di un articolo sugli
“anarco-capitalisti” e altro
Non so se agli epigoni italiani di Murray Newton
Rothbard e del Libertarian Party americano sia passato sotto agli occhi, col
titolo Anarco-capitalisti d’America, un articolo pubblicato il 9
gennaio di quest’anno sull’ “Unità”. Autore ne è Corrado Ocone,
il quale mi risulta essere
collaboratore di svariate testate nonché membro del comitato scientifico di una piccola rivista
chiamata “Critica liberale”, un nome che - c’è da credere – può
essere ritenuto del tutto abusivo da parte dei libertari “anarco-capitalisti” o
che perlomeno – a giudicare dal tenore dei contributi – li motiva una volta di
più a non accontentarsi del termine “liberale”, ormai pressoché del tutto
compromesso ai loro occhi. Il comitato scientifico della rivista è per giunta
presieduto da Norberto Bobbio, uno studioso che basta nominarlo per vederli
storcere il naso mentre, viceversa,
alcuni di loro sprecano la personale riserva di aggettivi nel tentativo,
sembrerebbe, di portare dalla loro parte l’eredità di Gianfranco Miglio, cosa
che mi pare ingegnosa quanto inutile. Evidentemente c’è la difficoltà di
avvicinare un autore per quel che è. Ma comunque tutto questo è divagazione e
non ha niente a che vedere con l’articolo di Ocone, che è un articolo
brevemente informativo, come diversi altri apparsi sulla stampa nazionale negli
ultimi tempi. Il pensiero dei libertari anarco-capitalisti non ha bisogno del
resto di torrenziali allocuzioni per essere illustrato ed ogni spiegazione,
ancorché critica come quella di Ocone, la si può tranquillamente ricalcare
dalle loro stesse auto-rappresentazioni, generalmente povere di varianti. Le
conclusioni dell’articolo mi sembrano tuttavia di qualche stimolo.
Ocone si spinge a paragonare, in forza di
“strane somiglianze”, la “dottrina anarco-capitalista” al “materialismo storico
del marxismo”, il che procura comunque un vago effetto spiazzante quando si
pensi al fatto che queste cose le si leggono pur sempre su un giornale fondato
da Antonio Gramsci (e rigenerato da Palmiro Togliatti). Nello spazio dell’articolo, l’autore non ha
modo, ovviamente, di precisare quel che vuol dire, ma l’obbiettivo è scoperto:
siamo di fronte a un’ideologia. Gli anarco-capitalisti, per quel che li riguarda, rivendicano il termine. In
questo senso si possono avvicinare a una tradizione del marxismo, quella
leninista, che ha fatto altrettanto - a dispetto di Marx stesso che
l’adoperava, come è noto, nell’accezione di “falsa coscienza”. Giocando il
discorso fra “verificabilità” e “falsificabilità” si sarebbe tuttavia pervenuti
allo stesso risultato e, penso sia
ammissibile ipotizzarlo, con maggior coerenza nei punti di riferimento
dell’autore. Quanto alla sostanza, essa è quella dell’autoreferenzialità,
dell’impermeabilità alle critiche, delle risposte preconfezionate. I libertari
anarco-capitalisti, in effetti, affrontano tutto con una sicurezza che rasenta
la fede, così da poter affermare che al compimento delle loro aspirazioni si
sarà ottenuto (come nell’utilitarismo, quantunque non ne siano seguaci) il
massimo di tutto il desiderabile. Non c’è obiezione che non sia prontamente
scalzata da una litania di ragionevolezze. Fatto sta che – a dispetto delle
preoccupazioni contrarie - i poveri saranno aiutati come mai lo sono stati e
gli indifesi avranno modo di far valere le loro ragioni..
Ammettendo che tutto ciò abbia delle somiglianze
col “materialismo storico del marxismo”, non è pensabile che Ocone volesse con
questo prescindere dal fatto che la “dottrina anarco-capitalista” si pone in
modo completamente antagonistico ad esso. Ciò nondimeno, ricordo di essermi
imbattuto una volta in una dichiarazione di Murray Newton Rothbard (presumo
nell’intervista a Guy Sorman) nella quale egli confessava di aver letto Marx
con interesse, ancorché precisasse che gli era sembrato di leggere gli scritti
di un pazzo. La dichiarazione è rovente, per quanto sia impensabile (ma non si
può mai dire) che Rothbard e i suoi discepoli
arguiscano, nel caso specifico, soltanto una linea discriminatoria fra
salute mentale e follia. D’altra parte non facendo alcuna distinzione fra Marx
e il marxismo, e considerando – non senza fondamento - l’enormità dei crimini
che gli sono attribuiti, non sono i soli a percepire una lunga sequenza di delittuosa pazzia. In verità il marxismo
ha una sua storia complessa (dove entrano a vario titolo il “socialismo prussiano”,
il “fabianesimo” e altri statalismi compassionevoli) nella quale Marx non è di
certo una figura casuale, ma non è nemmeno il suo primo artefice in quanto ne
fu piuttosto un critico già dai primi vagiti ufficiali (“je suis pas marxiste”,
è noto, aveva premura di dire). Mi associo dunque all’opinione di quegli
“eretici” del marxismo che credono che i primi a intorbidare le acque intorno a
Marx siano stati (insieme ai bakuniani) proprio i marxisti (a cominciare,
secondo il giudizio di alcuni, dal vecchio Engels).
A quanto mi risulta, Marx non ha mai
inventato alcun sistema socialista e, con tutta la ben nota arroganza
intellettuale di cui era capace, si
prendeva gioco di ogni presunto creatore di “sistemi” (aveva iniziato da
giovane col “sistema” di Hegel). Di preferenza appoggiava i democratici
liberali o i libero-scambisti, perfino i conservatori. Anche nelle sue generose
collaborazioni con gruppi e movimenti (dalla Lega dei comunisti
all’Internazionale) cercava di far prevalere sulle necessità di adattamento il
punto di vista personale. Il comunismo per lui altro non era che “il movimento
reale che sopprime lo stato di cose esistente” (non “un ideale da realizzare”)
niente di più niente di meno. Di sicuro non era un nuovo “sistema” socialista,
semmai la lotta a rapporti umani mistificati. Anarchico non meno dei fondatori
dell’anarchismo, a differenza di alcuni di loro non aveva propensione per la
divisione collettivista della ricchezza e non avrebbe avuto difficoltà ad
affermare che l’individuo è l’insieme delle proprietà di un soggetto reale (che
poi è soltanto una definizione molto generica). Ma Marx era anche un critico
della giustizia, un terreno sul quale – se anche i libertari
“anarco-capitalisti” avessero mostrato una gioviale condiscendenza per la
rappresentazione che fin qui ho fatto del suo pensiero – non lo potrebbero
proprio seguire.
Studiosi del diritto come Kelsen tendono a
pensare che “la filosofia sociale di Marx, nei suoi punti essenziali, è una
dottrina giusnaturalista”. Sia pure. E’ bene rammentare in ogni caso i suoi
ripetuti attacchi – a cominciare da un famoso passo del Manifesto
– contro il diritto e la moralità, giudicati quali “pregiudizi”. Se anche,
dunque, il suo parteggiare per la causa della natura degli uomini lo facesse
sostenitore dei “diritti naturali”, lo sarebbe nel modo del Marchese de Sade
(e, per certi versi, di Nietzsche) non già in quello di Locke. I libertari
“anarco-capitalisti” fanno proprio il motto “vita, proprietà, libertà”. Anch’io
non ho difficoltà a farlo mio. Tuttavia Locke è in alcuni casi contraddittorio
tanto che la proprietà sembrerebbe talvolta prevalere sulla vita. Anche se
personalmente credo che proprietà e vita non siano facilmente scindibili (come
non pensare del resto che se ho mangiato qualcosa l’ho fatto pienamente mio?)
immagino di saper rinunciare a qualcosa – dolorosamente, non c’è dubbio – se
fosse in gioco la vita. In poche parole farei un calcolo (e una scelta) di
convenienza. Quel qualcosa, comunque, in una situazione particolare, potrei anche
difenderlo fino all’osso, ma ciò non avverrebbe (così credo, almeno) sulla base
di un imperativo morale, bensì su quella della mia umanità (ammesso che ne
abbia).
La “dottrina anarco-capitalista” dà una svolta ulteriore alle convinzioni di
Locke. Il liberalismo classico ammetteva lo Stato a tutela della legittimità
dei contratti. I libertari “anarco-capitalisti” lo ritengono invece inutile e
dannoso dal momento che la legittimità di ogni transazione (e la possibilità di
reagire in caso contrario) andrebbe restituita alla responsabilità individuale
(il Libertarian Party americano ci tiene ad esser definito come il “partito
delle responsabilità”). Il mercato, prima ancora di essere un fatto reale,
sarebbe un fatto morale (di regole morali). Nell’ “amorale” prospettiva
marxista (e sadiana, perché no?) sopra accennata lo Stato non verrebbe in
questo modo abolito, bensì parcellizzato cosicché, attraverso le regole morali,
ognuno (o Dio per lui) compirebbe su se stesso un lavoro di burocratizzazione
poliziesca. L’etica, infine, anziché conferire responsabilità all’individuo, lo
assolverebbe nel momento stesso in cui si fosse attenuto alle regole,
indipendentemente dalle conseguenze di un suo atto. Sono questi, tutto sommato,
degli esempi di quella che Marx chiamava “alienazione”. All’escatologia dei
libertari “anarco-capitalisti” potrebbero bastare, mi pare, l’interesse, i
bisogni e le convenienze ma il primato dell’etica gli serve a scongiurare la
caduta in quell’abisso di sozzure – e paure - che sarebbe l’umanità abbandonata
alla sua natura (e a onor del vero la corrente di ispirazione “randiana” è su
questo punto assai meno rigida). Decisivo è “il principio di non aggressione”
(la non aggressione come principio) che oltre a rivelare una
generale incomprensione degli uomini (a meno di non pensare a una “comunità
virtuosa”) ne decreta una sorta di immobilismo ben diversa dalla dinamica reale
del mercato. Ludwig Von Mises – che è l’esponente della “scuola di Vienna” cui
Rothbard faceva più volentieri riferimento -
non dubitava che la proprietà derivasse “dall’occupazione e dalla
violenza”. La necessità, a un certo punto, di far cessare questo stato di cose
doveva portare al riconoscimento “dello stato effettivo dei rapporti di
proprietà come degno di esser mantenuto”. Il che sembra proprio, neanche troppo
paradossalmente, un’apologia
dell’espropriazione, per quanto “originaria” e lontana nel tempo. Ancorché il
buon senso sia d’ostacolo al risalire fin dalle parti delle lontane comunità
neolitiche per verificare le condizioni effettive in cui sono avvenuti i primi
contratti di proprietà, è però impensabile che tutti gli uomini risultino
unanimi nel porre in atto quel riconoscimento, e che anzi in molti non lo
possano – e non lo vogliano – esaudire accettando invece la durezza del
conflitto. Che ciò possa essere chiamato “lotta di classe” (espressione
d’origine tutt’altro che “marxista”) non mi scompone minimamente. Per chi si
sente defraudato mi sembra una magra risorsa l’eventualità – ventilata dai
libertari “anarco-capitalisti” di poter ricorrere alla condanna di una
proprietà che fosse riconosciuta “criminale”, tanto più che non mi sembrano
troppo solerti nel riconoscerla già oggi nel mondo quale è.
Sono partito da un articolo di Corrado Ocone,
ma sarà ormai chiaro che s’è trattato d’un espediente per dire agli amici che
collaborano a queste pagine e a chi le legge – pochi suppongo – come io la
pensi. Ci sarà da ridere se qualcuno vorrà dire la sua. Altrimenti che si
pianga pure. Non ho fatto altro che parlare della libertà come la si percepisce
la prima volta: necessaria e puerile.