Carlo Romano

comincio a scrivere

Questo intervento mi fu chiesto tempo fa da Luca Vitone affinché lo potesse inserire nelle attività che curava (e forse cura ancora) presso il Link di Bologna. Avrei dovuto leggerlo io stesso ma, per mia negligenza, non se ne fece niente.

Comincio a scrivere senza sapere quel che scriverò. Sono particolarmente cialtrone, sebbene di analoghi imbarazzi sia fatta la vita di chiunque. Sembrerà una trita risorsa retorica, ma non lo è. Avrei in mente l'utilizzo di una citazione che se leggete adesso è perché non ho saputo collocare altrimenti. Non la voglio sprecare e la butto lì, non si sa mai: diceva Kierkegaard che per affrontare la vita si deve guardare avanti, per capirla si guarda indietro. Tutto qui. Non riesco ad immaginare il suo effetto.

La richiesta è di un intervento scritto e chi l'ha fatta si muove abitualmente nei paraggi dell'arte. Dovrei, a rigore, trattare di qualche evento inerente ad essa. Mi viene da notare che negli ambienti artistici, la parola "evento" sembra indicare qualcosa di più e di diverso dal semplice accadimento, dal puro dato di cronaca, dall’avvenimento che potrà sì entrare nella storia ma anche starne umilmente fuori. Il termine designa piuttosto, a mio modo di vedere, la religiosa manifestazione d’un superiore principio creativo. Ogni evento artistico sembra essere, mi pare di capire, l’evento per eccellenza, assoluto. Lo sviluppo estensivo del collezionismo e la crescita poderosa del pubblico delle mostre hanno moltiplicato le occasioni di assistere, e di entrare in intimità, con la demiurgica generazione del bello e, se non del bello, del significativo. Di cosa si tratti concretamente è difficile da spiegare e infatti le spiegazioni sembrano sempre insoddisfacenti. Un filosofo analitico direbbe che certe parole, come bello e significativo, hanno funzioni soltanto discorsive e non rimandano necessariamente a qualcosa di "vero", parola a sua volta sospetta. Altri, d’altro canto, si mostrerebbero convinti che attraverso tali parole si vada semplicemente a rammentare l’essenziale dell’esperienza estetica, in specie di quella contemporanea, e non ci sarebbe ragione di darsi troppa pena ad interpretarle con la filologia. Io mi guardo bene dal farlo, non ne sarei in grado, ciò nondimeno trovo che i modi nei quali la religione dell'arte -chiamiamola così- si manifesta, con le parole prima che con le opere, siano del tutto prossimi alle manifestazioni più indecifrabili dello spirito umano.

Naturalmente ognuno può credere in quello che vuole e chi giura sulle prerogative levitatorie di San Gaspare del Bufalo o interpreta le stimmate di Nattuzza Evolo come una forma -per niente eccentrica evidentemente- di scrittura divina, non lo trovo poi così lontano dalla mia sensibilità, benché abbia molte ragioni per dubitare che le sue credenze siano ben riposte. Ma l'arte -confesso un limite di misura sconveniente per un contemporaneo- mi lascia ogni volta allibito.

L'affermazione giungerà un po' esagerata, tanto più che credo di potermi includere fra coloro i quali evitano di pensare ai delitti scabrosi, e ad ogni altro genere di materia inconfessabile, come fossero elementi estranei a quel dolce ornamento di cui la nostra presenza ha dotato il mondo. Non mi pare del resto che nell'arte, nemmeno nelle brutali espressioni divenute così frequenti nell'ultimo decennio, ci sia alcunché di inconfessabile, tanto che gli artisti si sottoporrebbero volentieri a quel pubblico denudamento cui vengono ammessi soltanto i più fortunati fra di loro. Di delitti scabrosi, poi, neanche a parlarne e tutto un corredo di brutture, attrezzature sado-maso, misticismi tanatici e molteplici orrori variamente insistiti altro non sono, ci viene detto dai critici, che un prospero viatico ai territori del simbolico per il quale agli artisti andrebbe reso l'ossequioso omaggio che si rende ai pionieri. La mia evidentemente difettosa sensibilità mi porta, non senza rilevanti riserve, a riscontrare più poesia o, se si vuole, commozione, nei bizzarri racconti di miracolose circostanze -non importa se dovuti a santi o a mascalzoni- che in opere la cui oltraggiosa presenza è pari all'improbabile bollettino di guerra che vorrebbero stilare stando appese nelle gallerie più snob.

Dovrei forse concedere che proprio di tale insussistenza è fatta l'arte e che in questo modo essa assolverebbe a un compito di comprensione del mondo dal quale saremmo diversamente esclusi. Non mi costa niente farlo e vada dunque per la concessione, sebbene io faccia più spesso ricorso al dizionario, o a chi ne sa più di me, quando non capisco qualcosa, che alla visione esplicativa di un'opera d'arte -alla quale, non lo nego, mi trovo magari talvolta a chiedere altre cose. Costa invece l'arte, e ciò è normale, dal momento che chi vuole spendere i suoi soldi li spende come vuole. Obbietto piuttosto, ma è un parere del tutto personale, che ci sono modi molto più emozionanti di spendere i propri soldi quando si è ricchi. Il gioco d'azzardo, per esempio. Mi guardo bene tuttavia dall'affermare che, anche se in genere più prudenti, i clienti degli artisti sfuggano del tutto alla stessa alea, ma è ovvio che proprio la stessa non è.

Quello che solitamente viene indicato come "mercato dell'arte" è in realtà soltanto un esile segmento di quei fenomeni cosiddetti "artistico-creativi" nei quali l'umanità dissipa gran parte del proprio tempo, magari non così prezioso come è ritenuto essere. Si tratta di un settore particolare che sarebbe del tutto impercettibile se privato di un consolidato sistema difensivo che poggiando su varie complicità produce i valori ritenuti idonei a dei parametri stabiliti arbitrariamente. E' un po' la stessa operazione attuata dai governi con le monete da quando è finita la parità aurea o qualsiasi altra "parità" che non sia la "politica di potenza". Per un verso, dispiace dirlo, rispetto all'ambiente artistico dimostrano un maggior grado di fantasia i governi, per l'altro tuttavia va riconosciuto agli artisti di essere infinitamente più innocui, così almeno credo.

Sarei un cretino (e anche se non posso escludere di esserlo non me ne do pena) se dicessi che è questo a lasciarmi allibito, tanto più che, per esempio, nella famosa affermazione di Gautier sull'inutilità dell'arte io riesco a trovare qualcosa di persuasivo -oltretutto affine, sotto sotto, a un attacco agli Uomini paragonabile a quelli scagliati contro Dio. Ciò nondimeno è convinzione comune che si possa rimanere atterriti dal vuoto alla stessa maniera, e ancor più, di come ci si sente indifesi di fronte a minacce oltremodo equipaggiate. Si sa peraltro che a nulla valgono le spavalde rassicurazioni sul tipo di quelle impartite dai genitori ai fanciulli impressionabili preda di fenomeni assolutamente naturali come il buio (cosa, guarda caso, della quale io stesso ho patito).

E' a questo punto la visione, con ogni probabilità, angusta e provinciale che ho di realtà altrimenti considerate eminenti a spingermi di suggerire, per meglio spiegare ciò che voglio dire a chi fosse interessato a saperlo, di andare a scorrere le ingombranti collezioni delle riviste d'arte. Per un italiano ciò vuol dire innanzitutto far riferimento a "Flash Art". Naturalmente la rivista sarà ben lontana dall'accontentare tutti e avrà talvolta suscitato il biasimo di personaggi anche influenti, ma il fatto stesso di presentarsi come "la prima rivista d'arte in Europa" non è spiegabile soltanto con le enfatiche inclinazioni del suo editore, Giancarlo Politi, ancorché di esse si abbiano ripetute dimostrazioni. Ricordo, per dirne una, che qualche tempo fa si era messo a magnificare la nuova impostazione grafica di un'altra sua creatura, "Intervista", contrabbandando soluzioni per nulla intrepide -anzi, del tutto banali- come fossero la nuova frontiera del gusto. E' lecito sperare che i lettori di Politi sappiano come sottrarsi alle spire della sua psicologia. Suppongo però che per molti di essi, forse la maggior parte, la sicumera di cui dà prova costituisca in realtà una lusinga. Le annate della sua rivista danno infatti ragione ai lettori più organici.

Collezionisti in gran numero, e una certa quantità di gallerie e musei, gli debbono senz'altro molto. La stessa Biennale di Venezia avrebbe ancor meno smalto di quello che ha senza le sue scontate quanto agguerrite polemiche. Tutta l'arte "che ha contato" da un trentennio a questa parte -e in un certo qual modo solo conquistando le sue pagine si può esser certi di fare "arte contemporanea"- è non solo passata su "Flash Art", ma in essa ha trovato il premuroso pastore che l'ha protetta. Ebbene, nello sfogliare tutte queste pagine unte dal signore e care alla musa non mi riesce di trovare altro che stupidaggini. Proprio così, una sciocchezza dietro l'altra che si accompagna a giri di frase ancora più ermetici delle opere, tentativi di convincere il lettore di come l'umanità venga arricchita da un quadro piuttosto che da un altro, perorazioni di cause, lagne, coltelli affilati per tagliare l'aria, marchingegni per ridurre a cubetti picassiani critici ed artisti né migliori né peggiori di quelli che vi vengono ospitati, qualche tregua liricizzante che nel contesto sa di morboso, una gran messe di sproloqui grosso modo derridaiani (né meglio né peggio degli originali, tuttavia) e chi più ne ha più ne metta. Mi fermo per noia, certo non per decenza.

Le avanguardie, con risultati schiettamente umoristici, avevano in fondo elevato la stupidaggine a genere. Si ritiene normalmente che il tempo non giochi a vantaggio della battuta di spirito, a meno che non sia stata dimenticata così da sembrare a tutti gli effetti nuova. Si dice: "è vecchia" come una allegra condanna a morte, ed è ciò che è accaduto all'avanguardia. Un'opinione altrettanto diffusa prevede tuttavia l'esistenza di un unico e reiterato modello, per cui il tempo sarebbe per altri versi anche alleato delle battute. E' idea di qualche spiritoso -e la stessa è presa in considerazione perfino da taluni studiosi dell'umorismo- che le barzellette sgorghino da un'unica fonte, magari una famiglia che non si occupa d'altro che di tramandarle e di decidere quando rimettere in circolazione quelle che nel frattempo sono cadute in disgrazia. Se dunque l'avanguardia è morta e sepolta (e certo io non sono fra quelli che si adoperano per resuscitarla) sarebbe tuttavia ingiusto affermare che insieme a lei sia stato interrato anche un certo suo "spirito". La parola è equivoca e non sono sicuro che mi vada bene di lasciarla interpretare come ognuno ritenga meglio fare: culmine idealistico, quiddità, qualità intrinseca o essenza metafisica. Sono sprovvisto, intanto che scrivo, di alternative soddisfacenti e non mi resta dunque che confidare nelle altrui risorse. Anche dicendo di pensare al puro sinonimo di "humour" ho l'impressione che si possa rimanere nell'incertezza.

Ma per tornare a "Flash Art", quello che la rivista ha sostenuto fin dall'inizio è stato viceversa di ponderare ogni stupidaggine servendo l'obiettivo della sua elevazione al Pantheon della serietà, dell'allineamento conformista all'idea della "grande arte". Una volta Giancarlo Politi ha scritto: "L'artista o il grande artista si manifesta tale quando il proprio grido o la propria coscienza viene trasmessa agli altri e dagli altri assunta a poesia o messaggio, o idea, o segno. E spesso il linguaggio è parte integrante dell'idea. E il linguaggio si modifica, si trasmette all'interno dell'universo arte, ha una sua cifra di intelligibilità e di peculiarità" ("Flash Art", n° 137, 1987, pag. 39). Anche in questo caso -trattandosi per giunta di prosa altrui- non mi sento di garantire nulla sul preciso significato di quanto ho comunque fedelmente trascritto. Senza ricorrere a temerarie interpretazioni ho tuttavia la sensazione di avere capito qualcosa, benché mi sfugga che cosa siano concretamente per Politi gli artisti e come il loro "linguaggio" si distingua dalle ordinarie transazioni linguistiche di chiunque. Il richiamo a "l'artista o il grande artista" mi convince in ogni caso che Politi sta parlando di faccende tutt'altro che ordinarie. Gli riconosco quindi la capacità di saper creare nel lettore quello stato di esitazione che molte volte è propizio al ragionamento, aggiungo però che non ho provato affatto quel genere di mortificazione intellettuale dalla quale provengono talvolta (dolorosamente) gli stimoli a perfezionarsi. Né ho creduto, a conti fatti, di dover innalzare tutte le stupidaggini fino al punto di snaturarle - solitamente mi piacciono per quel che sono.

Devo dire che se mi capita di leggere "Flash Art" non tengo letteralmente in conto i propositi del direttore ancorché sia proprio dalla sua personale rubrica che io tragga, insieme a una decorosa informazione, il maggior sollazzo. Ammetto senza riserva alcuna che a me pare sia la parte migliore della rivista, l'unica che meriti veramente di esser seguita costantemente. Politi vi agita molte questioni usando un tono polemico e brillante che non si perita di mettere in gioco opinioni culturali e politiche di grande respiro, senza riguardi alla settorialità della testata. Per anni non ha nascosto le sue simpatie (le ho avute anch'io) per un parlamentare assai discusso come Bettino Craxi. A differenza di diversi altri protagonisti del mondo culturale e politico, il direttore di "Flash Art" non ha smesso di manifestargli simpatia nel momento in cui si è fatto in modo che le fortune politiche diventassero disgrazie giudiziarie. Né, se è per questo, lo ha fermato la morte di Craxi. Ciò va senza dubbio in sua lode. Purtroppo -colpa mia di essere un lettore più giocondo che profondo- ho sempre provato fatica nell'imparare, senza riuscirvi, che cosa fosse a indirizzare le sue simpatie, salvo forse ciò che si può dedurre da alcune formule rituali. Lo stesso dicasi per la fede liberale che spartisce, mi sembra di capire, con un'antica milizia panelliana e gli impeti di nazionalismo imprenditoriale padano propri di un meridionale di successo.

Ricordo che tempo fa, nel 1997 -mi scuso con chi ritenesse troppo, per i tempi dell'arte, il tempo trascorso e dunque ininfluente l'esempio- Politi aveva avviato una infervorata campagna a sostegno di un artista, tal Brener, che aveva sfregiato con lo spray un quadro di Malevic (seguito a ruota da uno studente canadese di un istituto artistico che aveva vomitato su un Mondrian). Proprio su "flash art", Monty Cantsin, fondatore del "neoismo", rivendicava poco dopo alla matrice di questi gesti l'affinità col suo movimento e si proponeva, nel caso a Politi servisse aiuto contro i benpensanti, come accreditato interlocutore teorico ("anchio sono stato arrestato, incarcerato e, nell'ultimo ventennio, mi è capitato parecchie volte di essere interdetto dai musei a causa delle mie azioni". "flash art" n° 204, 1997, pag. 55). Premetto che il destino delle opere di Malevic, di Mondrian o di chi altro non mi sta particolarmente a cuore. Mi stuzzica invece l'arringa di Politi secondo la quale il gesto di Brener "si aggiunge al capolavoro di Malevic". Vivo, Malevic non avrebbe potuto che apprezzarre lo sfregio in quanto, dice Politi, come Brener, era un artista trasgressivo.

Anche in passato, quando si è attentato a delle opere d'arte, c'è stato chi, pur appartenendo grosso modo all'ambiente che si suole definire artistico, ha preso le difese dell'attentatore. E' ben noto il volantino di Gallizio -meglio ancora, della sezione Italiana dell'IS- in favore di Nunzio van Guglielmi. Mi viene pure in mente che negli anni settanta quello che era ormai un simulacro del vecchio gruppo surrealista, inviò alla Biennale di Venezia un appello affinché il premio per la scultura (sezione comportamento) venisse concesso allo scultore Laszlo Toth, il quale aveva nientemeno che aggredito, danneggiandola a colpi di martello, la celeberrima "pietà" michelangiolesca. Potrei azzardarmi a dire che ciò che fa la differenza fra queste lontane perorazioni e l'arringa di Politi sia un elemento feticistico al quale gli stessi esausti surrealisti, nonostante la richiesta del "premio", si sforzavano di dar battaglia. Sono dell'opinione, a questo proposito, che indagare la consistenza del valore che Brener, secondo l'editore di "Flah Art" avrebbe aggiunto a Malevic, mi porterebbe a considerazioni di tale portata da esulare l'occasione vera e propria fornitami da questa vicenda. Ho invece di che presumere un contesto di passioni profondamente mutato, e di questo non si può far certo colpa al Politi che, anzi, di suo, rivela un temperamento affatto passionale, vivace ed infiammabile.

Ciò che viceversa mi ha stuzzicato è la pura constatazione che in questa lunga diatriba, trascinata su diversi numeri della rivista, nessuno abbia posto la semplice questione di chi fosse oggigiorno il proprietario del quadro a suo tempo dipinto da Malevic. Non l'hanno fatto gli esimi direttori di museo intervenuti, né i generici lettori, né Politi. Dei primi si può pensare che siano fondamentalmente dei burocrati preoccupati di non sbilanciarsi troppo con opinioni che potrebbero sospingerli in una sfera artistico-reazionaria poco gradita ai loro padroni modernisti, fossero anche private fondazioni. I secondi si attendono magari soltanto lumi dalla rivista nella quale hanno posto piena fiducia. Ma Politi, un liberale come lui!

Certamente esistono argomenti di ispirazione liberale attraverso i quali si può arrivare a considerazioni del tutto sovversive in materia di proprietà, e a ciò non sfugge ovviamente la proprietà artistica. Il protagonista de la Fonte Meravigliosa di Ayn Rand ha offerto le sue ai lettori (nonché agli spettatori del film che ne trasse King Vidor) di tutto il mondo. Dall' "oggettivismo" capitalista della scrittrice si traggono d'altra parte numerose sollecitazioni in tal senso, tanto che a un certo punto anche "l'anarchico espropriatore" ottiene, in determinate condizioni, e neanche troppo paradossalmente, un suo profilo liberale, se si è naturalmente d'accordo a mettere in discussione la legittimazione di certa proprietà e si è pronti ad affermare -contro ciò che può sembrare un'evidenza stabilita per legge- la sua natura criminale Queste argomentazioni (ma va segnalato, per correttezza, che Politi è un fermo sostenitore di Diabolik) sono tuttavia rimaste completamente fuori dall'orizzonte di "Flash Art" e dei lettori che hanno contribuito alla discussione. Non è invero chiaro se Politi consideri perciò "liberale" soltanto un generico atteggiamento di etica politica, per il quale sarebbe forse più appropriato il termine "democratico", o voglia invece affermare tutta la sovranità dell'individualista proprietario rivendicata dalla tradizione e spinta alle estreme conseguenze dai liberali contemporanei. Chiacchera piuttosto di "marxismo" lanciando le consuete invettive di egemonia culturale, statalismo e collettivismo. Se molte volte tali rampogne colgono nel segno, in generale sono tuttavia gratuite. Un liberale onesto ed istruito sa benissimo, pur esprimendo ogni possibile riserva, che Marx era anarchico, nemico del collettivismo egualitarista ed assertore della sovranità individuale più piena. Il socialismo (organicista e corporativo, tale era quello russo al pari della dottrina sociale della chiesa cattolica, per esempio) giudica del resto Marx come un individualista liberale indistinguibile dagli altri. E' però con questo genere di chiacchera che oggi, almeno in Italia, si costruiscono le più improbabili professioni di liberalismo.

Nelle conversazioni di Politi coi lettori si raggiungono in proposito delle vette che suscitano in me la più viva gratitudine, per lo spirito di contraddizione e insieme la letizia che promanano. Rispondendo a un lettore che citava maldestramente Guy Debord, il direttore di "Flash Art" (sul n° 209, 1998) argomentava di aver conosciuto da vicino il teorico situazionista e -facendo capire che da vivo gli sarebbe stato prossimo nelle valutazioni quanto sarebbe stato distante dall'incauto lettore- di esser certo che, votando, avrebbe votato Le Pen piuttosto che un qualsiasi altro candidato. Personalmente sono disinteressato alle credenziali elettorali di Debord, se mai ne ha avuto. Rimango viceversa colpito da come il mangiapreti marxisti che Politi fa mostra di essere si sia trovato elettivamente affine ad un marxista quale era Debord, del tutto interno all'ortodossia e nemmeno originale, quantunque nel suo linguaggio abbia fatto riscorso a delle metafore eccentriche. Può essere che la prosa di Debord discenda direttamente da quella dei grandi ed amati moralisti francesi -come oltralpe sembrano aver scoperto. Io sono del parere che basti leggere una qualsiasi pagina di Marx per capire da dove Debord traeva la sua retorica, a cominciare dalle frequenti inversioni di soggetto e predicato. Anche il coraggioso paragone con Voltaire che Politi azzarda lo trovo inadatto e penso che in materia fossero realisticamente più fondate le opinioni del generale de Gaulle delle sue (mi concedo qui un impaccio da "trivial pursuite", ma non è difficile da superare).

Arguisco comunque che tutto questo serve a Politi per dimostrare una "scorrettezza politica" della quale si fa vanto. Il genere è oggi meno stringente di quanto lo fosse solo poco tempo fa, ciò nondimeno resta un buon termometro per misurare le temperature dell'eretico. E la sua temperatura personale sale nella stessa misura in cui scende quella della rivista, del tutto "artisticamente corretta" a cominciare dalla pubblicità. Diversamente non sarebbe diventata la più importante rivista d'arte europea. Il mio augurio, a questo punto, è che diventi la più bella del mondo. Non escludo che lo sia già. Personalmente, fin dove mi è possibile, resto un lettore di Politi, non della sua rivista. Ci tengo a dirlo, sono un anticonformista.

 

<