Dal
catalogo della mostra tenuta a Chiasso Tramare
tramonti. Carlo Merello 1972-1976 (De
Ferrari 2012). Il volume recava anche i testi dell’artista e di Viana Conti.
Marco Ercolani - Lucetta Frisa
variazioni sul rosso e sul nero
Per Carlo Merello
Paesaggi come visione di un mondo interno oscuro e
complesso che entra in cortocircuito con le cose viste e le frastaglia, le
trasforma. Tra quei paesaggi, negli anni 1974-1976, un ciclo pittorico dal
titolo, Tramare tramonti, che ha come
ossessioni dominanti un sole rosso e una striscia nera d‘orizzonte, di mare o
di terra.
L’artista “agisce” il caso.
Attraverso un rullo stende oli, smalti, acrilici, inchiostri tipografici su
carta da ciclostile. Crea impronte del sonno e del sogno, come Louis Soutter
con le dita sporche d’inchiostro inventava ombre straziate. Vuole non
controllare il paesaggio che immagina. Non prevederlo. Vederlo soltanto “dopo”.
Dipinge a partire dallo
sfondo, dal buio. I segni escono alla luce, prendono corpo in paesaggi,
sfavillano come soli. Ma nello stesso tempo sono sul punto di cancellarsi,
dissolversi, rientrare nel buio.
Segni e colori formano, per
l’architetto-pittore, un paesaggio fantasmatico e accidentale, dove domina
l’astro rotondo e rosso e la linea liscia e nera: in questa rappresentazione
l’artista si finge incosciente, ma consapevolmente lavora il mondo dell’ombra e
della duplicità con variazioni seriali, come affrontando in una partitura
musicale il primo e il secondo tema.
Con i segni gioca quel tanto
da farsi sorprendere e accompagnare dove loro vorranno, dipanando un filo
avvolto nel buio. Questo filo conduce la pittura a farsi paesaggio inconscio ma
riconoscibile. Schizzo di sole e terra, di rosso e nero.
Tessiture. Trame. Calchi di
ombre. Sfolgorii di luce. Intelligenza e coscienza pittorica. Echi di Turner e
di Nolde, dell’estremo impressionismo del Monet delle Ninfee. Il pittore dipinge incantesimi materici citando la pittura
del passato e del presente. I paesaggi appaiono come reperti inquieti, sospesi
tra l’ossessione del colore e dell’ombra e l’aleatorietà dell’esecuzione,
affidata a un lavoro manuale che proprio dalla e nella manualità porta a
compimento la propria visione.
Come socchiudendo gli occhi
sotto il sole, che è sempre presente in ogni quadro, l’artista pensa il colore
nella mente e nel corpo. Fa sempre pittura, anche se con una tecnica che evoca
la pratica dell’incisione e dell’acquaforte. Le sue idee non sono mai separate dalla “romantica” violenza dell’atto
pittorico ma, al contrario, la nutrono.
L’opera visiva di Victor Hugo nasce casualmente
da macchie di caffè, sgorbi d’inchiostro sulla carta: crepe più eloquenti delle
parole sublimi della Poesia e del Romanzo, squarci che non trattengono più la
molteplicità del mondo. Hugo usa il segno fulmineo e segreto della mano
soggiogata dalle visioni per tracciare castelli illuminati, riflessi nell'acqua
nera, o l'inferno di una porta sghemba, la macchia stregata di una città
immaginaria. Dove comincia il caos? Dove finisce la ragione?
Anche i paesaggi di Tramare tramonti si affidano al caso, lo serializzano, accostando
la passione per la materia del colore alle logiche della combinazione e del
gioco.
«Non vedere il mondo ma visionare il mondo» - suggeriva Henri Focillon.
Leonardo traccia, nei disegni del Diluvio, gli appunti per un'arte futura
che non sia soltanto architettura mentale di forme. Piero di Cosimo, con la sua
predilezione per le crepe, gli sputi, le macchie, anticipa, da selvaggio
eremita, la pittura informale. E Alexander Cozens, con le sue macchie che
evocano streganti e allucinate foreste,
irride l’arte da orafi dei pittori di paesaggio. Sembra che la pittura sia, da
sempre, attratta dai paesaggi indefinibili e fluttuanti.
Il
colore non nasce mai solare. Dapprima striscia sottoterra e sembra morire al
buio. come la spiga eleusina. Poi emerge e scintilla. Solo in questo modo il
gioco della luce sarà iniziatico e non decorativo, alchemico e non formale. Il
paesaggio sarà traversato da un soffio. Il soffio viene da e va verso: in
mezzo ci sono figure, segni, paesaggi, che ricordano o anticipano; che si
voltano indietro e si protendono avanti. Un vento li spazza via, li mescola
insieme. Ogni volta.
La mancanza d’immaginazione è
latitanza del corpo, ma il corpo deve esistere come materia, disegno, colore. Occorre
far apparire la forma e far apparire l'informe. Il segno, nitido sul foglio,
nasconde il buio e lo dispiega, abbaglia e si occulta. Tutto può apparirci
statico o vorticoso. Questi due stati della coscienza convivono, si alternano o
contrastano: l'opera al nero è la stasi, l'opera al rosso il vortice. Ma è dal
nero che si nasce, dalla linea dell’orizzonte, è nel rosso che si è vivi, nel sole
che nasce e tramonta, specchio e doppio di se stesso.
L’opera umana è emozione,
sensi, sentimenti, percezioni: è sintesi
e palinsesto di un incalcolabile numero di passaggi e paesaggi.
Ciò che è compiuto appartiene
al regno dei morti. Solo quello che si sta per fare e che non conosciamo ancora
è il prossimo lavoro, è più prossimo a noi. È futuro, è il vivente.
L’artista ripensa oggi un
ciclo pittorico elaborato quasi quarant’anni fa. Ne fa una mostra e un libro.
Ma non lo attualizza né lo museifica. il suo lavoro non è quello di un
archivista della memoria. Vuole trovare futuro nel suo passato. Il ricordo non
è una serie di quadri da appendere a una parete, da conservare dentro una
stanza. La memoria non è museo permanente. Il ricordo si muove, in continuo
trasloco da se stesso, e la serie dei quadri diventa anche riflessione teorica
sulla loro essenza, libro collettivo dove anche altre voci parlano e
commentano.
Bisogna amare la memoria che
ci tradisce e ci sopravvive. Che ci fa immaginare sempre su noi stessi e amare
il guardare ancora, non le cose già guardate. Amare insensatamente l’infinito
inganno ottico dei colori, la tessitura delle forme, come si amano i bagliori
di una stella che non è morta. Scavare strati e strati per raggiungere il fondo
della luce, il sole rosso, o del buio, la striscia nera – ma ad ogni strato c’è
una rivelazione, ad ogni rivelazione un’oscurità più fitta, e alla fine si
smarrisce il disegno, ma non il senso dell’opera.
Alberto Burri, laureato in
medicina, non esercitò mai la scienza medica. Ma da pittore cucì sacchi rotti,
sulla tela, come un chirurgo dell’immaginario.
Molti artisti curano se stessi
mostrando le loro ferite. “Tramare tramonti” è anche un gioco di parole, ma non
solo. È tessitura di un ordito che fa trapelare l’angoscia del punto e della
linea, il dramma fra architettura della forma e irrazionalità della pulsione.
La linea-terra: il femminile.
L’astro-sole: il maschile. Facili simbologie, ma troppo vaste e vaghe per
essere, in sé, significative, o per non compenetrarsi e contraddirsi, in un
gioco pirandelliano delle parti. Il pittore non usa il simbolo in modo
extrapittorico e concettuale, ma come strumento tra gli strumenti. Ne
scaturisce un ciclo di opere simili ma sempre diverse, dove non manca mai il
richiamo figurativo alla curva e alla linea, al contrasto colore/ombra, ma a
contare sono solo le visioni del pittore come sequenza musicale e rapsodica,
dove il suono rotondo e continuo di Giacinto Scelsi si alterna alla linea aspra
e secca della poliritimia di Pierre Boulez.
Una ricerca, questa, che mette
al suo centro il paesaggio come “paesaggio dell’anima”, terreno sospeso tra
mistero e realtà, tra veglia e sonno, esorcismo che accoglie la potenza
dell’inconscio e la logica della coscienza in uguale misura, e il loro
compenetrarsi. Se è vero che la psicosi disperde le sue angosce dentro uno
schermo bianco, se è vero che la nevrosi mostra i suoi sintomi come geroglifici
da decifrare nella pietra, ci sembra significativo che l’artista, insieme sano
e folle, sperimenti segni e colori come libere e coraggiose improvvisazioni
musicali, segnale di un rigoroso fluttuare dell’anima e della mente nelle forme
e nel colore.
Quel punto rosso, sole o
sangue, è sempre presente, nello sfondo frastagliato e buio di tutti i dipinti.
Un punto da cui partire, da non dimenticare, dal quale non separarsi, come
origine e/o come mèta finale, come desiderio ostinato dell’oltre.
«Sulla tela bianca del Mondo
sta per fare qualcosa.
È deciso.
Per il momento
cammina,
benché senza dubbio
si senta uccello pronto a volare».
(Henri Michaux)