Jean Montalbano
retromania.
Rigurgiti di un pop sterile
La constatazione dell'esaurimento creativo del rock (e
più estesamente di tutta la pop culture) ha oramai assunto la veste banale del
luogo comune tanto da diventare divisa intergenerazionale con relativo e
cospicuo scaffaletto di testi in appoggio.
La palinodia, previo abbandono di entusiasmi per
questa o quella corrente o moda precedentemente abbracciate, passa per la
revisione, fino all'occultamento, di buone porzioni della propria discoteca,
con il rischio di veder trasformate tante promesse di piacere adolescenziale in
altrettanti messaggeri di morte: tutto, pur di non dover ammettere, come a
maggior dispetto facevano zii o fratelli maggiori, che in fondo il rock'n'roll
ha sempre copiato, anche quando, come il punk, mirava al grado zero ed
elementare.
Chi non concordi con il disincanto di Nabokov (il
futuro non è che l'obsoleto al contrario) deve strapparsi dal cerchio magico
che spinge il pop di questi anni a voltarsi compulsivamente verso le proprie
orme e ombre condannandolo a dare un aspetto datato ai futuri sperati. Oltre le
buone intenzioni, questo passa per il riconoscimento dell'era digitale come
destino e maledizione di quanto resta del “mondo musicale” ovvero
dell'intrecciarsi, nella frattura digitale, di stasi e velocità, permanenza ed
istantaneità, disponibilità costante di archivi e risorse e puntualità
dell'informazione.
Il peso di una memoria immensa al medesimo tempo resa
lieve dalla digitalizzazione, la velocità dei nessi accompagnata da un
ipercinetismo fine a sé stesso, un feedback che rende trasparente perfino la
scelta opaca di un anonymous: da tutto ciò sembra discendere l'opposto di un'età aurea della
pop culture. Un guru disilluso come Jason Lanier ha potuto di recente sostenere
che “il processo di reinvenzione della vita attraverso la musica pare essersi
arrestato”. Ed ora un critico militante tra i più ascoltati, Simon Reynolds, ha
deciso di dar voce, documentandoli accuratamente, a dubbi ed amarezze più che
umorali. Scrittore della generazione giunta tardi per l'età aurea del rock e
troppo cresciuto per gli incolpevoli entusiasmi internetiani, dopo anni passati
a tessere elogi di grunge, post-punk e
rave culture, in questo Retromania (Faber & Faber,
2011. Isbn per l’edizione italiana) dai toni spesso malinconici, ha deciso di
esplicitare i temi del “passato” e del ripiegamento sempre più diffusi all'interno di una cultura pop che
finora veniva implicitamente associata all'adesso se non al domani, spia di
cambiamenti di là da venire, assaggio di futuro dentro quanto era destinato a
perire. Reynolds, il cui libro non va neanche liquidato (come qualcuno ha
fatto) quale canto della crisi di
mezz'età del critico pop, ha scoperto che l'ossessione per il passato ha
subito, come per esaurimento di spinte innovative ed originali, un'accelerazione
che porta all'imitazione e ripresa di modelli ed esempi del ventennio o
decennio precedenti, consumando ogni cosa nel vorticoso appiattimento del tempo
storico favorito dalla massiccia diffusione delle nuove tecniche di produzione
e distribuzione.
Dietro quel che vince oggi c'è un impulso a riprodurre
accuratamente il molto visto ed ascoltato in precedenza, alle spalle di ogni
transitorio “creatore-produttore” c'è una storia di accanito consumatore.
Se Harold Bloom poteva, al vaglio dell'angoscia
dell'influenza, selezionare i forti ed i creatori capaci di sottrarsi alla
condanna di “ventriloqui” dei Maestri, quanto viene oggi acclamato si presenta
già come derivativo, ornato delle insegne del passato, centrale perché
indebitato. Dacché l'avanguardia è stata dichiarata morta, non si pongono
limiti al saccheggio delle scorte di ieri, vivendo di cicli che riciclano,
slegati da storia o realtà.
Reynolds rimarca spesso l'inanità di chi si trova ad
escogitare frasi e metafore ingegnose per descrivere produzioni dell'industria
e cultura retro, non tacendo le proprie frequenti sensazioni di vergogna
associate all'odierna “retromania”.
Constatare che la copia è un momento dell'originale
dapprima può essere fonte di un'allegria che poi trascolora nei toni lievemente
isterici con cui viene posta la domanda: come abbiamo fatto ad arrivare fin qui
?
Buona parte del libro è occupata da un'esame accurato
e fin troppo dettagliato e documentato (per chi non sia granché interessato
alle vicissitudini dello spettacolo anglosassone) del prepotente emergere della
copia, del revival, della replica nella pop culture sottolinenando pure, di
passata, l'importanza che il Giappone ha avuto nell'archiviazione e riproposta
di molte subculture giovanili frettolosamente consumate e dimenticate nei
luoghi d'origine (Europa ed America).
Da due decenni le innovazioni più pesanti nella musica
riguardano i modi di distribuzione e consumo piuttosto che i generi e le
correnti. Di più: il nuovo, risultante dalla ricombinazione di dati accumulati
in quantità prima inimmaginabili e
pressoché gratuitamente accessibili, edifica su suoni che sono già
“retrospettivi”.
Indebolita, fino a scomparire, la sensazione di
muoversi in avanti, associata a quella dinamica energia che produceva epoche e
stili (beat, psichedelia, punk...) anche il “pop” appare vittima del suo
passato ed assillato dai tanti multiformi recuperi. Abitato dal passato, esso
pare in grado di produrre, con l'aiuto della tecnologia, soprattutto echi,
fantasmi, ectoplasmi sorti dalla sua “memoria” digitalizzata facilmente
disponibile e raggiungibile. La ricapitolazione cancella gli imprevisti del
tempo storico e condanna il pop a vivere una pretesa simultaneità. Il prefisso
dominante secondo Reynolds è “ri-”: invece delle visioni del futuro, parliamo
di ristampa, revival, riunione, rifacimenti, riproposta, occasionati da
anniversari e ricorrenze spesso pretestuosi. Né il fenomeno può essere spiegato
dalle sole motivazioni economiche (necessità di raddrizzare conti bancari di vecchi
dinosauri) tanto esso appare diffuso e trasversale Lo stesso intervallo fra ciò che accade per
la prima volta e la sua riproposta è sempre più sottile, allestendo un teatro
di eventi che sono altrettante ripetizioni di un originale mai visto. E se un tempo
l'aggettivazione retro era riservata ad esteti o dandies che
consapevolmente citavano e si appropriavano di vestiti e musiche, l'odierna
vaghezza del termine è applicata a qualunque cosa si colleghi al passato
immediato della pop culture. Dunque è sugli abusi del passato che si dovrebbe
indagare: cominciando dalla disponibilità della passata discografia e
dall'immenso archivio di YouTube, senza tralasciare la scena sempre più
ingrigita (nel senso dei capelli) del rock (entrato nei sessanta anni di vita)
e le truppe di nuove leve che guardano ai vecchi vinili per proporre le loro
novità.
Perplesso, l'entomologo Reynolds studia questi anni
che ombelicamente fissano un qualsiasi passato, con un sicuro sovrappiù di
coscienza critica, ma nei limiti di un'impasse che certifica il venir meno
delle spinte dinamiche di altre ere.
A sorprenderlo è che soprattutto nelle culture
marginali (un tempo definite hipster) domini una sensibilità retro.
Archivisti e curatori hanno sostituito gli innovatori e gli autorevoli circoli
di estimatori del nuovo, dell'inusitato ed inaudito.
Uno che vive ed è immerso in queste reinterpretazioni
e reinvenzioni di stili passati, avendovi anche ricavato un piccolo seguito
adorante, Sufjan Stevens, dichiarava tempo fa la avvenuta “musealità del
rock'n'roll”. Chi si reca nei club (soprattutto alternativi) per testimoniare
il nuovo, presenzia ad un ennesima puntata
di History Channel dove si inscenano vecchie emozioni, con bands che
evocano i fantasmi di un'era trascorsa (Who o Sex Pistols, è la stessa cosa):
“è già stato fatto. La ribellione è finita”.
La musica tende a strutturarsi intorno a nodi passati
e riferimenti accertati. Se ad esempio il folk una volta si trasmetteva da una
generazione all'altra, con la mediazione dei maestri e insegnanti o la
frequentazione dei concerti, oggi il cosiddetto free folk (o freak
folk) simula a partire dall'ascolto dei dischi (quando va bene, vista
l'immaterialità di molta musica disponibile) celebrando la coazione alla
ripetizione; banalizza così, poco fantasiosamente, il gesto di un suo nume,
John Fahey, che cinquanta anni fa immaginava e orchestrava mitologie di blues e
primitivismo rurale, terminando la carriera con la fondazione di un'etichetta
discografica, la “Revenant”, che fin dal nome alludeva al ritorno del
tra-passato.
Il punto è se queste ombre rievocate lascino tempo
all'oggi per crescere o non soffochino ogni raro accenno di originalità e
spontaneità che non si dichiari ricalco o eco ravvicinata.
Nello svuotarsi di valore della musica, nella perdita
della famigerata “urgenza” espressiva a favore di una “conoscenza” esoterica di
stili, Reynolds vede confermata la tesi
spengleriana dell'occidente che vive in “civiltà” più che in “culture” e la cui
potenza generativa si è esaurita. Solo, la cultura da plagiare adesso non è
quella del terzo o quarto mondo, ma quella resa disponibile con meno rischi dal
web. Quando l'elaborazione avviene, lontano dalla creatività romantica, grazie
all'assemblaggio dei gusti e alla selezione delle influenze, il “creativo” è un ex-consumatore che ha acquistato
identità al mercato delle idee. Del che si è ben consapevoli, senza l'ausilio
di specialisti in ermeneutica: “è come una cultura, senza la tensione di ogni
cultura / è come un movimento senza la seccatura data da un pensiero” (LCD
Soundsystem). Risulta centrale e decisivo chi traffica con il passato, sciolto
dalla vergogna e dalla colpa che
marchiava chi un tempo mostrasse troppo evidenti segni di influenze.
Né si ribatta che movimenti e stili retro sono già
apparsi nella storia del rock (mod, northern soul, tribù Dead-head ecc.) perchè
allora quel volgersi indietro, e là ancorarsi, testimoniava anche una volontà
di opposizione e resistenza all'avvicendamento di stili imposto dai cicli
consumistici. Ma quando tutto il passato, persistenza spettrale o significato
fantasma, acquista striature di esoticità rivelandosi incapace di fornire
identità ribellistiche, è difficile trovare anche tracce di dissidenza
nostalgica.
In questa comoda accessibilità il passato perde
proprio la qualità di “passato”,
perdita, mistero, smarrendo quella punta critica di cui si armavano i
vecchi revivals per mostrare di non gradire certi aspetti del presente.
La sterilità creativa si nasconde dietro il
copia-incolla produttivo e la generale disponibilità di economici programmi
digitali e se qualche anno fa tutto il discorso di Reynolds sarebbe stato
rubricato come ennesimo svolgimento del tema postmodernista applicato al rock e
derivati, adesso l'autore vorrebbe sottrarsi alla genericità di quell'etichetta
e precisare lo stato dell'arte pur ammettendone la pericolosa vicinanza agli
aggiornati lessici della moda. Per un Alan Kirby che ha già parlato della morte
del postmodernismo, c'è uno scrittore, Patrick Mc Nally, che ha proposto il termine “memoradelia” per
indicare, a mo' di inconscio collettivo, quel groppo di fantasmi della vita
passata che ritorna ad ossessionarci. Già i dischi sono fantasmi che possiamo
controllare; ora il campionamento, il sampling, l'uso del registrato per fare
altre registrazioni, producendo un evento musicale mai accaduto, un incrocio
tra viaggio nel tempo e seduta spiritica, rafforzano la “soprannaturalità” del
gesto. Oltre il collage, qui l'accento è sul lato temporale inerente alla
musica. La produzione somiglia al
coordinamento ed arrangiamento di (voci)- fantasma. (Ma allora bisogna
ricordare che prima del Michael Jackson sfigurato da John Oswald, che perciò
venne inquisito, già i Residents spernacchiarono i Beatles, e prima ancora, in
area più colta, Presley subì analogo trattamento da James Tenney nel 1961).
Ma è soprattutto il ricorso alla derridiana
“hauntology” a prevalere nelle discussioni critiche up to date, ad indicare una
complessa dimensione culturale basata non solo su memoria storica e ricerca
archivistica, ma pure sulle utopie ed i motivi futuribili ormai perduti: col
termine, coniato dal filosofo franco-algerino a partire dalla persistenza
spettrale di Marx, si tematizzano desideri e tensioni verso un passato
“irrecuperabile”, in musica reso presente dai clicks e fruscii (dei dischi)
sempre più in primo piano rispetto ad una forma canzone che tende a sfumare,
cancellata e sovrastata da echi e riverberi che simulerebbero erosione del
tempo e fragilità della memoria. Erosa dal pulviscolo sonoro, la linea chiara
della musica precedente decade lasciandoci in “presenza” dell'amorfo. In
Inghilterrra più che altrove a questo canto impossibile si accompagna un
rimpianto nemmeno tanto velato per un'epoca, gli anni cinquanta, in cui gli
alleati americani se ne andavano ed il frutto avvelenato del r'n'roll ancora
doveva distruggerne l'insularità. Che
l'hauntology non sia l'ennesimo smercio, culturalmente aggiornato, del
già vecchio postmodernismo musicale resta da dimostrare, diciamo che indica quel
luogo dove si raccoglie, come in
un'immensa entropia astorica, tutta la cultura popolare britannica successiva
alle restrizioni del secondo dopoguerra e precedente la rottura (e ripresa)
punk di metà anni settanta. Le speranze
e l'ottimismo degli anni cinquanta vengono evocati per fertilizzare lo spirito
di chi trova problematico guardare avanti; piuttosto che a riscrivere la
storia, ci si applica a scoprire, dentro i percorsi ufficiali, dei passati
alternativi nascosti o segreti, battendo sentieri tanto poco frequentati da
rendere il passato una terra straniera o estraniata. Quando Leyland Kirby
titola un suo lavoro “Sadly, the Future Is Not What it Was” vuole dar voce alle
frustrazioni di una generazione che, dopo il fatidico 2000 e diversamente da quanto
prospettatole, continua a spostarsi su auto a benzina invece che veicoli
volanti, andando in vacanza in Grecia invece che sulla luna. Se una realtà più
prosaica si è presentata dove ci si aspettavano visioni scintillanti di un
futuro inghiottito chissà dove, il passato stesso, il suo revival, assumono
colori “progressive”. Il futuro facilmente ha assunto toni catastrofici: alle
plastiche e fluorescenze delle odissee spaziali è seguita la ruggine e lo
sgocciolio delle “stazioni” fuori rotta. (Per un'esemplificazione molto british
dell'applicativo "hauntology" alla musica vedi ora l'antologia curata
dal sito Boomkat Hauntology:
A peculiar sonic fiction ).
Le stesse bolle sgonfiate della nuova economia hanno
già prodotto una facile letteratura sulle promesse tradite di internet, quando
non del liberismo tout court: è il quarto d'ora amaro delle geremiadi. Perciò
spesso l'hauntology si confina a riscoprire la strana poesia del tedio, ad uso
di chi, prima che del futuro, è stato privato delle dinamiche neofiliache degli
anni sessanta, del loro culto per le continue rotture di limiti. In luogo della
futurologia adesso vige il corto respiro della “caccia al cool” al servizio del
marketing e dei progettisti di marchi registrati. Dove il modernismo fornisce tracce spettrali per il futuro, questo appare
come un più dello stesso.
Lo stesso
William Gibson, ridotto a più miti consigli, si ritrova il futuro alle spalle e
riconosce nel presente il vero alieno.
La stanchezza
del futuro ha dato il cambio allo choc del futuro e la retrocultura, per
Reynolds, è un'altra sfaccettatura del reclinarsi e decadere dell'occidente.
Solo la rave-culture, la tecno e il rock più marginale degli anni novanta
tennero per poco in vita la spinta al costante progresso del credo modernista.
Oggi, agli anni duemila, associamo l'aggettivo “piatto” dove nulla è saliente.
Mancano i movimenti, le sottoculture dei passati decenni, il senso di
propulsione continua. Ciò che si propone come musica sperimentale sfrutta
procedimenti e tecniche delle avanguardie passate mentre il suono stesso nasce
già compresso, pronto per mp3, pre-degradato ed impoverito per essere fruito
con i-Pod, smartphone e casse da computer.
Grazie alla compressione e miniaturizzazione, domina
l'Adesso digitale, un'atemporalità governata con le nuove tecnologie e culture
della Rete. Mentre i generi permangono
in una simultaneità revivalistica, ricorso e riciclaggio prendono il posto
della genuina innovazione. Chiamati da regioni distanti e convocati da epoche
opposte, materiali ed influenze sono accoppiati sul tavolo delle postproduzioni
digitali, a mimare la sola radicalità immaginabile, quella atemporale.
Nessun mirino inquadra più il futuro e la fuga e
l'evasione passano più spesso per il fantasy digitalmente trattato.
Freak folk e new americana recuperano barba e gonne
lunghe che conquistarono già gli anni sessanta, quando sembrare un contadino
americano significava maturità, integrità, sprezzo dell'immagine e distanza
critica dal superficiale pop da classifica. Ma ecco, a confermare una diversa e
confusa compresenza di stili, adesso c'è quella canzone dal titolo “Vorrei
essere un punk rocker (con fiori nei capelli)”.
Fine di un tempo orientato (al futuro) e basato sul confronto-scontro per far posto
ad un presentismo governato dal consenso, catastrofista e accorato in alcuni,
come Reynolds, allegramente e disponibilmente edonistico in chi vi si è
installato intenzionato a saggiarne fino in fondo le possibilità di spasso.
Se i primi vedono staticità e scarsità di nuove forme
in tanto sviluppo tecnologico (distribuzione, archiviazione ed accessibilità di
dati audio) i secondi alimentano insaziabilità e brama di possesso grazie alla
disponibilità e generosità di chi mette in rete saperi e conoscenze.
La sovracondivisione accende passioni archivistiche
deliranti, sempre più favorite dalla diffusione e semplificazione di
piattaforme pre-formattate.
Ma pochi passi distanziano la neofilia dalla
necrofilia in cui l'ammirazione gira a vuoto.
La storiella di quel band leader, ammiratore e
puntiglioso ripetitore del suono dei sixties, che di fronte ad un banco di
missaggio dell'epoca, lo scartò perché sopra non c'era l'autentica polvere
degli anni sessanta, sintetizza bene l'esito di certe torsioni.
Ricordiamo e dibattiamo di tecnologia più che di
musica. Quel che viene mediato, il contenuto, pare immutato a fronte dei modi
di distribuzione che sembrano in continua trasformazione. Il messaggio è l'
essere connessi, l'abbondanza di scelta, ecc. Come altri dissero del denaro, la
connessione è l'equivalente universale che consente la relazione.
Tutto questo ha posto irreversibilmente in crisi la
professionalizzazione della cultura (incluse le sue ben remunerate punte
divistiche) portando a conclusione il processo innescato (nell' era ormai archeologica
delle fotocopie) dalle pratiche punk.
Con i costi del “sistema analogico” sono caduti pure i
processi di filtraggio e selezione che lo sorvegliavano ma abbondanza e
ridondanza dell'offerta digitale delineano un paesaggio appiattito.
Perciò Momus,
aggiornando l'usurato detto, ha potuto sentenziare che “in futuro ognuno sarà
famoso per 15 persone”, traguardo non trascurabile in un web affollato da files
che nessuno ha mai consultato e da musiche cliccate solo dal loro “postatore”.
Dissolvente e liberatorio, per certi aspetti internet
risulta più efficace, vista la disponibilità dei mezzi, nell'esecuzione del
programma postmodernista.
Quando tutto si trova già in rete, non sei tu a
estrarlo dal contesto “originario”, qualcun altro lo ha fatto al tuo posto
mettendolo a disposizione. Derivata e indebitata verso il passato, la musica è
senza sfondo, svuotata di senso, come tanta economia; e come tanti strumenti
finanziari rivelano i propri arcani a pochi addetti, le particolari qualità
stilistiche delle nuove bands sono ultrareferenziali e comprese da eletti e
scelti bloggers.
L'apparente flessibilità del tempo in cui gli eventi,
catalogati, paiono sempre recuperabili e come sottratti all'antica legge
dell'irreversibilità, rende ascolti e partecipazione più friabili, meno intensi
e più distratti.
La musica non sembra più capace di imporre il suo tempo,
appiattendosi su uno fondale digitale rispetto ad un ascoltatore impegnato
in più compiti. A sembrare smarrita è l'idea stessa di catena causale e
consequenziale lungo cui si organizzava la storia dei suoni.
Il senso di costante accessibilità, fino alla crisi di
sovradisponibilità, porta alla perdita dello stesso senso di perdita, con il
suo carico d'irrimediabilità: niente scompare per sempre, tutto ritorna, nella
forma di box retrospettivo con extra ed interviste, che forse non riusciremo ad
ascoltare fino in fondo. Dove il suono è volto in codice (digitale) anche
l'incompatibile viene combinato con la facilità e l'incolpevole appropriazione
del “qualunque cosa va bene”. Sulla strada già tracciata nel passato dal
sistema - moda, la poca energia residuale della pop culture (succhiata ai
depositi archiviati) è spesa per cambiare tendenze e ripercorrere, di quel
sistema, i tassi di avvicendamento artificialmente accelerati e gli altrettanto
rapidi cicli di obsolescenza. L'accelerazione mima quella della vita quotidiana
dentro una griglia data di sorgenti ed influenze. A questa “sterilità febbrile”
o “vasectomia culturale” Reynolds non vuole arrendersi, non accontentandosi dei
rapidi movimenti dentro una rete di conoscenze intorno a cui vivacchiano
esoteriche comunità virtuali di riscopritori e rivalorizzatori. Finché si
lavora fra strati di materiali non si farà che riscoprire, trovando il perduto
piuttosto che l'ignoto. Orientata al passata la musica si forma per
retro-attività e gli archeologi sempre più somiglieranno a scoperchiatori di
tombe.
Ora che alla declamata post-storia si accompagna una
post-geografia che ha stinto e amalgamato ogni suono regionale e colore locale,
l'esperienza destinata al primo mondo pare quella dell'archivio in cui tutto è
virtualmente raggiungibile e all'irreversibile aut-aut è subentrato il
conciliante et-et.
Constatare, come è invalso da qualche tempo, che
l'originalità è sopravvalutata e che gli artisti hanno sempre copiato e
riciclato (l'arrendevole estetica
Qohelet del niente di nuovo ecc ecc) serve a far dimenticare che, nella
sua corsa elettrica e impersonale verso il futuro, nemmeno il pop ha sempre
ripetuto sé stesso. Navigando a vista nella profusione offerta dalla rete,
ridotti allo spoglio internetiano di minuzie e arresi all'ascolto del nuovo
retro, quasi ci dimentichiamo di quando all'orizzonte del pop apparivano cose
davvero insolite ed inedite. Se e quando il nostro mondo possa uscire dal
cerchio del tramonto inscritto nel suo nome, è cosa cui neanche la studiosa
applicazione di Reynolds può dare risposta.