista Giovanni Drogo.
E’ proprio Perrin,
che dalla fine degli anni 60 alterna brillantemente l’attività di attore a
quella di produttore, a identificare in Zurlini il regista adatto (in
precedenza, vivente Buzzati, si era pensato a due validi cineasti francesi come
Claude Sautet e Pierre Schoendoerffer)
per portare sul grande schermo il romanzo buzzatiano.
«Sono io che, da produttore – ha dichiarato infatti
l’attore in un’intervista di qualche anno orsono –, l’ho scelto per Il Deserto
dei Tartari, cui aspiravano in tanti, da Antonioni a Sautet.
Zurlini era capace di imprimere il sentimento ai giri di macchina, di farvi
affiorare i movimenti dell’anima»1.
Oltre al sodalizio, più duraturo, con Zurlini, Jacques Perrin ne stringe altri con autori egualmente importanti
come Vittorio De Seta (Un uomo a metà, 1966, e L’invitata, 197o), Luigi Magni
(Il generale, 1987, ennesima biografia cinetelevisiva di Giuseppe Garibaldi, e
In nome del popolo sovrano, 1990, rivisitazione del Risorgimento in chiave
dichiaratamente anti-leghista, ambedue realizzati sotto l’egida
politico-produttiva di Bettino Craxi) e Giuseppe Tornatore (il citato Nuovo
Cinema Paradiso, 1988, e Stanno tutti bene, 1990).
Il resto della sua filmografia italiana va da opere
realizzate da bravi registi come Mauro Bolognini (La corruzione, 1963, da un
testo di Alberto Moravia), Duccio Tessari (Il
fornaretto di Venezia,1963), Florestano Vancini (La
calda vita, 1963, da un omonimo romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini),
Steno (Rose rosse per Angelica, 1966, film in costume, ispirato a un racconto
di Dumas padre, che nel titolo richiama la coeva e famosa serie cinematografica
francese di Angelica, anche se qui l’eroina eponima ha le fattezze della futura
diva televisiva Raffaella Carrà), Carlo Carlei (La
corsa dell’innocente, 1992, ultimo film prodotto da Franco Cristaldi) a opere
di registi meno ambiziosi o più marginali come Silvio Amadio (Oltraggio al
pudore, 1964), Aldo Lado (La disubbidienza, 1981, da
un omonimo romanzo di Alberto Moravia), Ettore Pasculli
(Fuga dal paradiso, 1990), Enrico Roseo (C’è Kim
Novak al telefono, 1993, opera prima e ultima di un produttore e
sceneggiatore), Fulvio Wetzl (Prima la musica poi le
parole, 1999) e Piero Livi (Maria sì, 2004).
L’attore francese compare inoltre in Il lungo silenzio
(1993, coproduzione italo-franco-tedesca ideata e scritta da Felice Laudadio) e
Ti voglio bene Eugenio (2002), due interessanti film rispettivamente diretti
dalla tedesca Margarethe von Trotta (regista
dell’epocale Anni di piombo, 1982) e dall’italo-spagnolo Francisco José Fernandez,
e in un nutrito numero di serie televisive italiane (tra i diversi registi che
l’hanno diretto in quest’ambito meritano una menzione particolare un maestro
come Sandro Bolchi e un veterano come Alberto Negrin).
Interrogato su quale, tra i tanti interpretati, giudicasse
il suo film italiano migliore, Perrin ha risposto
«forse Il Deserto dei Tartari. Zurlini era malato, stanco. Era più che mai
dentro la storia raccontata da un Dino Buzzati ‘kafkiano’: l’attesa, romantica,
infinita, infinitamente frustrata, del grande combattimento con i Tartari, che
diventa l’attesa della morte. Il giorno agognato arriva, ma tardi: in tutti
quegli anni trascorsi nel chiuso della fortezza, i giovani soldati hanno perso
la gioventù, hanno perso la vita»2.
Non possiamo non concordare con il compianto attore: Il
deserto dei tartari è il suo film (non solo) italiano migliore e quello di
Giovanni Drogo è il ruolo che riassume interamente la vita e la carriera di un
grande e sottovalutato artista come Jacques Perrin.
Note
1-2 Mario Serenellini, Jacques Perrin l’esploratore, in «Alias» (supplemento di «Il
Manifesto»), 22 luglio 2017 (reperibile sul sito internet del quotidiano).