Jean Montalbano

due mamme

Didier Eribon Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo. l’Orma editore, 2024 | Antonio Franchini Il fuoco che ti porti dentro. Marsilio, 2024

Eribon si fece notare per una delle prime biografie di Foucault, ma della sua formazione sociologica, che deve molto all’insegnamento di Pierre Bourdieu, risentono anche gli scritti di carattere più privato (come Retour a Reims) che gli hanno dato maggiore visibilità. Qui la scomparsa della madre è occasione per ripercorrere la propria storia familiare, l’ambiente di provenienza, le gite e i balli di una Francia scomparsa, le canzoni di Jean Ferrat ma pure il recente spostamento verso i partiti di destra della classe operaia da cui Eribon adolescente si è allontanato in una distanza culturale diventata mano a mano sociale. Il venir meno della figura materna, ancora centrale nella sua biografia familiare, porta l’autore ad interrogarsi su quel che lei ha reso possibile: l’iscrizione in una storia collettiva e in una geografia mentale, con la consapevolezza tardiva del dolore causatole da egoismo e ingratitudine filiali, evidenziate anche in occasione del suo finale ricovero in una struttura per anziani. Nella vecchiaia della madre Eribon anticipa, sulla scorta dei testi di Elias e de Beauvoir, il proprio invecchiamento, unito al venir meno della possibilità di far gruppo degli anziani, di dire “noi” e, perché invisibili, di poter prendere la parola e agire, confinati in “residenze” paragonate, sulla scorta di E. Goffman, a istituzioni totali. A questo ennesimo, estremo spossessamento dell’io, il cui territorio e il cui mondo relazionale si restringono fino al senso di incurabile derelizione, sua madre reagisce con una violenza verbale, riflesso di quella sociale da lei subita per l’intera vita. Pane per i denti dell’autore che vi riconosce la storia del soggetto svuotato di ogni interiorità, vittima di un verdetto sociale e restituito alla politica in pagine dove forse si sociologizza e antropologizza troppo diffusamente ma che poco possono per medicare un asciutto verdetto: “mia madre è stata infelice per tutta la vita”.

“Ha avuto una vita di merda” pure la madre di Franchini nonostante respiri e viva della vitalità che ci si aspetta da una napoletana tutta viscere e battute pronte, fiera perfino di quella puzza che accomuna, dall’infanzia alla vecchiaia, corpi perlopiù sformati. Che il suo odore fosse una puzza è segno dell’odio che la nutre fin dalla nascita e giustificazione dell’avversione via via sviluppata dal figlio verso una figura materna, tutta occupata nella lotta accanita e quotidiana, intenta a definirsi per opposizioni e sgradevolezze che si confermano in una saggezza scontrosa, alimentata da un’abitudine in cui le donne stesse si passano il testimone dell’odio pagando per prime il dazio di uno sguardo che non fa sconti. A monte la sentenza, implacabile, della nonna, “Leva le zoccole, vedi che ci resta”, un portato di rabbia nata da sensi d’inadeguatezza e inferiorità, con scoppi di insulti a freddo a coprire scarsità di conoscenze e penuria di capacità argomentative. La madre Angela cui non spiace rifugiarsi in un mitizzato passato, orgoglioso e civilizzatore (i sabini vincitori dei romani, i retaggi di una aristocraticità immaginaria) è figlia di una mezza cultura peggiore dell’ignoranza, a suo agio nella parte della carogna con sprazzi d’umanità, incapace di dimostrare amore, le cui manifestazioni le danno il voltastomaco: aderisce alla parte scorretta e anticonformista che le piace recitare, personaggio nella vita prima che nei ricordi dello scrittore.

Il quale, appena può, scappa a Milano sottraendosi alla quotidianità rancorosa, al continuo stillicidio di egoismo e diffidenza, al mondo di disvalori in cui anche a lui toccherebbe vivere, segnato da una miseria originaria agitata come fosse un attestato di garanzia. Cresciuta sospettando che “gli uomini facciano schifo”, che gentilezza, tenerezza e semplice affettività siano difetti, Angela vive intensamente una femminilità che Franchini scava e indaga richiamando l’inferno lessicale di espressioni e frasi gergali della lingua napoletana (come una personale chiosa al già lungo capitolo sulla dissacrazione di mamme e sorelle di Luca Galassi) disegnando le peripezie di quella che, sospetta infine, per la madre potrebbe essere stata pur sempre, nello scontento delle sue contraddizioni e spalancata al vento delle avversità, una vita felice.