Marco Minoletti

Giuseppe Rensi e la critica del lavoro

La schiavitù come privilegio

Bando per volontario super-qualificato al Museo del Mare» il sindaco Bucci: "Genova la città con più volontari d'Italia, ne siamo orgogliosi"

Il termine 'lavoro', come quasi tutti sanno, deriva dal vocabolo latino labor che significa fatica. In Piemonte gli anziani usavano spesso il verbo “travagliare” al posto del verbo lavorare. “Ti vé a travajè” (Vai a lavorare?). Il vocabolo travaglio (sofferenza) deriva dal latino tripalium. Il tripalium era uno strumento di tortura. Il condannato, prima di esser torturato, veniva legato a due pali incrociati fissati al suolo. L'inconscio popolare, molto più acuto e sintetico di cento trattati sul lavoro, aveva semplicemente identificato il lavoro con la sofferenza, la tortura. E le espressioni dialettali non avevano fatto altro che togliere la nobile maschera dietro la quale si celava il suo vero volto, quello del torturatore. Sono trascorsi ormai anni dall'introduzione di questo e altri verbi, vocaboli e aggettivi nella lingua dialettale e popolare ma, come è risaputo, con il trascorrere del tempo, dato che il linguaggio è in continua impercettibile trasformazione, molti modi di dire ed espressioni un tempo comuni sono franati e passati nel dimenticatoio insieme ai pezzi di storia che supportavano e rappresentavano. Infatti, se oggi dovessimo fermare un passante per strada e porgli la seguente domanda: “Il lavoro è una forma di tortura?” – questi, dopo aver sgranato gli occhi, molto probabilmente impressionato dall'assurdità della domanda, ci risponderebbe con tutta naturalezza e a colpo sicuro che il lavoro non è uno strumento di tortura, che esso è necessario per vivere, che da che mondo è mondo è sempre stato così, che ci sono lavori creativi e lavori alienanti, che il lavoro dà all'uomo una struttura, che senza un lavoro l'uomo si sentirebbe inutile e marginalizzato, che il lavoro è il prezzo della libertà, che l'ozio è il padre dei vizi e via di questo passo. Insomma: per il nostro passante non ci sono alternative al mondo del lavoro. Esso, col tempo, è evidentemente divenuto parte integrante del corredo genetico dell'uomo.

Ma è veramente sempre stato così? Se per lavoro intendiamo le pratiche degli uomini primitivi: l'andare a caccia o a pesca, raccogliere erbe, radici e i frutti prodotti dalla natura evidentemente la risposta è: non è sempre andata così! Il lavoro, diversamente da oggi, non era disgiunto dalla vita, era la vita stessa. I problemi sorsero probabilmente con il nascere delle prime economie agricole e dell'allevamento del bestiame stanziale. Ed inoltre, se sotto il mantello del lavoro inglobiamo anche quel processo di avanzamento etico e morale avvenuto in epoche lontane in cui gli uomini, introducendo la schiavitù, si resero conto che invece di eliminare fisicamente il nemico sconfitto lo si poteva sfruttare, ecco che da quel momento in poi la faccenda assume un altro contorno ed inizia a prender forma all'interno delle comunità umane la distinzione netta tra possessori e non possessori, tra sfruttati e sfruttatori.

Nella 'Repubblica' di Platone la polis dovrebbe essere retta dai buoni filosofi, difesa dai guerrieri e mantenuta dal lavoro degli schiavi. Pensatori e guerrieri, inutile ricordarlo, disprezzano il lavoro. Qualche secolo più tardi, al tempo dei Romani, Cicerone, a proposito del lavoro, scriverà che si tratta di “un'attività umile e avvilente”. Nel Medioevo, una volta che, grazie anche alla mediazione di Plotino, l'Uno platonico è diventato Dio, i filosofi, sparsi nei vari conventi, speculano sull'altro mondo... quello ultraterreno. Ma ad occuparsi materialmente di questo mondo sono sempre loro, gli schiavi. Ciononostante, nel corso di questo affascinante millennio, in alcuni monasteri si sviluppano delle oasi di libertà e di recupero della “forma lavoro” nella sua versione originaria, quella forma in cui il lavoro non era disprezzato e affidato agli schiavi, ma rappresentava lo svolgimento delle attività umane nella loro versione più nobile, quella che univa spiritualità e manualità. Alcune abbazie si ersero così al ruolo di città ideali a futura memoria.

Nel corso del Rinascimento, dopo secoli di speculazioni rivolte al Regno dell'al di là, finalmente Dio arretra per far largo all'uomo che parte alla scoperta del sé e dell'al di qua, ma gli schiavi restano. È il tempo della Signoria con servitù. Con l'avvento della rivoluzione francese a furia di tagliar teste si scopre che il sangue blu non scorre nelle vene di nessuno. Dio cede il passo alla Ragione degli illuministi e alla classe borghese, ma la schiavitù perdura anzi, grazie alla scienza e al progresso inizia ad intraprendere il cammino che la condurrà verso la sua fase di massimo splendore, quella dell'odierna schiavitù volontaria.

Nell'età moderna, come rileva Hannah Arendt in 'Vita activa', il lavoro viene teoreticamente glorificato e così l'intera società finisce per trasformarsi “in una società del lavoro”, vale a dire, in una società di schiavi. In questa fase di crescita del capitale il proletariato tramite i movimenti sindacali, la social-democrazia e gli stessi raggruppamenti rivoluzionari di matrice comunista e marxista, indossando i panni della falsa coscienza antagonista concorre de facto - con le sue lotte parcellizzate e sostanzialmente mirate alla sua integrazione nel sistema capitalistico e non al suo radicale rovesciamento - al dispiegamento compiuto della piena potenza del dominio capitalista. Paradossalmente, proprio in questa fase in cui le forze antagoniste raggiunsero numericamente l'apice della loro forza e potenza (quando se non allora avrebbero potuto porre fine alla preistoria dell'umanità, alla schiavitù della merce, allo sfruttamento del lavoro umano?) il capitale, avviluppato in una crisi finanziaria che pareva non dargli via di scampo, entra in una nuova fase di espansione grazie anche allo sforzo di adeguamento e allineamento alle leggi universali della merce attuato frettolosamente dai paesi in ritardo nei processi di modernizzazione e dunque non in linea con i rapidi sviluppi impressi al mercato e alla circolazione delle merci dal progresso della scienza e della tecnica: l'Italia fascista, la Germania nazista e l'Unione Sovietica “comunista”. In URSS il piano quinquennale lanciato nel 1929 con l'obiettivo di dar vita ad una forte industria pesante e liquidare i kulaki non rappresenta altro che lo sforzo sostenuto dalla classe dirigente del Paese per adeguarsi al modo di produzione capitalistico occidentale e porsi così ad un livello concorrenziale con i paesi capitalistici più progrediti. Stalin, infatti, dichiarò che il piano era nato “dalla necessità di liquidare l'arretratezza tecnica ed economica dell'Unione Sovietica […] dalla necessità di creare nel paese condizioni tali che dessero la possibilità all'Unione Sovietica non solo di raggiungere, ma col tempo anche di superare tecnicamente ed economicamente i paesi capitalistici più avanzati”. L'Unione Sovietica, nel tentativo di colmare l'arretratezza che la separava dai paesi capitalistici più avanzati, diede vita ad un processo di accumulazione originaria del capitale a tappe forzate con l'aggravante che tale processo fu avviato sotto la direzione dello Stato e di una sempre più rigida classe dirigente. Gli schiavi–lavoratori, grazie alla macchina propagandistica oliata da scribacchini e artisti al soldo del regime vengono mitizzati ed elevati al rango di Titani. I novelli Titani, in realtà, finiranno per forgiare nuove catene d'acciaio con cui legare se stessi e i loro sogni (o ideali? – incerto) di comunismo. L'Ulisse sovietico, attratto dai canti melodiosi delle sirene della concorrenza capitalista, non si era fatto legare all'albero maestro della nave tappandosi le orecchie ed aveva finito per schiantarsi con tutta la ciurma di eroi del lavoro sugli inospitali scogli della divinità dominante. Il destino dell'Unione Sovietica e del suo falso eroe, il lavoratore, era segnato... era solo questione di tempo. Infatti, per poter partecipare al banchetto eucaristico della divinità dominante è necessario dotarsi, grazie ai continui sviluppi della scienza e della tecnica, di nuove e sempre più sofisticate tecnologie, in modo da trovarsi nella radiosa condizione di produrre a costi in grado di far fronte alla spietata e agguerrita concorrenza. L'Unione Sovietica, messasi in linea con gli altri paesi industrializzati, non sarà in grado di reggere la concorrenza e finirà per smembrarsi. La legge della divinità dominante nell'al di qua, avendo come unico fine il profitto, non conosce - a differenza di quella dominante nell'al di là – il perdono. Chi sbaglia, ossia chi non è in grado di mantenere il livello concorrenziale, non solo viene ipso facto estromesso dal gioco, ma è condannato insieme a tutto l'equipaggio alla massima pena prevista dal mondo della merce e dei consumi patologici: la povertà. Questa condanna vale, ovviamente, sia per gli stati che per i loro cittadini. Per questa semplice ragione – aggiungo en passant - non ripongo alcuna fiducia nei partiti politici di qualunque segno o matrice, visto che sono tutti indistintamente al servizio della divinità dominante. Le trasformazioni che stanno avvenendo su scala planetaria all'interno del mondo del lavoro sono ormai visibili a tutti. I processi di automazione e digitalizzazione stanno marginalizzando, condannandole alla miseria, fasce sempre più ampie della popolazione mondiale.

In Italia, tanto per fare un esempio, con il trascorrere del tempo la crescita esponenziale dei disoccupati, oltre ad allargare ulteriormente la forbice tra ricchezza e povertà ha finito per dar vita ad una nuova forma di schiavitù, la schiavitù volontaria. Lo schiavo volontario non è altri che colui che, a furia di prestazioni gratuite spera, prima o poi, di elevarsi al rango di schiavo salariato. Parallelamente gli schiavi salariati, vista l'aria che tira, vedono bene di tenersi sempre più stretta la loro vacillante occupazione mettendosi sotto stress da prestazione. Risultato: negli ultimi anni i grafici che monitorizzano le statistiche dei ricoveri per disturbi psicosomatici hanno subito un'impennata senza precedenti. Il mondo del lavoro da passe-partout per poter accedere al regno del benessere e della felicità terrena promessi dai sacerdoti della divinità dominante sta gradualmente ma inesorabilmente implodendo insieme al suo mentore, la società della merce.

 

Le radici della società dei servi volontari

La questione della servitù volontaria era già stata affrontata dal giovane Étienne de La Boétie in un lungimirante pamphlet vergato - mentre studiava legge all'università di Orléans - molto probabilmente tra il 1548 e il 1552 e intitolato “Il discorso sulla servitù volontaria”. Scrive rendendogli omaggio il suo grande amico Montaigne nei 'Saggi': “Dopo i miei saggi, pubblicherò un trattato di Étienne de La Boétie, che aggiungerà brillantezza al resto del mio lavoro. Lo intitolò 'Schiavitù volontaria'; i lettori successivi, che non conoscevano questo titolo, gli diedero il nuovo titolo piuttosto appropriato: 'Contro uno'. Lo scrisse come una sorta di tentativo, in giovanissima età, di prendere posizione per la libertà contro i tiranni.”

La Boétie - occorre subito precisare – non può essere incluso nell'albero genealogico dei rivoltosi e dei rivoluzionari, non si appella al popolo affinché si ribelli alla tirannide e – a differenza dell'ironico Swift – non dà neppure una manciata di istruzioni alla servitù su come fregare il padrone. Infatti, l'oggetto delle sue taglienti critiche non sono i tiranni, ma i servi stessi. Il nucleo del suo ragionamento è in sé abbastanza semplice: il dominio esiste e si perpetua perché esistono i dominati, ossia coloro che accettano passivamente di sottomettersi. Ma se la donna e l'uomo erano in origine liberi, come si è potuti pervenire a questa condizione paradossale di rinuncia volontaria della libertà? Da grande pensatore qual era La Boétie punta diritto alla radice del problema: il potere. Il potere, osserva il nostro, delegittimandolo, non ha alcun fondamento oggettivo. Esso non si fonda né sul diritto divino come sostiene la dottrina tradizionale, né su quello naturale come sosterranno in seguito i primi teorici moderni dello Stato, introducendo il concetto di “contratto sociale” con l'intento di dare una spiegazione e una giustificazione al potere del sovrano di fare e imporre le leggi. La condizione originaria di libertà, secondo La Boétie, è stata progressivamente corrotta e abbandonata dalla società che ha finito per privilegiare e favorire la servitù alla libertà al punto che ormai gli uomini nascono servi, vengono svezzati come tali per poi esser distratti vita natural durante dalle amenità offerte loro dalla società dei consumi. “Così i popoli, nella loro follia a cui essi stessi erano abituati, si abituarono a questo passatempo e si divertirono con giocattoli vani, che erano tenuti davanti ai loro occhi, in modo che non si accorgessero della loro schiavitù.” Il potere, non avendo fondamento oggettivo, è dunque un rapporto creato e immaginato da coloro che lo subiscono, i servi. Che fare per uscire da questa spirale? “Siate determinati a non essere più schiavi e sarete liberi. Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo sosteniate più e allora lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento. Non è necessario fare qualcosa di eroico per scuotere il giogo della schiavitù, ma basta rifiutare il proprio assenso.” – Ecco un primo prezioso suggerimento che, se trovasse applicazione generalizzata consentirebbe di liberarci dal “colosso” e dare l'avvio ad una profonda e reale trasformazione della miseria quotidiana in cui ci troviamo immersi.

 

Il gioco in gabbia

L'essere umano, come ben sanno i bambini e sempre meno gli adulti, ama il gioco ed è per sua natura curioso. La curiosità lo porta a fissare con lo sguardo un uccellino che si posa su di un ramo ed inizia a cantare, il movimento dell'acqua che scorre in un ruscello saltellando ed impennandosi di sasso in sasso per poi riprendere il suo corso regolare, un frutto appetitoso cresciuto sull'alberello del vicino di casa quando giunge la stagione in cui il sole riscalda con i suoi raggi la terra, ecc...

La curiosità istintiva con il tempo si affina e spesso sull'oggetto osservato ci si sofferma come ipnotizzati, contemplandolo. Si possono contemplare le vette innevate delle montagne, l'infinitezza del mare, un bel dipinto, una fontana rinascimentale, un angolo suggestivo ed evocativo di una città, gli incantevoli cieli stellati scrutati ad alta quota, una stupenda ragazza e un bel ragazzo mentre scendono dall'autobus. Alla contemplazione di ciò che è fuori di me (il mondo esterno) si associa ben presto un qualcosa che è dentro di me. Un qualcosa di indefinito, incorporeo che mi si agita dentro e che appartiene esclusivamente al mondo interno, la riflessione. L'essere umano è dunque per sua natura incline al gioco, alla manualità, alla contemplazione, alla riflessione. Tutte forme, queste, di dispendio energetico fine a sé stesso, senza un tornaconto materiale. Ma che fin dal loro apparire in forma embrionale nei bimbi evidenziano che queste caratteristiche sono parte costitutiva ed essenziale della natura umana come l'abbaiare di quella canina. Del resto, come ci ricorda anche il poeta “dove ci sono bambini c'è l'età dell'oro” (Novalis). Con l'introduzione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, invece di imboccare la via aurea indicataci dai bimbi, l'umanità ha imboccato il sentiero perverso che l'ha condotta nelle paludi melmose della manualità coatta, del gioco pilotato, dell'ozio programmato, dell'intellettualità sacrificata sull'altare del carrierismo e della venalità. Il lavoro - manuale e/o intellettuale - da mezzo per soddisfare i propri bisogni materiali e intellettuali si è trasformato in schiavitù al soldo di una legge astratta, quella del profitto. Una legge creata a beneficio di pochi accumulatori di ricchezze inutili, di speculatori finanziari e di politicanti ormai ridotti a stuoini al suo servizio. L'uomo contemporaneo si trova all'interno di una gabbia invisibile, una “gabbia d'acciaio” (Max Weber) sempre più alienante e fin da bambino è costretto a reprimere i propri istinti e le proprie pulsioni. Le sbarre di questa gabbia d'acciaio virtuale sono formate dalla lega di due metalli: l'economia capitalista e l'amministrazione burocratica. Alla sorveglianza dei carcerati sono preposti lo Stato e i suoi fedeli servitori togati o armati. A distrarli da eventuali propositi di fuga o di ribellione ci pensano gli esperti nella scienza della pubblicità. Perché l'uomo, pur sapendo di avere solo un breve tempo di vita a disposizione su questo pianeta, subisce passivamente questa condanna? Perché “l'odiato lavoro” (Giuseppe Rensi) ha finito per essere spacciato per la quintessenza della natura umana quando invece ogni bimbo del pianeta sa che l'essenza della sua natura sono il gioco e la contemplazione?

 

Contro il lavoro

Prima di affrontare a vol d'uccello alcuni contenuti del saggio di Rensi “Contro il lavoro”, è necessaria, senza alcuna pretesa di esaustività una breve premessa d'inquadramento del suo autore.

In Italia uno dei pensatori più originali e acuti che si è occupato della spinosa questione del lavoro è Giuseppe Rensi (Villafranca di Verona 1871 – Genova 1941). Rensi mette in relazione l'essenza della natura umana (tendente al gioco, a quella forma di manualità che prende le distanze dall'imperativo categorico del dovere e dall'intimazione del dio-denaro, all'arte, alla contemplazione e all'ozio) con lo snaturamento impostole dalla forma lavoro. Forma che, a partire dall'accumulazione originaria del capitale, riceve un ulteriore impulso sottraendo gradualmente all'uomo ogni margine di reale autonomia, soffocandone l'essenza naturale e condannando la maggioranza dell'umanità alla schiavitù perenne. Il filosofo e giurista veneto, dopo varie vicissitudini di natura politica, esistenziale e professionale, a partire dal 1918 legherà la sua sorte a quella di Genova. E sarà proprio in questa affascinante città marittima che il suo pensiero, percorso fin dagli albori da una vena scettica, giungerà a piena maturazione. La sua opera è poco conosciuta e poco studiata per svariate ragioni. Ci troviamo in un periodo storico in cui lo storicismo crociano e l'idealismo attualista gentiliano dominano incontrastati la scena filosofica nostrana. Un pensatore che, in pieno idealismo italico, rovescia l'adagio hegeliano secondo cui “tutto ciò che è reale è razionale” e afferma di converso che “tutto ciò che è reale è irrazionale” oppure che “il mondo è governato dal caos” non poteva di certo aspirare al consenso dei colleghi accademici.

Se poi finisce per prendersela anche con le star del momento rigettando l'idealismo e declassandolo al ruolo di filosofia evasiva e consolatoria con l'accusa di aver perso per strada, o peggio ancora, di aver rimosso il singolo individuo e la sua finitezza, la frittata è fatta! Per Rensi ci troviamo di fronte ad una filosofia – quella idealista – secondo la quale, in nome dell'armonia universale e dell'idolo del pensiero moderno, la totalità - quasi per incanto, le cose perverrebbero ad una sintesi superiore e dunque ad una loro conciliazione. E se tutto ciò non bastasse a metterlo all'indice, eccolo sparger sale sulle ferite cogliendo nella filosofia idealistica di Gentile l'implicita autocondanna dell'idealismo. Infatti, l'idealismo gentiliano concependo il processo dello spirito come movimento ad infinitum, finisce, a detta del nostro, per convertirsi in filosofia dell'assurdo. Rensi nel mettere in evidenza l'insensatezza di tale processo lo paragona “all'opera di un Sisifo che è sempre certo di spingere il sasso del pensiero verso la cima della verità e nel medesimo tempo è pur sempre certo che appena toccata la cima non sarà più la verità”. Il pensiero di Rensi sarà visto come fumo negli occhi anche dall'altro filosofo idealista nostrano, Antonio Gramsci. Rensi non ha una visione del progresso come lo intendono i socialisti e i comunisti, non crede all'elevazione del proletariato a “soggetto unico” della Storia, non pensa che per porre fine alla schiavitù del lavoro sia sufficiente impossessarsi dei mezzi di produzione sostituendosi alla classe dominante borghese. In sostanza Rensi non crede al socialismo come forza emancipatrice del lavoro umano.

 

La morale dominante

Seppure ancora in forma abbozzata, una prima critica radicale dell'ideologia del lavoro è già presente in alcune pagine del saggio rensiano pubblicato nel 1910, “Le antinomie dello spirito”. La morale del lavoro, toltole il velo retorico in cui è stata imbozzolata, appare agli occhi del pensatore veneto come “una delle più colossali menzogne della presente società”. Quanto al lavoro stesso, come lo intendiamo, esso “non è una cosa nobile, ma una necessità inferiore dell'esistenza dei più, ripugnante essenzialmente alla natura più alta dell'uomo”. La statura spirituale di una donna o di un uomo è data dal rapporto che questi intrattiene con la morale del lavoro, la sua ideologia. Gli spiriti nobili lo aborrono, quelli volgari lo idealizzano. Cosa Rensi intenda per spiriti più elevati l'ho già sommariamente indicato nel paragrafo precedente (coloro che godono nel contemplare gli spettacoli della natura, che apprezzano l'arte, ecc.). Chi invece a queste sublimi attività - corrispondenti alla più alta natura umana – preferisce (trovandosi ovviamente nella possibilità materiale di scegliere) il lavoro “rivela una mentalità inferiore e bassa”. In questa categoria rientrano carrieristi, affaristi e tutti i loro discepoli e ammiratori. Dimentichi del fatto che il tempo che intercorre tra la nascita e la morte di un individuo non è eterno, questi morti in vita finiscono - come direbbe un altro attento studioso di Schopenauer, Carlo Michelstaedter – tra le braccia della 'rettorica' vale a dire, del mondo dominato dalle istituzioni economiche, giudiziarie, statali, ecc...

Consapevole della sua finitezza l'essere umano dovrebbe svincolarsi dalla ripetitività dell'attività produttiva per volgersi “all'unico scopo degno” della vita, “l'attività contemplativa dello spirito” affrancata dal mondo dell'interesse e dalla schiavitù del lavoro meccanico e ripetitivo. A soffocare “la funzione di uomo” e ad instillare nelle teste dei più il senso “dell'erroneo dovere” s'incarica la morale dominante. E nelle trappole tese dalla morale dominante ci finiscono “tutti quegli operai, quei professionisti, quegli impiegati, che si danno con attenzione sostenuta ed esclusiva al loro lavoro e nulla vedono all'infuori di esso. […] È ridicolo che alcuno si compiaccia e si vanti di compiere nel lavoro il suo dovere e di dedicarvisi intero: ciò basta anzi a provare la sua inferiorità […] Così pure altrettanto piccolo è l'orgoglio di aver percorso una carriera unita, continua, coerente, ininterrottamente ascendente”. Il vero dovere, conclude Rensi, è quello di sottrarsi il più possibile al proprio dovere.

In questo testo giovanile Rensi getta le fondamenta analitiche e concettuali da cui prenderà forma nel 1923 il celebre saggio “Contro il lavoro”.

 

Il dovere della conchiglia

Nel saggio del 1923 “Contro il lavoro” Rensi, il poeta maledetto della filosofia, nel suo sforzo di portare alla luce la vera natura del lavoro, l'attività “più odiata dall'uomo”, la sottopone ad una delle più taglienti critiche mai operate da un filosofo italiano. Con lo stesso spirito inquieto con cui lo studente Lautréamont si gettava nelle acque gelide del fiume per lenire i dolori di cui soffriva la sua testa, l'inquieto pensatore veneto nel suo tentativo di lenire i dolori di cui soffre la vita si tuffa nelle acque oscure in cui sono stati fissati i pilastri morali e religiosi che sorreggono l'edificio della civiltà moderna. E inizia a lavorar di martello. Il suo non è uno sforzo teso a riscattare le sorti dell'umanità, e nella sua serrata critica pare rivolgersi più al singolo individuo. Rensi, come Georg Simmel, è un filosofo della vita. E a proposito di Simmel, è da notare il fatto curioso che poco dopo aver completato la stesura del testo sul lavoro Rensi si mise a tradurre (per primo in Italia) il saggio “Il conflitto della civiltà moderna”, l'ultima opera del pensatore forse a lui più affine. Il pensiero di Rensi non è sicuramente all'insegna dell'allegria. La vita degli individui è una continua oscillazione tra gli assi cartesiani della noia e del dolore e non esiste alcuna certezza assoluta tranne quella della morte. Il fatto che secondo lui non esista alcuna verità assoluta, associato ai devastanti riflessi sul suo pensiero innescati dalla grande guerra – dove ognuno dei contendenti dimostrava con fini e sofisticati ragionamenti che la ragione fosse inappellabilmente dalla propria parte – lo portarono con tutta probabilità ad accentuare il suo pessimismo scettico e a confermargli che non esiste la vera giustizia e, più in generale, che non esiste alcuna verità assoluta. “La luce sotto cui io vidi la guerra, fu la seguente. Tutti i popoli combattenti l'uno contro l'altro avevano ragione. A ciascuno la ragione, proprio la ragione, forniva inesauribili ragioni, a sostegno dei principi da cui partivano, principi opposti e contrastanti, ma ognuno provveduto d'un uguale sovrana e incontrollabile legittimità. [...] A ciascuno di noi, popoli in guerra, la ragione avrebbe continuato per tutta l'eternità a fornir ragioni per la nostra tesi. Cioè le ragioni sono in incolmabile contrasto, e la persuasione (ossia la confluenza di essa ad unità) non è possibile”. La guerra, come Rensi sottolineerà in “Lineamenti di filosofia scettica” (1919), ci aveva messo di fronte ad una realtà senza veli, e sotto i colpi delle bombe era esploso anche ogni idealistico orizzonte comune. La guerra ha dimostrato che “lo spirito è in sé scisso”. “Bisogna andare oltre e riconoscere che esistono più spiriti e non già l'assoluto. […] Il ciclopico monolite […] apparisce essere invece un turbine di asteroidi, un pulviscolo di mondi infinitesimali”. La ragione, e dunque la formulazione e la successiva messa a punto “veritiera” e transitoria di tutte le categorie sociali e morali su cui si regge la società, è appannaggio del vincitore, delle forze che conquistano il potere. Rensi, il cui pensiero era caratterizzato da una riformulazione costante delle proprie direttive, dal punto di vista politico era passato dagli ideali del socialismo rivoluzionario del periodo giovanile milanese e ticinese al conservatorismo puro. Il definitivo distacco dalla fase rivoluzionaria era stato alimentato anche dall'influenza negativa che avevano avuto su di lui gli sviluppi rivoluzionari in Russia. E ciò lo portò ad accettare il fascismo, la forza vincente. Fascismo al quale Rensi aderì giusto per quel breve lasso di tempo che gli consentì di capire di trovarsi di fronte non alla solita alternanza tra rappresentanti di verità parziali tipica delle democrazie, ma ad una dittatura vera e propria, lo stato d'eccezione.

In questa temperie epocale prende forma il saggio “Contro il lavoro”. L'essere umano ha solo una carta da giocare su questo pianeta e questa carta è la sua vita. Perché dunque puntare solo sul lavoro? Rensi non fornisce rimedi o strategie collettive per dar corso ad una società liberata dal lavoro ma incita all'azione individuale. La forza e il fascino della sua analisi è nel negativo, nel mettere cioè in movimento la critica del lavoro lasciando intravedere quali potrebbero essere le possibilità di un più appassionante vissuto autentico. Se volessimo riassumere in cinque righe il contenuto del suo scritto sarebbe sufficiente la metafora della conchiglia pensante (l'uomo) che si trova nel breve testo del 1910 trattato precedentemente.

Supponiamo – ipotizza Rensi – che una conchiglia emerga per la prima dal fondo degli abissi alla superficie e apra le sue valve alla luce e all'immensità dell'universo sapendo che questa opportunità le verrà offerta una sola volta e per un brevissimo arco di tempo conclusosi il quale essa dovrà ritornare per sempre negli oscuri fondali. “Chi oserebbe dire a questa conchiglia che il suo dovere è quello di dedicare quei pochi istanti al lavoro, anziché all'esame e alla contemplazione del grandioso spettacolo che solo per un breve momento le si affaccia?” – Ecco tutto

 

La maschera dell'irrazionale

Alla base della concezione rensiana del problema del lavoro – come più in generale dell'essere nella sua totalità – vi è un’antitesi inappianabile. In esso – per dirla più chiaramente – si annidano delle contraddizioni prive di soluzione. Occorre pertanto, prima di prenderle in esame, addentrarsi maggiormente nella disamina del pensiero di Rensi.

Il nostro intento è quello di far sì che la conchiglia resti in superficie a godersi i possibili piaceri offerti da una vita altra da quella che le riserverebbe il ritorno negli oscuri e inospitali fondali. Di certo non è mia intenzione di far filosofia, di quella se ne occupino gli accademici e gli esegeti del pensiero rensiano. Tenendo a fronte l'adagio del Boezio “dalla filosofia né troppo lontano né troppo vicino” mi trovo però costretto a non entrare ancora in media res e, onde evitare di prender lucciole per lanterne, ad approfondire alcuni punti salienti del pensiero di questo tormentato difensore delle cause perse.

Rensi in questa fase del suo pensiero (lui stesso lo divide nella sua 'Autobiografia intellettuale' in tre fasi distinte), radicalizza il suo scetticismo e nega ogni progresso e ogni moto storico che abbia la pretesa di spacciarsi per vero. La verità assoluta non esiste. E proprio da questa asserzione discende la sua inclinazione per le cause perse poiché esse, proprio in quanto perse, sono giuste. False sono le vincitrici. Il mondo – come sostiene cogliendo a suo giudizio nel segno lo scetticismo – procede irrazionalmente. L'errore trionfa, la ragione soccombe. A dare l'avvio alla razionalizzazione della realtà fu l'immaginazione soggettiva di Platone. Secondo il filosofo ateniese i principi da cui scaturiscono sia la realtà che il dovere morale discendono dal mondo delle idee. Idee che a loro volta sono dominate dall'idea del bene. Da questa deduzione soggettiva e arbitraria emerge come scrive il pensatore veneto “tutto ciò che è (la natura e la storia) e tutto ciò che deve essere (la morale, l'ordinamento sociale)”. L'idealismo filosofico, sotto questo aspetto, non si è mai distanziato dal platonismo e dunque “ogni idealismo è platonismo”. Tutti gli eredi del Platonismo – che si chiamino Aristotele, Leibniz, Kant, Hegel, Cousin, Croce, Gentile, Gramsci, ecc. – hanno in comune, mutatis mutandis, il carattere razionalistico dell'idealismo platonico che – come ben sa ogni buon studente liceale – fa scaturire e discendere la realtà dal mondo delle idee, collocato da quel gran inventore di miti che fu Platone, nell'Iperuranio. Che poi l'idea suprema (il motore immobile) si chiami, a seconda del filosofo che l'interpreta, Bene, Uno, Dio ciò non cambia di una virgola la sostanza. Lo stesso Aristotele resta legato mani e piedi alla dottrina platonica. L'unica differenza sostanziale è che per lo stagirita gli elementi concettuali a priori ed eterni (le idee o la “forma”) - chiosa Rensi - “non esistono prima e fuori dalle cose, ma solo in queste, ossia da trascendenti diventano immanenti”. Gli stoici – ma in parte anche Spinoza – elaboreranno questa concezione razionalistica fino all'estremo. In sostanza: dato che “l'universo possiede un intimo essere razionale” tutto ciò che avviene, accade per decisione divina (il fato, Dio). Al contempo, la mente umana “è soltanto un frammento dell'universale ragione del mondo, con la quale deve combaciare” o, come direbbe Hegel, la nostra ragione è tale solo quando rinuncia alla sua particolarità identificandosi “con la ragione impersonale che si estrinseca nel mondo”.

A dare completo sviluppo a questa concezione razionalistica fu Hegel, che pensava come gli illuministi che la ragione fosse onnipotente. Ma, data la triste e precaria situazione in cui versavano la Germania e i suoi cittadini, la realtà dei fatti gli rendeva impossibile riconoscerla come razionale. Ma se la ragione non si manifesta razionalmente significa che è occultata: “non sempre la ragione è nel mondo in piena luce”. E dunque se è la ragione a reggere il mondo, ciò vuol dire che anche ciò che appare momentaneamente come irrazionale deve pur trovare una sua giustificazione razionale in vista di un fine superiore. E tale fine superiore lo si raggiunge passando per esso, da ciò che appare momentaneamente come irrazionale. E quindi esso fa parte “del percorso e processo della stessa ragione”. Hegel respinge la ragione soggettiva degli illuministi e trattiene nel suo sistema solo il principio dominante: la sovranità della ragione. Ragione che viene quindi intesa come obbiettivo al di sopra delle opinioni personali, come ragione assoluta. La ragione assoluta, come bene interpreta Rensi, viene quindi a porsi “fuori della coscienza e della riflessione individuale umana”. Insomma: tesi, antitesi e sintesi. Hegel sottomette Dio alla filosofia, e la ragione assoluta – separata e distinta dal mondo – diviene il Deus ex machina che modella l'universo. La ragione assoluta è in continuo progresso poiché in costante superamento di sé stessa. Con Hegel il pensiero – separato dall'individuo – finisce per pensare da sé!

Secondo Rensi questa concezione razionalistico-idealista è “mascheratura di parole” che conferisce alle cose “un'apparenza diversa da quel che sono e che sanno di essere”. In realtà a trionfare non è la ragione ma quasi sempre la pazzia, l'irrazionale.

 

Verità, ragione e pazzia

La realtà non è razionale, bensì percorsa da correnti di pazzia.

Per dare fondamento alla tesi sopra esposta, il pensatore veneto si serve degli studi fatti sul tema dal giurista e filosofo piacentino Giandomenico Romagnosi (1761-1835). Per Romagnosi stabilire che cosa sia una mente sana - 'Che cos'è la mente sana?' titola una delle sue ultime opere – è di fondamentale importanza sia per la logica che per la morale. Il nucleo del suo ragionamento è sostanzialmente questo: “La mente sana non è che la facoltà di apprendere, qualificare e conformare le nostre idee in modo che, adatte alla nostra comprensione, ci pongano in grado di agire con effetto preconosciuto come il più degli uomini sogliono fare”. Chi viceversa non parla ed agisce secondo i criteri adottati dalla massa degli uomini è „di cervel guasto”. Il Romagnosi non perviene – secondo il nostro – ad una soluzione razionale della questione e dunque anche dopo le sue analisi che cosa sia la mente sana rimane un rebus, „un indovinello massimo insolubile”, per usare le sue stesse parole.

Secondo Rensi non esiste una misura di verità a cui riferirsi obiettivamente per stabilire, in caso di divergenza, quale delle asserzioni delle singole menti si trovi entro i confini della ragione e quale no. Non esistendo la „mente sana “l’unico criterio rimastoci per stabilire la verità resterebbe il consenso universale, „l'assoluta identità dei pronunciati di tutte le singole menti“. Ma anche questo criterio - chiosa Rensi – manca per tutto ciò che, come sostiene Hume, – va oltre il „ragionamento astratto rispetto a quantità e numeri” e „questioni di fatto e di esistenza”. La corrente di pensiero scettica, di cui Rensi è un esponente, invece afferma che – come tutti sanno – è possibile ingannarsi e per quanto concerne la riflessione idealista è impossibile che lo spirito esca da sé stesso per „verificare la conformità dei suoi giudizi “con la realtà delle cose che esso crede esistano fuori di esso. Insomma: non esiste un punto fermo in cui si colloca la ragione e dunque non è possibile fissare i confini che la separano dalla non-ragione, dalla pazzia. Di conseguenza non è possibile determinare a rigor di logica né cosa sia esattamente una mente sana, né distinguerla dalla pazzia. La risposta più profonda alla domanda che cosa sono la ragione e la follia l'ha data - a giudizio del Rensi – Spinoza:

Che cos'è la ragione? La pazzia di tutti

Che cos'è la pazzia? La ragione del singolo

Che cos'è la verità? L'errore vecchio di secoli

Che cos'è l'errore? La verità giovane d'un minuto”.

 

L'ordine impossibile del Caos

Ragione e pazzia si fondono nel campo pratico. La prova evidente del loro amalgamarsi è per Rensi l'uso della violenza sia pubblica che privata. In particolare nella sfera pubblica il potere impone d'autorità “il modo in cui gli uomini devono condursi e pensare”. Vengono così fissati i confini tra ragione e non-ragione. Se però volgiamo uno sguardo alla Storia – fa notare en passant il pensatore veneto - constatiamo che è quasi sempre l'autorità a trovarsi in errore.

Nel momento in cui la ragione si assolutizza e dunque ha la pretesa di presentarsi come elemento di unità dei contrari, di tutti i concetti più contraddittori essa diventa un concetto formale, „un'astrazione insignificante”. La ragione assolutizzata è paragonabile ad un cerchio contenente vero e falso, ragione e pazzia. Il cerchio, proprio in ragione del fatto di contenere gli opposti, perde „ogni caratteristica concreta e di contenuto determinato“ che ci consente di distinguerlo chiaramente dalla non-ragione. Non essendoci ragione, non c'è verità. E anche se la verità esistesse noi non potremmo conoscerla. Affermare che non esiste la verità equivale a negare l'essere. In altre parole Rensi sostiene che forse la realtà non ha „nessuna conformazione, non ha nessun essere che si potrebbe conoscere se..., il suo in sé è il nulla. È tutta e soltanto nel suo apparire”. Il pensiero non può trovare la verità per la semplice ragione che essa non esiste. Non c'è – per dirla col nostro - „una configurazione qualsiasi di verità e di essere”. Anche Nietzsche – come Rensi – nega l'esistenza della verità, del „Mondo vero “che si esprime con la negazione dell'essere „in un mondo dove non c'è nessun essere “-in einer Welt wo es kein Sein gibt – .( Der Wille zur Macht n. 568 -585)

Il divenire Nietzscheano -stando al Rensi - si differenzia da quello Hegeliano per due caratteri essenziali:1) per gli hegeliani il divenire è eterno progresso, mentre per Nietzsche è eterno ritorno 2) gli hegeliani spacciano il divenire per essere, per assoluto. Mentre Nietzsche sostiene che „non c'è che un divenire senza essere, un divenire negazione radicale del concetto di essere”. Quindi – chiosa Rensi- la verità non esiste non perché non la si conoscerebbe anche se esistesse, ma perché „non esiste una conformazione vera dell'essere […] non esiste l'essere”.

La ragione umana è paragonabile ad un ragno che è sempre al lavoro per ricostruire – riuscendoci – la sua tela. Al pari del ragno anche la ragione umana è sempre all'opera per riparare, razionalizzare, ricostruire logicamente ciò che è fondalmentalmente alogico, ciò che è scaturito dal caos. Nietzsche l'aveva già chiaramente espresso: „Donde è nata la logica nelle teste dell'uomo? Indubbiamente dalla non-logica, il regno della quale, originariamente, doveva essere stato immenso”. (La gaia scienza, n. 111). L'idea di ordine, razionalità, necessità per Rensi non rappresenta altro che una forma di adattamento dei nostri organi e delle nostre categorie intellettuali al caos da cui siamo sorti. La stessa tesi è supportata non solo da Nietzsche ma anche dal Leopardi quando scrive: “Niente presiste alle cose. Né forme o idee, né necessità né ragione di essere, e di essere così o così. Tutto è posteriore all'esistere”. (Pensieri, III, 265-267). All'anti platonico e anti idealista Leopardi le conseguenze di queste formulazioni sono ben chiare: „Certo è che, distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio” (Pensieri, III, 101).

 

Ragione assoluta o ragione soggettiva?

Mano a mano che si procede diviene sempre più evidente che per il pensatore eretico veneto la realtà anche se in sé non è né razionale né irrazionale – “perché del tutto eterogenea a quel fatto esclusivamente nostro che è la ragione” – è irrazionale in rapporto alla ragione intesa come assoluto. Mentre Hegel afferma che la realtà naturale ed umana è l'espressione della ragione, per Rensi l'unica ragione che ci è data e nota è quella soggettiva ed essa non quadra con la realtà. Hegel nega alla ragione soggettiva la qualità di ragione reputandola falsa e fallace e degradandola al rango di non-ragione. Per lui la vera ragione – assoluta e obiettiva – è nella realtà, nei fatti nel loro svolgersi. Ma Rensi obietta che questo chiamare i fatti “come sono e perché sono” ragione assoluta è una mascheratura poiché non è possibile sostenere che ciò che troviamo nei fatti sia per forza di cose ragione nonostante la ragione soggettiva li trovi irrazionali. La ragione soggettiva deve dunque sottomettersi ai fatti “per quanto per essa bruti e ciechi”, chiamandoli però ragione assoluta? Questo significa pretendere che esista una ragione separata da ogni coscienza individuale che “in sé formi la necessità del mondo e la cui esplicazione effettui la realtà di questo”. In realtà - per il nostro filosofo – dato che l'unica ragione nota ed esistente è quella soggettiva, individuale – la pretesa ragione assoluta è semplicemente “altra cosa” da essa, ossia non-ragione. In sostanza Hegel maschera sotto il nome di ragione assoluta preesistente e immanente “questo risolvimento della razionalità nel fatto constatato esistente”. Se dunque la ragione assoluta di Hegel si riduce a non-ragione parimenti anche il suo concetto di libertà “è letteralmente non-libertà, schiavitù, autorità”. Hegel – diversamente da Kant – secondo cui la libertà dipende dalla coscienza sovrana del soggetto, dall'imperativo della sua buona volontà e dunque non è sottoposta né al controllo né al

dominio di qualcosa di esterno ad essa – sostiene che non basta volere il bene, ma occorre sapere che cosa esso sia. Questo vuoto di conoscenza è colmato dalle leggi e “dai costumi dello Stato”. Detto altrimenti: è l'autorità, lo Stato a stabilire che cosa sia il bene. Una volta che la libertà viene identificata con l'autorità (la volontà esterna) alla volontà individuale non resta che sottomettersi ad essa. Contro il dogma della ragione assoluta si scaglia anche Arthur Schopenhauer il quale, come mette in luce Georg Simmel in 'Schopenhauer und Nietzsche' (Monaco, 1920, p. 38, 66, 82) ha avuto il grande merito di polverizzare “il dogma della ragione quale essenza più profonda dell'uomo” e di aver posto a fondamento dell'anima del mondo la cieca volontà invece “della tipica ragione che usava far la parte del soggettivo ed obbiettivo suggeritore dell'essere”. Per Simmel ciò che procede distruggendo di continuo ogni forma creata da sé stessa, creandone sempre di nuove, non è come per Hegel “qualcosa di veggente e razionale”, ma qualcosa di cieco, non Spirito, ma Vita. Sintetizzando: la vita per il pensatore berlinese si manifesta entro forme che al loro apparire sono logiche e permanenti ma contro le quali si volge il fluire della vita stessa che le ha generate. Questa trascendenza, puntualizza Rensi, “si attua mediante la tragica antitesi tra la necessità di porre limiti e quella di distruggerli di continuo”. Cade così la maschera in cui Hegel aveva imprigionato la ragione assolutizzandola. E le contraddizioni, che costituivano il fondamento della sua dialettica, non appaiono più come momenti necessari all'armonia d'insieme, ma come un processo selvaggio “di contraddizioni e di antitesi che non ha posa né conclusioni né punto d'arrivo”.

 

Dalla realtà obiettiva come ragione assoluta all'assolutizzazione della ragione soggettiva

Nelle conseguenze dell'identificazione hegeliana della realtà con la ragione assoluta, Rensi vede annidarsi immensi pericoli per la vita pratica. Hegel, convinto del fatto che la realtà non può essere altrimenti che un work-in-progess razionale, si limita ad esaminarla. E non a caso insiste a più riprese sul fatto che la realtà sociale e umana va compresa e non criticata e ricostruita (Hegel, Filosofia del diritto, p. 14). Il comando morale è già “tracciato, espresso e noto” (Ibid., p. 150) dai rapporti sociali in cui l'individuo si trova a vivere in un dato periodo storico e quindi la moralità dell'individuo si limita all'adempimento di quelli che Hegel chiama “doveri della sua condizione”. L'uscita dal solco tracciato dalla realtà dei fatti implica per l'individuo il rischio di caduta nell'errore. Per Rensi si cade nell'errore quando la realtà si configura momentaneamente come irrazionale e diviene un imperativo farla combaciare con la ragione. È qui – secondo Rensi – che il razionalismo idealistico diventa pericoloso e finisce per dar corso “alle più terribili follie” nel campo pratico. E ciò avviene quando la ragione si pone al di sopra della realtà e “la vuole fare realtà”. Qui emerge, senza possibilità di fraintendimenti, tutto il conservatorismo dell'inquieto pensatore scettico veneto. A suo giudizio, una volta sposatosi con l'astrattismo razionalista di Rousseau il razionalismo idealistico “fa prorompere intorno a sé contrasti immani e scorrere fiumi di sangue”. Come si è fatto notare nei paragrafi precedenti, la meta iniziale del razionalismo idealista era quella di sostenere il primato della ragione assoluta, la ragione obiettiva escludendo la ragione soggettiva il cui compito era di identificarsi, facendoli propri, con la ragione obiettiva che si manifesta nella realtà, nei fatti. “Ma ora si dice: la realtà, che momentaneamente non è razionale, può, deve diventarlo. Deve essere trasformata secondo ragione”. La ragione soggettiva si trasforma in pretesa ragione obiettiva, “il parere personale, l'idiosincrasia, il fanatismo, la pazzia del singolo”. E nel dubbio di non essere stato abbastanza chiaro, l'ex-rivoluzionario socialista aggiunge in una nota – caricando la frase di valenza negativa: “La rivoluzione mira a trasformare il mondo secondo ragione”. Per Rensi dunque né la ragione obiettiva assoluta né quella soggettiva che pretende di sostituirsi alla realtà dei fatti sono in grado di stabilire il criterio di razionalità. Alla filosofia razionalista e idealista – filosofia generatrice di sovvertimento e disfacimento – egli contrappone il pensiero scettico “filosofia dell'ordine e della conservazione”. La verità non è accessibile al pensiero poiché essa ne è infinitamente più vasta e dunque – conseguentemente – per Rensi non tutti i problemi sono risolvibili (compreso come vedremo quello del lavoro). Non essendoci la verità assoluta, il bene assoluto, ecc., come insegna il pensiero scettico, non c'è ragione di prendersela a cuore più di tanto sia a livello personale, sia per quanto concerne gli accadimenti del mondo esterno. La realtà non è razionale e si fonda sull'assurdità e l'ingiustizia, che sono ineliminabili. Ed ogni rivolgimento radicale è vano... esse riemergeranno sempre!

 

Lavoro manuale e gioco, un'insolubile dicotomia

Il saggio 'Contro il lavoro' fa parte del volume intitolato 'L'irrazionale, il lavoro e l'amore', concluso dall'autore nel luglio del 1922 e pubblicato nel 1923. Questo saggio, oltre a contenere passaggi illuminanti, ci fornisce un metro per misurare le trasformazioni del lavoro avvenute nel corso di un secolo e al contempo ci impreziosisce di ulteriori strumenti per proseguire il “lavoro” critico contro di esso e il perverso sistema che detenendone il monopolio mantiene la maggioranza degli umani in condizioni di servaggio politico e sociale. Nella sua serrata e argomentativa analisi del problema lavoro Rensi perviene alla conclusione che sia dal punto di vista morale che da quello economico-sociale esso non è risolvibile. L'insolubilità del problema-lavoro affonda le sue radici in una dicotomia: esso è nello stesso tempo “necessario e impossibile”. Il lavoro, essendo il fondamento della vita stessa “è l'imprescindibile base e proporzione della vita spirituale dell'umanità” e al contempo esso appare rivoltante alla vita spirituale “la rende impossibile”. Se da un lato è moralmente giusto che gli individui e alcune classi sociali si sforzino di liberarsene in modo da potersi assicurare la possibilità di una vita veramente degna di essere vissuta, dall'altro è moralmente ingiusto perché qualcuno dovrà pur svolgere il lavoro e a costui, foss'anche l'ultimo lavoratore rimasto sul pianeta, vien negata la possibilità di sottrarsene. Un fatto è assodato: l'odio nei confronti del lavoro è universale. Le classi lavoratrici lo odiano e si sforzano di ridurlo. Le classi non-lavoratrici lo tengono a dovuta distanza perché altrimenti non ci sarebbero “sviluppo intellettuale ed estetico della società”. La contraddizione che vanifica ogni tentativo di dare una soluzione razionale e morale (giusta) è presto detta: senza il lavoro non ci può essere vita spirituale, ma per far sì che una vita sia veramente vissuta è necessaria la possibilità del suo opposto, il non-lavoro. Il lavoro, a differenza del gioco, non è un'attività stimolante, è solo un mezzo privo di valore intrinseco. Anche il gioco – come il lavoro – richiede sforzo e fatica, ma come tutti ben sanno nel gioco ci si applica con piacere senza curarsi del dispendio di energie. Il gioco è fine a sé stesso, si gioca per il piacere di giocare. Il lavoro non è fine a sé stesso, non possiede alcun valore intrinseco “ma solo un valore di dipendenza dagli effetti che se ne ritraggono”. Da questa distinzione tra attività ludica e attività lavorativa consegue che al pari dei bimbi che giocano, degli amanti e di coloro che flirtano anche gli artisti, gli scienziati, i letterati e i filosofi devono essere inclusi nella sfera del gioco per la semplice ragione che essi – diversamente dai lavoratori – agiscono spinti dal piacere, producono per il puro gusto di produrre. Che i lavoratori odino il lavoro è ulteriormente confermato – per converso – dal fatto che essi ritengono ingiusto che il lavoro intellettuale venga retribuito più di quello materiale. Ciò prova che le masse operaie “avvertono che il lavoro propriamente detto (quale è il loro) si fa solo pel denaro” e che pagare l'attività che si svolge per gusto e passione “è come pagare uno che passeggia, quand'anche passeggiando si stanchi”. Cultura e lavoro manuale si escludono a vicenda e anche se un domani il proletariato dovesse conquistare il potere, la cultura potrà svilupparsi “sempre soltanto, come oggi, mediante il formarsi di due classi. Quella che lavora e quella che giuoca”. Detto altrimenti: ci sarà sempre una classe che vive a spese dell'altra!

 

Homo ludens

Come si è detto, solo giocando l'uomo è veramente tale e attraverso il gioco “acquisisce superiorità e libertà spirituale”. Il gioco è un'attività libera fondata su sé stessa che “ha in sé il suo principio e il suo fine”.

La libertà interiore, la forma morale più elevata si fonda – come insegnavano gli stoici – sull'identificazione della vita con il gioco e non – come pensano i moralisti – nel considerare la vita “come cosa grave, seria, solenne”. E quindi non solo le arti nobili rientrano nella categoria del gioco ma anche e soprattutto l'etica. L'uomo può dirsi interamente tale solo quando agisce svincolato dai contenuti reali della vita, quando cioè agisce per il solo piacere dell'agire soggettivo. Il lavoro, negando la spiritualità umana, è schiavitù. Infatti nel lavoro non agiamo per il gusto di agire “ma sotto la pressione e il comando”. Uno dei principi kantiani recitava: “Agisci in modo tale da trattare l'umanità, tanto nella tua persona che nella persona d'ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine e mai unicamente come un mezzo”. Certo, dal canto suo il padrone può tranquillamente affermare di trattare l'operaio “non solo come mezzo ma anche come fine”: riceve un salario e dispone di ore di riposo in cui può godersi appieno la vita. Dal canto suo l'operaio può obiettare che questo ordinamento sociale gli ruba tante ore in un lavoro privo di attrattive e questo non è il suo fine e dunque egli si percepisce come mezzo per fini altrui. Se però alla formula kantiana diamo un significato non equivoco ci appare evidente che essa “nega ogni giustificazione e legittimità morale del lavoro vero e proprio in generale” e finisce per equiparare il lavoro alla schiavitù. A Rensi appare ovvio che non esista una forma di schiavitù totale. Anche lo schiavo dell'antichità disponeva di margini temporali per se stesso e quindi non si può mai parlare di perdita totale della libertà, ma solo della sua soppressione parziale. Ma la soppressione parziale della libertà è proprio la caratteristica principale del lavoro. Di conseguenza non ha senso circoscrivere la schiavitù come categoria fissa al regime di lavoro esistente nel mondo greco-romano o in alcuni stati americani. Per il nostro, “tra colui che si denominava schiavo e chi lavora non v'è alcuna differenza qualitativa, ma solo quantitativa” cioè, di tempo di libertà che lo schiavo antico o moderno e lo schiavo-salariato dispone per se stesso. In entrambi i casi il carattere fondamentale del lavoro – il non poter svolgere un'attività per il puro piacere di svolgerla – resta immutato. Già in 'Lineamenti di filosofia scettica' (1919) il pensatore veneto aveva affermato che “tra schiavitù propriamente detta e obbligazione non v'è dunque differenza di natura, ma solo di grado”. La società ha gradualmente messo in secondo piano le attività più nobili dell'uomo – la contemplazione e il gioco – facendo del lavoro l'attività principe. A ragione Friedrich Schlegel era dell'opinione che solo quando l'uomo si trova in condizioni di passività “può ricordarsi del suo io, onde contemplare il mondo e la vita”. La nostra civiltà e la morale che da essa è scaturita “ci ha fatto disimparare l'ozio” e l'uomo è giunto al punto di temerlo e a percepirlo come un tormento. “Infelici col lavoro, non sappiamo più essere felici senza di esso”.

 

Chi non lavora non mangia. Chi non mangia non ozia

La civiltà attuale, obbligando l'umanità a lavorare, condanna il presente e il futuro dell'esistenza umana. E dire che a differenza degli animali siamo consapevoli della brevità della vita. Il pensiero della morte “dovrebbe bastare a dissipare ogni tentativo di giustificazione razionale d'una pretesa etica del lavoro”. Il pensiero che il lavoro racchiuda il destino e lo scopo della vita umana è irrazionale. Il fine supremo delle attività umane dovrebbero invece essere l'ozio e la vita contemplativa. Procurarsi i mezzi per il proprio sostentamento non è il fine principale dell'esserci. Il concetto che alla natura umana sia più conforme l'ozio contemplativo non è – come acutamente fa notare Rensi - “frutto malsano dell'inerzia e della mollezza orientale o dell'infrollimento mistico del monachesimo medioevale”.

Già i poeti e i pensatori latini - e prima di loro Socrate e Aristotele - l'avevano espresso energicamente: la spiritualità umana per potersi manifestare necessita dell'ozio. Ma qui viene alla luce un'aporia. Se da un lato l'essenza spirituale dell'uomo esige la libertà del gioco e della contemplazione, dall’altra tale libertà dipende dal lavoro. L'ozio e la contemplazione non hanno mai saziato il corpo di nessuno. Detto altrimenti: lavoro e sviluppo spirituale sono antitetici. “Il lavoro è dunque necessario e impossibile. Tale l'insuperabile alternativa che sbarra la via ad ogni soluzione del problema”. Supponendo che molta parte di ciò che definiamo lavoro possa assumere la forma di lavoro-gioco l'aporia non viene comunque risolta. Infatti, anche se in questo caso sia il lavoro intellettuale che manuale “possono trovare piena gioia e soddisfazione”, resta il fatto che perché il lavoro-gioco possa dirsi effettivamente tale occorre che ci sia anche la voglia di svolgerlo. Ed è ovvio che se in un particolare momento la voglia non c'è anche il lavoro non potrà riuscire bene. Quindi si dovrebbe lavorare solo quando si ha voglia, interesse e gusto di farlo e non solo se spinti dal “super-io dominante”. Ma ciò entra in contraddizione “con la necessità di un lavoro costante, continuato, disciplinato” quale i fini di una società complessa e articolata come la nostra richiedono. E ciò non è compatibile con il sistema sociale e il modo di produzione su cui si regge la società capitalista.

In secondo luogo la forma lavoro contenente questa micro-possibilità (p.es. l'artigianato) è andata perduta con l'evolversi di questo diabolico sistema. Forse qualcuno sarebbe in grado di trovare dei lati ludici o del piacere nel lavorare a turni in una fabbrica qualunque?

Si può dunque tranquillamente affermare, senza timore di esser smentiti, che la forma lavoro così come si è sviluppata sta gradualmente negando e liquidando ogni residuo di spiritualità. La civiltà avanzata, la società “stretta” come la chiama il Leopardi “produce un peggioramento delle condizioni spirituali dell'umanità e contraddice il fine stesso della società, cioè il bene comune”.

 

Lo schiavo contemporaneo

Come si è detto, la razionalità e la spiritualità umana reclamano che l'uomo si astenga dal lavoro (ozio/contemplazione) o lavori per il piacere di farlo e quando ne ha voglia (lavoro-gioco). Ma ciò – come abbiamo visto – non è più possibile perché a causa dell'industrializzazione, degli sviluppi della tecnica, della parcellizzazione del lavoro e della parallela progressiva liquidazione dell'artigianato l'essere umano non può più „avvertire il lavoro come proprio “cioè, come risultato della sua creazione. Ne consegue che - per quanto attiene al lavoro stricto sensu - anche mutando l'assetto sociale le cose non cambierebbero di una virgola. Che differenza c'è tra l'essere lavoratori salariati di una fabbrica o di un ufficio e trovarsi nella condizione di avere assunto – per mezzo di una rivoluzione - il controllo dei mezzi di produzione e degli apparati amministrativi? Nessuna! In entrambi i casi il lavoratore continuerà a non sentire il lavoro come suo e a percepirsi come l'ingranaggio di una macchina o la protesi di un computer della quale è però nel contempo diventato il „padrone“. Secondo il nostro (e qui -forse per la prima ed unica volta- affiora velatamente una pars costruens della cui assenza alcuni dei suoi critici si lagnano a sproposito... Ma cosa pretendono da uno scettico?) l'unica via percorribile non è la conquista dei mezzi di produzione e la loro successiva gestione e sviluppo (già, sempre la vecchia storia del progresso infinito) ma – forse – una semplificazione dell'attuale società e un ritorno all'economia di villaggio e a forme di artigianato”. Solo così -chiosa Rensi - „sarebbe possibile far ricuperare almeno in parte al lavoro il suo pregio spirituale”. Ma - tornando alla contraddizione del lavoro in sé – se anche così fosse i più dovranno ugualmente svolgere attività inadatte, e ciò manda in fumo la speranza di una soluzione razionale del problema-lavoro.

Solo gli antichi greci – a suo giudizio – avevano dato una soluzione precisa del problema: „La schiavitù è necessaria alla libertà”. Questa soluzione „irrazionale e contradditoria” (si salva la libera spiritualità di alcuni e la si nega ad altri) è „l'unica soluzione possibile del problema stesso”, vale a dire che la soluzione consiste nel riconoscimento della sua irrisolvibilità. Senza gli schiavi il lavoro non viene svolto. E nonostante la schiavitù sia stata formalmente abolita, colui che lavora, il lavoratore, è rimasto. Quel che è cambiata è solo la forma giuridica ma non la sostanza: il lavoratore è e rimane uno schiavo! Qualcuno dei critici di Rensi ha sostenuto che se avesse letto il capitolo VI dei Grundrisse di Marx avrebbe impostato il problema diversamente. Ma questa - direbbe Rensi – è una sciocchezza. Anche supponendo che un domani le macchine prendessero il posto dei lavoratori, esse avranno sempre bisogno - vuoi per la manutenzione generale, vuoi per riavvitare una vite allentata, ecc. - della mano del lavoratore e dunque della mano dello schiavo contemporaneo.

 

Il diritto è la legge del più forte

Il carattere principale dell'attuale forma assunta dalla schiavitù consiste nel fatto che l'operare umano non è motivato dal gioco, dal piacere, dalle nostre passioni e inclinazioni ma dalla “coazione delle necessità”, da ciò che ricaviamo in cambio della nostra prestazione. L'amara conclusione dell'irrisolvibile problema del lavoro è che – volenti o nolenti – il lavoro si configura come attività necessaria. Come aveva già affermato lo spirito greco, la necessità del lavoro è perenne e tale è e sarà la schiavitù! Non esistendo né la giustizia né la legge naturale, non ci potrà mai essere una soluzione giusta del problema-lavoro. Qualunque soluzione si dia al problema essa sarà giusta e ingiusta nello stesso tempo. Giusta, per la semplice ragione che non esiste un'idea di giustizia a priori, eterna, assoluta, immutabile. Ingiusta, poiché coloro i quali impongono la loro soluzione scontentano quelli che la pensano diversamente. “Non c'è ragione, ma molte ragioni diverse che sono tutte, allo stesso modo, ragione”. Applicando questo ragionamento nel campo politico, sociale e legale ne deriva che per il nostro – a rigor di logica – “l'idea giusta” è solo quella che si afferma con la forza. La classe vincente, sia essa rivoluzionaria o reazionaria, impone la sua idea di lavoro “e questa diventa il diritto”. Ma ciò non significa che essa sia la più giusta “perché non esiste, e meno che mai in questo problema del lavoro, una giustizia in sé”.

 

Conclusione

Negli ultimi quattro paragrafi mi sono sforzato, perlomeno a livello di volonteroso tentativo, di mettere in luce i passaggi più salienti del saggio rensiano 'Contro il lavoro'. Sono trascorsi esattamente cento anni dalla sua pubblicazione (1923), ma ciononostante, e in particolare in ciò che resta vivo del pensiero rensiano, esso non ha perso il suo smalto, lo smalto del negativo all'opera. Molte delle idee esposte e sostenute dal Rensi, costituiscono tuttora una fonte non solo di riflessione, ma soprattutto per chi – avendo fatto proprio l'adagio benjaminiano che vede nella scrittura “una pallottola sparata in fronte al capitale” – si guarda bene dall'utilizzare il pensiero di un autore per puro e noioso esercizio accademico. La forza del pensiero scettico rensiano è nel non individuare mai una conciliazione dei poli dialettici messi in campo nel suo argomentare. E se proprio vogliamo dirla tutta, la parte più affascinante, ciò che è vivo di Rensi, è proprio la pars destruens. Non per caso si contano con il contagocce le riedizioni della sua opera. Un autore volutamente, e non per caso, fatto cadere nel dimenticatoio.

Un pensatore di cui si avverte ancora la pericolosità a più di ottant'anni dalla morte. Inviso dai colleghi filosofi “per insufficienza professionale nell'articolare il suo pensiero” (poco strutturato e molto argomentativo). Colleghi che in preda all'astio fingevano e fingono di non sapere che Rensi, oltre ad essere stato con Banfi il primo a tradurre in italiano il filosofo e sociologo Georg Simmel era, ai suoi tempi, tradotto in diverse lingue e riconosciuto per la sua autorevolezza a livello internazionale da chi sapeva leggere. Inviso ai lettori di Gramsci e al Partito del Migliore perché nemico di ogni forma di ideologia. Inviso ai cattolici e alla Chiesa perché quando scriveva di Dio era per negarlo (Apologia dell'ateismo). Inviso ai fascisti che gli tolsero la cattedra genovese, lo imprigionarono nelle carceri di Marassi con la moglie e lo umiliarono anche da morto imponendo grottesche misure restrittive anche il giorno del suo funerale. Ma questo grande eretico, nonostante le avversità, solo contro tutti, si tenne saldo al principio che governò la sua esistenza: il dovere di dissentire, il dovere di dire no alle ideologie, ai dogmi. Questo strenuo difensore dell'individuo e della sua libertà lo mise nero su bianco anche nel suo ultimo avamposto: la tomba nel cimitero di Staglieno a Genova. „Etsi omnes, non ego” (Quand'anche tutti, non io) fece incidere sulla sua lapide.

Per “Fogli di Via”