Nel bicentenario della nascita di Hugo si è sentita qualche voce fuori dal coro delle celebrazioni (una per tutte quella di Max Gallo che lo riconferma nel ruolo di uomo d’ordine) ma ricordiamo che, a cadavere ancora caldo, e dopo le strapazzate del suocero Marx, Paul Lafargue (1842-1911) si divertì a spegnere gli ardori consensuali levatisi intorno al “poeta nazionale” con un pamphlet (che qui riproduciamo in amplissimi estratti. Andrebbe pur detto che quanto taluni bollano come malafede, o astio, da parte degli autori di Lotte di classe in Francia e del Diritto all’ozio potrebbe spiegarsi col fatto che Hugo ricordava loro le due cocenti sconfitte operaie del giugno 1848 e della Comune…   

 

Paul  Lafargue

la leggenda di Victor Hugo

 

Victor Hugo appartiene ormai all’imparzialità della storia.

Fin dal colpo di stato del 1852 la leggenda s’è impadronita di Hugo. Durante l’impero, nell’interesse della propaganda anti-bonapartista e repubblicana, non si osava opporsi a questa cristallizzazione della fantasia, alla ricerca di semidei: dopo il 16 maggio, non v’era necessità di turbare gli ultimi anni di un uomo anziano, il cui compito era finito. Ma oggi che il poeta, celebrato dalla stampa, riconosciuto e proclamato “ grand’uomo del secolo”, dorme nel Pantheon, “ la gigantesca tomba dei geni”, la critica riconquista i suoi diritti. Essa può, senza timore di compromettere interessi politici e di ferire inutilmente un vegliardo inoffensivo, studiare la vita di quest’uomo dal nome altisonante. Essa ha il dovere di scovare la verità nascosta sotto  menzogne ed  esagerazioni.

Gli hugolatri si scandalizzeranno del fatto che una critica empia osi levar la mano sul loro idolo, ma se ne facciano una ragione: la critica storica non cerca di piacere e non teme di dispiacere.

Questo studio, basato su note raccolte nel 1869, non pretende di esaurire il soggetto, ma semplicemente di porre in luce il vero carattere di Victor Hugo, tanto stranamente misconosciuto.

                                                                                                               P. L.

    Sainte-Pélagie, 23 giugno 1885

 

I

Il primo giugno 1885 Parigi celebrava i più imponenti funerali del secolo: si seppelliva Victor Hugo il poeta sovrano. Per dieci giorni l’intera stampa preparò l’opinione pubblica francese ed europea. Parigi, per un po’ commossa dalla sfilata della bandiera rossa e dalle cariche poliziesche al Père Lachaise, che ravvivavano i ricordi della Settimana di sangue, riprese ad occuparsi solo di colui che fu “ il più illustre rappresentante della coscienza umana “. La lingua che Victor Hugo stesso aveva arricchito di tante espressioni elogiative, pareva povera ai giornalisti, per cui essendo chiamata a tradurre la loro ammirazione per “ il più gigantesco pensatore dell’universo “ si ricorse all’immagine. Un foglio della sera, a corto di vocaboli, rappresentò in prima pagina il solo morente nell’oceano. La morte di Hugo era la morte di un astro. “L’Arte era finita !”

La popolazione, montata dall’entusiasmo giornalistico, lanciò trecentomila uomini, donne e bambini dietro il carro che portava il poeta al Panthéon, e un milione sulle piazze, le strade e i marciapiedi per cui passava…

La folla agitata e di umore vivace testimoniava rumorosamente la propria soddisfazione per il tempo e lo spettacolo; s’informava sul nome delle celebrità e  delle delegazioni di città e paesi che sfilavano per il suo piacere; ammirava le monumentali corone di fiori portate dai carri; applaudiva i             

pifferi delle società di tiro, che laceravano gli orecchi con arie discordanti… Attori e spettatori giubilavano. E’ vero che gli abitanti dei grandi boulevards, delusi perchè non si faceva passare il cadavere davanti ai loro portoni, calcolavano amaramente le belle sommette che non avrebbero mancato d’intascare; col cuore ulcerato, si raccontavano delle finestre e dei balconi affittati per centinaia e migliaia di franchi; che in tre ore d’orologio s’incassava due o tre volte l’affitto di sei mesi. Ma la pena degli astiosi scompariva nel sollievo generale. Le brasseries piene di donne del boulevard Saint-Michel dilagavano sul marciapiedi; si comprava a peso d’oro il diritto di cuocervi al sole, innaffiandosi di birra adulterata. La gente minuta, installata in luoghi propizi, fin dallo spuntare del giorno, chi con una sedia, chi con un tavolino, una panchetta, uno scalino, li cedeva ai curiosi al prezzo di due giornate di spasso e vita da rentier. I gestori di ostelli e cabaret, gli approfittatori della razza avida ridevano palpando nelle tasche i pezzi da cento soldi incamerati con la festa: uno di loro diceva con aria convinta: “ Dovrebbe morire ogni settimana un Victor Hugo per far marciare il commercio ! “. Effettivamente il commercio galoppava ! Commercio di fiori e di emblemi mortuari : commercio di giornali, di incisioni, di lire in zinco bronzato, dorato, argentato, di medaglie, di effigi montate su spille; commercio di crespo nero, di scarpe, di nastri tricolori e multicolori; commercio di birra, vino e spuntini; gente affamata mangiava e bevevo in piedi nella strada, qualunque cosa e a qualunque prezzo; commercio d’amore- i provinciali e gli stranieri, accorsi dai quattro angoli dell’ecumene, onoravano il morto festeggiando con le “orizzontali”.

I funerali del primo giugno sono stati degni del morto che si pantheonizzava e degni dalla classe che scortava il cadavere.

Le organizzazioni socialiste rivoluzionarie francesi ed estere, che sono la parte cosciente del proletariato, non si erano fatte rappresentare alle esequie di Hugo. Facevano eccezione gli anarchici e, per distinguersi una volta di più dai socialisti rivoluzionari, essi cercarono di mischiare il drappo nero alle bandiere multicolori del corteo; Elisée Reclus, il loro uomo di punta, pregò l’amico Nadar di porre il suo nome sul registro mortuario. Tuttavia, il governo lanciando il divieto di sventolare la bandiera rossa, Vaquerie dichiarando che  nell’esilio Hugo aveva sfilato dietro il drappo rosso ogni volta che si seppelliva una vittima del colpo di stato, e la stampa radicale reclamando il diritto alla strada per lo stendardo della Comune e ricordando come nel 1874 il proscritto dell’Impero avesse aperto la casa di Bruxelles ai vinti di Parigi, tutti parevano gareggiare nell’invitare i rivoluzionari a riunirsi intorno alla bara di Hugo, in quanto centro di raccolta dei partiti repubblicani. Ma i rivoluzionari socialisti rifiutarono di prender parte alla passeggiata carnevalesca del primo giugno.

La City di Londra, invitata, non inviò delegati al funerale del poeta: membri del suo consiglio pretesero di non aver capito niente leggendone le opere; in effetti, motivare il proprio rifiuto con tali ragioni era mal comprendere Hugo. Senza dubbio gli onorevoli Michelin, Ruel e Lyon immaginarono che lo scrittore appena scomparso fosse uno di quei proletari della penna che affittano a settimana e ad annate i loro cervelli alle Hachette dell’editoria e ai Villemessant della stampa. Ma se si fosse detto loro che il morto aveva un conto presso Rothschild, che era il maggiore azionista della Banca belga, che da uomo previdente aveva collocato i suoi fondi fuori dalla Francia, dove si fanno rivoluzioni e si parla di bruciare il Gran libro, e che allentò la prudenza e comprò il prestito di cinque miliardi per la liberazione della sua patria solo perché il collocamento era al sei per cento; se si fosse fatto capir loro che il poeta aveva ammassato cinque milioni vendendo frasi e parole, che era stato un abile commerciante di lettere, un maestro nell’arte di negoziare e stilare un contratto a proprio vantaggio, che si era arricchito, cosa mai vista, rovinando i propri editori; se si fossero così enumerati i titoli del defunto, certamente gli onorevoli rappresentanti della City londinese non avrebbero fatto mancare la propria adesione all’importante cerimonia; avrebbero, al contrario, tenuto ad onorare il milionario che seppe unire la poesia al dare e all’avere.

La borghesia francese, meglio informata, vedeva in Victor Hugo una delle più perfette e brillanti personificazioni dei propri istinti, passioni e pensieri.

La stampa borghese, inebriata dalle lodi iperboliche gettate a piene colonne sul morto, trascurò di mettere in rilievo il lato rappresentativo di Hugo, che sarà forse il suo titolo più reale agli occhi della posterità: cercherò di rimediare a questo oblio.

 

II

I legittimisti non perdonano a Victor Hugo, l’ultra-realista e l’ardente cattolico di prima del 1830, l’essere passato al partito repubblicano. Dimenticano che un figlio di vandeano, il signor de la Rochejaquelein, insediato nel Senato del secondo Impero, cavallerescamente rispose a simili rimbrotti: “Soltanto gli imbecilli non cambiano mai”. Il poeta, incapace di tanto aristocratico sdegno, non oppose mai al partito che disertava questa impertinente scusa: ma volle spiegare ai repubblicani perché era stato realista.

- Mia madre era una brigantessa della Vandea; a quindici anii fuggiva attraverso il Bocage, come Madame Bonchamp, come Madame de la Rochejaquelein, scrisse nel 1831 nella prefazione a Feuilles d’automne.- Mio padre, soldato della Repubblica e dell’Impero bivaccava per l’Europa; io vissi vicino a mia madre subendone le opinioni; per lei “ la Rivoluzione era la ghigliottina. Bonaparte l’uomo che si prendeva i figli, l’impero della spada “…Il realismo di Hugo era solo pietà filiale e si sa che nessuno più di lui meritò l’epitaffio di buon figlio, devoto marito, padre esemplare…In effetti, la brigantessa che batteva la campagna per il Re s’incapricciò del repubblicano J-L.S. Hugo il quale, per seguire la moda del momento, s’era attribuito il nome di Brutus… La vandeana seguì il marito a Madrid, frequentò la corte di Joseph che, sul trono di Spagna, sostituiva il legittimo re, e permise al figlio maggiore Abel di vestire la livrea bonapartista, in qualità di paggio.Il realismo di Madame Hugo, ammesso che avesse un’opinione politica, doveva esser proprio platonico: altrimenti bisognerebbe convenire che una donna così coraggiosa, così fedele nelle amicizie avrebbe in tal modo rinnegato la sua fede e patteggiato con i nemici più crudeli del suo partito. Hugo ha dovuto non saper a che scusa votarsi, per arrivare a prestare alla defunta madre opinioni in contraddizione tanto flagrante con gli atti della sua vita mostrandocela traditrice del partito, traditrice del re per cui avrebbe affrontato la morte. Lui, il pio figliolo, ha dovuto soffrire per esser costretto a infamare la madre tanto devota ai figli, che li allevò e li accudì così teneramente mentre il padre li abbandonava, che li lasciò sviluppare liberamente in obbedienza agli impulsi della loro natura. Ma gli serviva ad ogni costo trovare qualcuno su cui rigettare la responsabilità delle sue odi realiste, che lo imbarazzavano più di quanto il ceppo impacci il forzato in fuga nei campi: lui scelse la madre. (Dal 1817 al 1826 nessun evento fausto o infausto poteva capitare alla famiglia reale senza ch’egli prendesse subito la penna d’oca: ora una nascita, in battesimo, un decesso; ora una ricorrenza, una consacrazione, ogni cosa accende la sua verve…Hugo è il poeta ufficiale, destinato al servizio personale della famiglia reale). Egli può invocare le circostanze attenuanti. Si utilizzava, all’epoca, la madre in tutte le salse; era già la grande risorsa drammatica: era il ricordo della madre che paralizzava nel teatro il braccio dell’assassino pronto a colpire; era la crocetta della madre che, esibita nel momento culminante, evitava lo stupro, l’incesto e salvava l’eroina; era la morte di sua madre  che, dallo Chateaubriand scettico e discepolo di Jean-Jacques del 1797, trasse lo Chateaubriand mistagogico di Atala e del Genio del cristianesimo del 1800. Victor Hugo che non anticipò mai di 24 ore l’opinione pubblica ma seppe sempre  seguirne il passo, scimmiottava il suo maestro Chateaubriand, applicando ad uso privato il trucco che non mancava mai d’effetto a teatro.

Che il realismo di Hugo fosse di circostanza o d’origine materna, poco importa; certo era lautamente pagato, e per fortuna, poiché il pubblico acquistava con moderazione i suoi libri: gli editori di Han d’Islanda gli scrivevano nel 1823 che non sapevano come sbarazzarsi dei 500 esemplari della prima edizione rimasti in magazzino. Luigi XVIII concedeva al poeta, nel settembre 1822, una pensione di 1000 franchi dalla sua cassa personale e, nel febbraio 1823, una seconda pensione di 2000 franchi dai fondi letterari del ministero dell’Interno. Victor Hugo e i suoi due fratelli, Abel e Eugène, con coraggio e tenacità facevano la posta a quei fondi per letterati; nel 1821 si lamentavano amaramente per il fatto che il ministro non aveva sovvenzionato la loro rivista Le Conservateur littéraireIntaccare i fondi segreti del ministro, era metter le mani sulla proprietà degli Hugo. Alla  fine del 1826, Victor reclamava al visconte de la Rochefoucauld un aumento della parte dei fondi a lui spettante: “quattro anni sono trascorsi e se la mia pensione è rimasta quel che era, ho avuto almeno la gioia (che non lo rallegrava) di vedere la bontà del re aumentare le pensioni di diversi letterati miei amici, alcune risultando più del doppio della mia. Dal momento che  solo la mia pensione è rimasta stazionaria, penso di  aver qualche diritto ad un aumento… Depongo fiducioso la mia domanda tra le vostre mani, pregandovi di volerla porre sotto gli occhi di quel re che vuol fare delle belle arti il gioiello più scintillante della sua corona”. Non si tenne alcun conto della domanda così pressante e motivata del fedele servitore, che, per consolarsi, manifestò il proprio disappunto in un testo in versi, in cui trattò Carlo X da “ re-travicello “ e i suoi ministri da malandrini, che “ venderebbero la Francia ai cosacchi e l’anima ai gufi “…

E’ un peccato che Hugo, invece di prestare alla madre le proprie opinioni lealiste al fine di alleviare il peccato di lealismo, non abbia semplicemente confessato la verità, d’altronde così onorevole. In effetti, cosa c’è di più onorevole del guadagnar denaro ! Hugo vendeva al re e ai suoi ministri il talento lirico, come l’ingegnere e il chimico affittano  ai capitalisti le loro conoscenze matematiche e chimiche; vendeva al dettaglio la merce intellettuale in strofe ed odi, come il droghiere e il merciaio spacciano la cotonina al metro e l’olio al litro. Se avesse confessato che, rimando l’ode sulla nascita del duca di Bordeaux o l’ode sul suo Battesimo, o qualunque altra ode, era stato ispirato e sostenuto dalla speranza del guadagno, avrebbe di colpo conquistato tuta la stima della Borghesia, che conosce soltanto il nulla per nulla e lo scambio alla pari e non ammette che si distribuiscano versi, bacherozzoli o ciabatte  gratis pro deo. Convinta che Victor Hugo non praticava dell’ “arte per l’arte”, ma produceva versi per venderli, la borghesia avrebbe imposto il silenzio ai pennaioli invidiosi che, sotto Luigi-Filippo, rimproveravano allo scrittore le sue gratifiche realiste….

Baudelaire, questo spirito a mal partito nel secolo del mercantilismo, questo scostumato che disprezzava il commercio, si lamentava del fatto che quando:

Il poeta appare nel mondo annoiato,

Pronta alla blasfemia la madre spaventata

Stringe i pugni verso Dio impietosito.

 

Perché, nelle famiglie borghesi, imprecazioni e collera accolgono il poeta fin dalla nascita ? Perché si è tanto spesso ripetuto che i poeti vivono e muoiono all’ospizio, come Gilbert, come Malfilatre, che i padri e le madri hanno finito per considerare la poesia sinonimo di miseria. Ma se si fosse loro provato che, in questo secolo di Progresso, i romantici avevano addomesticato la musa vagabonda, insegnandole l’arte di “spargere incenso, divertire il volgo, per portare il pane a casa”, e se si fosse loro mostrato il caposcuola romantico nell’atto di ricevere a venti anni tremila franchi di pensione per dei versi “sonniferi”, i genitori, ritenendo che la poesia procurasse più dell’allevamento di conigli o della contabilità avrebbero incoraggiato, invece di reprimere, le velleità poetiche della loro progenitura.

La borghesia industriale e commerciale non avrebbe atteso la sua morte per inserire Hugo tra i grandi della sua storia se essa avesse conosciuto gli eroici sacrifici ch’egli s’impose e i tormenti mentali che sopportò per ottenere le due pensioni.

 

III

….Napoleone e la sua straordinaria fortuna gli riempivano la testa…Tutti gli uomini della sua generazione subirono questa sconvolgente azione. Bisogna leggere Rosso e Nero per comprendere a che punto Napoleone s’impadronì dell’immaginazione degli uomini di forte volere e potere. Per tutta la vita, ossessionò Hugo: da bambino era il suo ideale…A quel tempo pensava poco alla Vandea e alle sue vergini martiri, a Enrico IV e alle virtù dei re legittimi: Napoleone lo possedeva interamente; e dimenticando i giochi dell’adolescenza ne studiava le campagne seguendone, sulle carte, l’avanzare degli eserciti.

Ma non appena, battuto a Waterloo, il suo eroe viene imprigionato a Sant’Elena, non appena il padre viene accusato di tradimento per aver rifiutato di consegnare allo straniero la fortezza di Thionville, non appena Luigi XVIII fa la sua entrata trionfale a Parigi, scortato da “enormi cosacchi, dagli occhi feroci sotto copricapi pelosi, brandendo lance rosse di sangue  e indossando collane di orecchie umane alternate a catene d’orologi” subito il giovin poeta mette “un giglio d’argento al petto”, scegliendo come soggetto della prima tragedia una restaurazione, e ingiuriando Bonaparte “questo tiranno che devastava la terra”.

E per dieci anni, senza provare un attimo di stanchezza, fece “tuonare nei versi la maledizione dei morti, come un’eco della sua fatale gloria”…

 

IV

La rivoluzione del 1830 disarciona Victor Hugo, ma non gli impedisce di continuare, come nel passato, a percepire i tremila franchi di pensione così onorevolmente guadagnati…Non appena intuisce che il trono di Luigi-Filippo è saldo, dichiara “ci occorre la cosa repubblica e la parola monarchia”. Questa frase che parrà un plagio del motto di Béranger, è una professione di fede: voleva dire che egli avrebbe accettato le grazie e i favori della monarchia, pur restando repubblicano nel foro interiore. Sotto Luigi XVIII e Carlo X, egli adorava in cuore Napoleone e l’insultava nei versi pubblicati, per piacere ai padroni legittimisti. Il repubblicano adulò Luigi-Filippo per ottenere la dignità di pari, come il napoleoniano lusingò i Borboni per strappare delle pensioni.

Il 21 luglio 1842 ebbe il coraggio di gettare in faccia a Luigi-Filippo frasi di questo calibro: ”Sire, siete il guardiano augusto e infaticabile della nazionalità e della civiltà…Il vostro sangue è il sangue del paese, la vostra famiglia e la Francia hanno lo stesso cuore…Sire, voi vivrete ancora a lungo, poiché Dio e la Francia hanno bisogno di voi”. Victor Hugo è sempre stato cosmopolita: univa tutti i re d’Europa nella sua adulazione. Più tardi, dopo il 1848, parlerà degli Stati Uniti d’Europa. Ma prima aveva “benedetto l’avvento della regina Vittoria” e celebrato lo zar Nicola “nobile e pio imperatore”. Nel 1846, pregava il barone von Humboldt di consegnare un suo discorso accademico “al suo augusto re, per il quale sapete la mia simpatia e la mia ammirazione”. Questa maestà tanto ammirata era Guglielmo IV, re di Prussia e fratello dell’imperatore di Germania, incoronato a Versailles. La storia non racconta se il poeta ricevette gratificazioni dalle Maestà-Unite d’Europa.

Finalmente arriva il gran giorno: Hugo, riconquistando la libertà di pensiero, non sarà più obbligato ad adulare i re in pubblico e a parteggiare per la repubblica nel foro interiore. La rivoluzione del 1848 caccia “ l’augusto guardiano della civiltà” e spinge al potere i repubblicani del National. Per un momento si crede possibile la reggenza, Hugo si affretta a domandarla, in piazza dei Vosgi; si proclama la repubblica e Hugo, senza perdere un minuto, si metamorfosa in repubblicano. Le persone che si fermano alle apparenze, l’accuseranno d’essere cambiato, poiché volta a volta fu bonapartista, legittimista, orléanista, repubblicano; ma uno studio un poco attento mostra al contrario che, sotto tutti quei regimi, egli non ha mai modificato la propria condotta, che sempre, senza farsi sviare dalle instaurazioni e dai rovesciamenti di governo, perseguì un solo obiettivo, il suo personale interesse, che sempre rimase hugoista, il che è peggio che egoista, diceva quello spietato critico di Heine, che Victor Hugo, incapace di apprezzare il genio, non poté mai sentire. E’ colpa del pover’uomo, se per far fortuna, il serio scopo della vita borghese, dovette metter al cappello tutte quelle coccarde ? Se colpa c’è, che ricada sulla borghesia che acclamò e rovesciò in sequenza tutti quei governi. Hugo patì quei mutamenti politici: fino al 1830, dovette soffocare l’ardente ammirazione per Napoleone; e fino al 1848, dovette seppellire il suo repubblicanesimo sotto le lusinghe verso il re, come Harmodius nascondeva il pugnale tirannicida tra i fiori.

Mal comprendono Hugo quelli che vedono in lui un uomo votato alla realizzazione di un’idea: allora sì che la sua vita sarebbe un tessuto di contraddizioni irriducibili. Egli lasciò quel ruolo agli ideologi, agli sventati che sognano la vita; si contentò d’essere un uomo ragionevole, senza inquietarsi né per l’effige dei suoi pezzi da cento soldi, né per la forma del governo che mantiene l’ordine in strada, fa prosperare il commercio e distribuisce pensioni e cariche. Nella sua autobiografia dichiara esplicitamente che “ la forma di governo gli pareva la questione secondaria “. Nella prefazione alle Voci interiori del 1837 aveva assunto come motto: “ Stare  con tutti i partiti per il loro lato generoso (vale a dire che rende); non stare con alcuno per il lato dannoso (vale a dire che causa perdite) “.

Hugo è stato un amico dell’ordine: non ha mai cospirato contro un governo, eccettuato quello di Napoleone III, avendoli tutti accettati e sostenuti con la penna e la parola e abbandonandoli solo l’indomani della loro caduta. La sua condotta è quella del commerciante che conosce il mestiere: una ditta prospera solo se il suo padrone sacrifica le preferenze politiche e accetta il fatto compiuto…Gli affari innanzitutto, la politica in seguito…

Nel 1848 i conservatori e reazionari più compromessi si pronunciarono per la repubblica appena proclamata: Victor Hugo non esitò un minuto a seguirne il nobile esempio. “ Sono pronto, disse, nella professione di fede agli elettori, a dedicare la vita all’instaurazione della Repubblica che moltiplicherà le ferrovie…aumenterà il valore del suolo…quieterà le sommosse…farà dell’ordine la legge dei cittadini…ingrandirà la Francia, conquisterà il mondo, sarà in una parola l’abbraccio maestoso del genere umano sotto lo sguardo soddisfatto di Dio “. Questa è la repubblica buona, quella vera, la repubblica degli affari, che presenta “il lato generoso” del motto del 1837.

“ Sono pronto, continuò, a dedicare la vita ad impedire l’avvento della repubblica che abbatterà la bandiera tricolore sotto il drappo rosso, farà soldi con la colonna, rovescerà la statua di Napoleone e innalzerà quella di Marat, distruggerà l’Institut, l’Ecole Polytechnique e la Legion d’onore; aggiungerà all’illustre divisa Liberté. Egalité, Fraternité, l’opzione sinistra: o la morte, farà bancarotta, rovinerà i ricchi senza arricchire i poveri, annienterà il credito che è la fortuna di tutti ed il lavoro che è il pane di ciascuno, abolirà la proprietà e la famiglia, sfilerà con le teste sulle picche, riempirà le prigioni col sospetto e le svuoterà col massacro, metterà a fuoco l’Europa e ridurrà in cenere la civiltà, farà della Francia la patria delle tenebre, sgozzerà la libertà, soffocherà le arti, decapiterà il pensiero, negherà Dio “. Questa repubblica è la repubblica sociale.

Victor Hugo ha lealmente mantenuto la parola. Era uno di quelli che chiudevano gli “ateliers” nazionali, che gettavano gli operai sulla strada, per annegare nel sangue le idee sociali, che mitragliavano e deportavano gli insorti di giugno, che votavano le accuse contro i deputati sospettati di socialismo, che sostenevano il principe Napoleone, che volevano un potere forte per contenere le masse, terrorizzare i socialisti, rassicurare i borghesi e proteggere la famiglia, la religione, la proprietà minacciate dai comunisti, i barbari della civiltà. Con eroico coraggio, che nessuna pietà per i vinti, nessun sentimento per la giustizia della loro causa riuscirono a scuotere, Victor Hugo votò con la maggioranza, padrona della forza. I suoi voti gloriosi e le sue eloquenti parole sono ben noti; sono raccolti negli annali della reazione che partorì l’impero; ma si ignora la condotta , altrettanto ammirevole del suo giornale, L’Evénement fondato il 30 luglio 1848…Dopo l’insurrezione di giugno, non rimaneva, secondo Hugo, che un modo per salvare la Repubblica: - consegnarla ai suoi nemici. Thiers pensava lo stesso dopo la Commune

Hugo resta sempre lo stesso, in mezzo alle circostanze più diverse: durante la restaurazione legittimista, insulta Napoleone, che lo entusiasma; durante la reazione borghese, calunnia gli insorti, di cui ammira le azioni di delicata probità.

Una strana fatalità pesa su Hugo; per tutta la vita, fu condannato a dire e scrivere il contrario di quel che pensava e provava.

Nell’esilio, per compiacere il suo entourage, perorò la libertà di stampa, di parola ed altre libertà; tuttavia niente detestava più di quella libertà, che permette “ ai demagoghi forsennati di seminare nell’animo del popolo sogni insensati, teorie perfide… e idee di rivolta “( Evénement del 3 novembre). Sedata l’insurrezione, la Camera votò la misura che ordinava “silenzio ai poveri !” secondo l’espressione di Lamennais. L’Evénement s’affrettò ad approvare questa “misura così favorevole alla stampa seria. Noi la consideriamo…come necessaria…La Società aveva una libertà incancrenita; una misura censoria, temuto chirurgo, ha operato il corpo sociale”(numero dell’11 agosto) Il libertario Hugo non era uomo da esitare davanti all’amputazione di ogni libertà che impensierisca la classe possidente e turbi i corsi borsistici.

Egli commise allora il grande errore della sua vita: prese il principe Napoleone per un imbecille, di cui sperava di fare uno scendiletto. D’altronde era l’opinione generale dei politici riguardo a colui che Rochefort doveva soprannominare il Pappagallo malinconico: perché neanche nell’errore Hugo fu originale, sbagliandosi imitava qualcuno;…i repubblicani della Camera, mancando d’uomini, l’accolsero malgrado il passato compromettente, consacrandolo capo. Inebriato, sognò la presidenza.

Il colpo di Stato, che sorprese a letto i capi repubblicani, sconvolse i suoi piani, e lui dovette seguire nell’esilio i suoi partigiani, dal momento che l’avevano promosso capo… Quei repubblicani borghesi che avevano massacrato e deportato in massa gli operai, tanto ingenui da reclamare alla scadenza le riforme sociali che dovevano compensarli dei tre mesi di miseria. Posti al servizio della Repubblica, non capivano che il Due Dicembre era la logica conseguenza delle giornate di giugno. Non si accorgevano ancora che quando avevano creduto di mitragliare solo dei comunisti ed operai, avevano ucciso i più energici difensori della loro Repubblica. Hugo, che era incapace di analizzare una situazione politica, condivise il loro accecamento; ingiuriò in prosa ed in versi il popolo dal momento che  non rovesciava sull’istante quell’Impero che lui ed i suoi amici avevano fondato e consolidato nel sangue popolare…Massacrare i socialisti in blusa gli pare nell’ordine delle cose, ma caricare sul boulevard Montmartre…bersagliare qualche borghese in frac e gibus! oh ! che crimine abominevole ! Gli Chatiments ignorano Giugno e denunciano soltanto Dicembre: concentrando gli odi su Dicembre, gettano l’oblio su Giugno.

Nella prefazione al 18 Brumaio, Marx dice a proposito di Napoleone il Piccolo: “Victor Hugo si limita alle invettive amare e spirituali contro l’editore responsabile del colpo di Stato. Nel suo libro l’avvenimento sembra essere solo un fulmine a ciel sereno, l’atto di violenza di un unico individuo. Non avverte che in tal modo ingrandisce quell’individuo, invece di rimpicciolirlo, attribuendogli una forza d’iniziativa propria, tale da essere senza precedenti nella storia del mondo”. Ma magnificando, senza accorgersene, Napoleone il Piccolo come Napoleone il Grande, accumulando sul suo capo i crimini della classe borghese, Hugo discolpa i repubblicani borghesi che preparano l’impero e scagiona le istituzioni sociali che creano l’antagonismo delle classi, fomentano la guerra civile, reclamano i colpi di forza contro i socialisti e permettono i colpi di Stato contro la borghesia parlamentare. Accumulando collera sugli individui, su Napoleone e i suoi accoliti, egli distoglie l’attenzione popolare dalla ricerca delle cause della miseria sociale, che sono l’accaparramento delle ricchezze sociali da parte della classe dominante; egli svia l’azione popolare dal suo scopo rivoluzionario, che è l’espropriazione della classe capitalista e la socializzazione dei mezzi di produzione.- Pochi libri sono stati più utili alla classe possidente di Napoléon le Petit e Les Chatiments.

Altri hugolatri, maldestri panegiristi, prendendo sul serio le dichiarazioni di devozione e disinteresse del poeta, lo rappresentano come un eroe dell’abnegazione;- essi lo spogliano del suo prestigio borghese, per semplicità: a sentirli, egli sarebbe stato uno di quei pericolosi maniaci, obnubilati da idee sociali e politiche, al punto da sacrificare loro gli interessi materiali; vorrebbero assimilarlo a quei Blanqui, a quei Garibaldi, a quei Varlin, a quei folli che avevano un solo scopo, la realizzazione del proprio ideale.- No, Hugo non è mai stato tanto stupido da mettere al servizio della propaganda repubblicana nemmeno poche migliaia di franchi dei suoi milioni;- se avesse sacrificato qualcosa per le sue idee, un corteo di borghesi, tanto numeroso, non l’avrebbe accompagnato al Panthéon..Se Hugo avesse praticato quella politica rompicollo, sarebbe uscito dalla tradizione borghese. Poiché la caratteristica dell’evoluzione politica nei paesi progrediti è di sbarazzare la politica dei pericoli che presentava e dei sacrifici che un tempo esigeva. In Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, i ministri al potere e gli eletti alla Camera e ai Consigli municipali non si rovinano più ma si arricchiscono: in questi paesi non si condannano più i ministri per intrighi borsistici, malversazioni finanziarie e abusi di potere. La responsabilità parlamentare copre le loro colpe proteggendoli da ogni procedimento...La politica parlamentare è una carriera lucrativa; non presenta nessuno dei rischi pecuniari del commercio e dell’industria: un piccolo capitale di partenza, una buona provvista di parlantina, un pizzico di fortuna e molta destrezza ne assicurano il successo. Hugo conosceva solo questa politica positiva. Appena si convinse che l’esistenza dell’impero era assicurata per lungo tempo, spense le folgori giustiziarde e concentrò l’attività nel commercio di aggettivi e di frasi rimate e ritmate…Gli toccò restare repubblicano e rinunciare alla politica; ritenne meglio accettare  intrepidamente il ruolo di martire della Repubblica, di vittima del Dovere. Il ruolo seduceva la sua vanità. Se non era nato in un’isola, come Napoleone, avrebbe vissuto esiliato in un’isola come lui. Imitare Napoleone, divenire il Napoleone delle lettere, cullò l’ambizione di tutta la vita.

I proscritti patiscono ogni miseria, diceva il grande Fiorentino; ma Hugo era più intelligente di Dante. Con un’arte mai eguagliata da Barnum, fece dell’esilio la più chiassosa réclame. L’esilio era l’insegna scintillante appesa alla bottega libraria di Haute-Ville House. I re l’avevano pensionato con la somma di tremila franchi; la sua clientela borghese gli fruttava cinquantamila franchi l’anno. Nel cambio non ci aveva perso. Trovò del buono nell’Impero: “Napoleone ha fatto la mia fortuna” confessava in uno di quei rari momenti in cui deponeva la corona di spine. Come avrebbe potuto una borghesia sicura di sé non estasiarsi davanti a quest’uomo che aveva saputo rendere tanto dolce e profittevole l’esilio ?…

La rivoluzione del 1848 lanciò nella lingua onesta e moderata un nuovo popolo di parole; a partire dalla reazione letteraria cominciata sotto il consolato, esse dormivano nei discorsi, nei pamphlet, nei giornali e nei proclami della grande epoca rivoluzionaria avventurandosi solo timidamente alla luce del sole, nel linguaggio popolare…Victor Hugo stesso sembra intimidito dalle espressioni rivoluzionarie che maneggiava e di cui non capiva esattamente il senso. Volle accertarsi di non aver peccato, per sbaglio, neanche nel pensiero, di socialismo; fece l’esame di coscienza nell’autobiografia e si convinse che lui, che aveva scritto sui poveri, la miseria, e altri temi di componimenti retorici, delle tirate da lastricare il Palais-Bourbon, aveva chiesto soltanto una riforma sociale, l’abolizione della pena di morte “la prima di tutte- forse”. E in sovrappiù poteva dirsi di aver seguito solo l’esempio degli apostoli dell’umanitarismo, da Guizot a Luigi-Filippo; e di aver innanzitutto considerato la pena di morte da un punto di vista letterario e fantastico, come un eccellente tema di declamazione verbale, da aggiungere ai “crocifissi della mamma”- alla “voce del sangue” e ad altri trucchi del romanticismo che cominciavano a logorarsi perdendo presa sul grande pubblico.

Un socialismo che si limiti a questa riforma sociale pratica: l’abolizione della pena di morte, non può impensierire che i boia, di cui minaccia i diritti acquisiti…

Ma là dove Hugo mostra in grande una mentalità borghese, è quando personifica quelle due istituzioni di ogni società borghese, la polizia e lo sfruttamento, in due tipi ridicoli: Javert, la virtù fatta delatore, e Jean Valjean, il galeotto che si riabilita ammassando in pochi anni una fortuna alle spalle dei suoi operai. La fortuna lava ogni macchia e fa le veci di tutte le virtù; Hugo, come ogni borghese, non può comprendere l’esistenza di una società senza polizia e senza sfruttamento.

L’adorazione del Dio-Proprietà è la religione di Victor Hugo… Il suo odio per i socialisti, che tanto ferocemente denunciò nel 1848, è così intenso che, nella sua classifica degli esseri che turbano la società, Lacenaire, l’assassino, sta all’ultimo gradino immediatamente preceduto da Babeuf, il comunista.

Persone che dimostrerebbero solo una cattiva fede, se non fossero ignoranti e svampite, hanno preteso che …quest’uomo avesse disertato la causa della proprietà sacra e preso la difesa dell’insurrezione del 18 marzo. E questo perché egli aveva aperto la casa di Bruxelles ai rifugiati della Commune. Ma tutto in Hugo è réclame e più tardi nel suo Annèe terribile non ha protestato con indignazione contro gli atti di guerra della Commune, non ha ingiuriato violentemente i Comunardi, come una volta i Bonapartisti, stigmatizzandoli con gli epiteti di fucilatori di adolescenti, di ladri, di assassini, di incendiari ?…Forse che, malgrado le pressanti sollecitazioni di Thiers e Favre, i ministri della regina Vittoria e del re Amedeo non hanno aperto i loro paesi, l’Inghilterra e la Spagna, a quei vinti, che inoltre non hanno mai insultato come ha fatto Hugo ?…

 

V

Hugo ebbe la sfortuna di nascere da genitori empi, ed essere allevato tra gli empi. La madre non gli permise di comunicarsi col Buon Dio, ma gli diede, in compenso, come professori, dei preti scettici che durante la Rivoluzione avevano gettato alle ortiche abito e breviario…

Egli si elevò senza difficoltà al livello della grossolana irreligiosità dei propri lettori: perché non gli si chiedeva di sacrificare gli effetti di banale poesia che il romanticismo traeva dall’idea di Dio e della Carità cristiana, su cui i liberi pensatori si scaricano dalla preoccupazione di alleviare le miserie create dal loro sfruttamento; potè anche continuare a far l’elogio del prete e della religiosa, questi gendarmi morali salariati dalla borghesia per completare l’opera repressiva della guardia e del soldato.

Hugo è morto senza preti e preghiere; senza confessione né comunione, scandalizzando i cattolici; mai i devoti del buon Dio non potranno rimproverargli d’aver avuto un pensiero empio. Il suo gigantesco cervello rimase ermeticamente chiuso alla critica demolitrice degli enciclopedisti e alle teorie filosofiche della scienza moderna. Nel 1831 Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire discutevano sull’origine e la formazione degli esseri e dei mondi…Hugo, indifferente alla filosofia ed alla scienza, consacrava il suo “immenso genio” che “abbracciava nella sua immensità il visibile e l’invisibile, l’ideale e il reale, i mostri del mare e le creature della terra…” a sollecitare  la “bilancia emistichio” e a far rimare nombril (ombelico) con avril (aprile), juif (giudeo) con suif (sego)…Il poeta sovrano… non si degna di rilevare che Lamarkismo, Darwinismo, Evoluzionismo, rimavano più riccamente di faim e génovéfain.

 

VI

Ci si ricorderà dell’orgia d’iperboli della stampa parigina, che durò dieci lunghi giorni. Già taluno comincia a riprendersi da quell’eccesso d’ammirazione forzata; e presto si giungerà a considerare quei giorni d’entusiasmo e d’apoteosi come un momento di follia inesplicabile…

Talvolta le generazioni seguenti non ratificano i giudizi dei contemporanei. Ma la critica storica, che né ammira né deplora, ma tutto cerca di spiegare, adotta l’assioma popolare: non c’è fumo senza arrosto…Ogni scrittore consacrato dall’ovazione del pubblico, quali che siano i suoi meriti e demeriti letterari, acquista per ciò solo un alto valore storico e diventa quel che Emerson chiamava un tipo rappresentativo d’una classe, d’un’epoca. - Si tratta di capire come Hugo riuscì a conquistare l’ammirazione della borghesia…

Hugo non si distingue per le idee o per i sentimenti, ma per la forma; ne era consapevole. La forma è per lui la cosa capitale…la verità dell’osservazione e la forza e l’originalità del pensiero sono cose  che non contano, secondarie…

Victor Cousin, il romantico della filosofia, e Victor Hugo, il filosofo del romanticismo, servirono alla borghesia la specie di filosofia e letteratura ch’essa chiedeva. I Diderot, Voltaire, Rousseau, d’Alembert e Condillac del XVIII secolo l’avevano fatta troppo pensare perché essa non desiderasse riposare e gustare, senza rompersi la testa, una dolce filosofia ed una sentimentale poesia, che non dovevano più mettere in gioco l’intelligenza, ma divertire il lettore, trasportarlo tra le nuvole e i paesi sognati, incantandone gli occhi con la bellezza e l’audacia delle immagini, e le orecchie con la pompa e l’armonia del periodare…

Hugo, agli occhi del gran pubblico, accaparrò la gloria della pleiade romantica, non perché fu il maggior poeta, ma perché la sua poetica abbraccia tutti i generi e soggetti, dall’ode alla satira, dalla canzone d’amore al pamphlet politico: e perché fu il solo che mise in versi le tirate ciarlatanesche della filantropia e del liberalismo borghesi…

Davanti alla formula sacramentale del romanticismo: l’art pour l’art si faceva il segno della croce; ma, come ogni borghese dedito a dar fortuna, egli consacrava il proprio talento a lusingare i gusti del pubblico pagante, e, secondo le circostanze, cantava la regalità o la repubblica, proclamava la libertà o approvava l’imbavagliamento della stampa; e quando aveva bisogno di svegliare la pubblica opinione tirava pistolettate: - il bello, è il laido è la sua sparata più grossa. Egli si vantava d’essere l’uomo immutabile, attaccato al dovere come il mollusco alla roccia; ma, come ogni borghese che voglia a qualsiasi prezzo far strada, si adattava ad ogni circostanza e salutava sollecito i poteri e le opinioni che si levavano all’orizzonte. Imbarcato alla leggera in un’operazione politica, scombinata, lestamente cambiò rotta, lasciò i compagni a cospirare e perdere tempo e soldi per la propaganda repubblicana, dedicandosi allo sfruttamento della propria fama; e mentre dava ad intendere di nutrirsi del tradizionale pane nero dell’esilio, vendeva a peso d’oro la sua prosa e poesia…

La messinscena della sua morte è il coronamento della sua carriera di commediante, tanto ricca di effetti sapientemente orchestrati. Ogni cosa  vi è pesata, prevista, dal carro del povero con lo scopo di esagerare la grandeur mediante la semplicità catturando la simpatia della folla sempre credulona,  fino al cancan sul milione legato ad un ospedale, sui cinquantamila franchi per questo ed i ventimila per quello, con lo scopo di spingere il governo alla generosità ed ottenere funerali trionfali senza aprire la borsa…

La Borghesia diede una prova significativa delle sua identificazione con il “grand’uomo” sotterrato al Panthéon. Mentre invitava ai funerali di giugno tutte le nazioni non chiudeva la Borsa e non sospendeva la vita commerciale e finanziaria perché il primo giugno era giorno di scadenza degli effetti e delle cedole. Il suo cuore le diceva che Hugo, il poeta sovrano, avrebbe disapprovato questa misura; lui che, per niente al mondo avrebbe ritardato di ventiquattro ore l’incasso delle proprie rendite e dei propri crediti.

uesta frase, sche parrà un plagio dello storico motto di Béranger