Eric Stark
Illusioni céliniane
Jean Narboni:
La Grande Illusion de Céline (Capricci,
Paris, 2021)
Sarà nelle pagine di Bagatelle per un massacro,
uscite a fine 1937, che
Celine prenderà di petto la
questione del cinema francese
come esemplificazione nazionale
della grande cospirazione operata dall' Hollywood juive. Al cinema,
già da "sempre così eminentemente giudeo" perfino negli esiti migliori,
come nel caso de La
Grande Illusion di Jean Renoir di pochi mesi precedente, riserverà oramai perlopiù invettive e disprezzo. Se ancora il Viaggio...
confessava d'ispirarvisi riconoscendo il diritto dei poveracci
di fare un pieno di sogni nel buio della
sala per poter meglio affrontare la durezza in attesa là fuori, fino
all'esaurimento della riserva di coraggio e alla nuova immersione
nel delirio dell'anima, si accusava pure la facile disponibilità,
da piccolo salariato, del cinema assimilato
alla prostituta. Cinema d'illusioni, stretto confinante con la fossa comune.
Per questo lato dell'invettiva sarà agevole per Céline deprecare l'abbruttimento delle masse, fino a stagliare sulla macchinazione
promo-pubblicitaria l'ombra
rapace dell'ebreo. E arriviamo al '37, alla pratica Renoir quando Céline scopre nella parlantina
di Rosenthal, interpretato da Marcel Dalio, l'ebreuccio figlio di banchiere, tanto più pericoloso
in quanto si dichiara amico dell'operaio, ariano, interpretato da Gabin, oltre che generoso,
e dunque pericoloso, verso i compagni di prigionia.
Propaganda ebraica al cui autore,
Renoir, lo scrittore promette
di comandare lui stesso il
plotone d'esecuzione non appena i tedeschi
arriveranno a Parigi. Deciso a giocare lo stesso gioco di Céline, Narboni in questo racconto crudele rifà il tracciato,
tragico e grottesco, di un'illusione, altrettanto grande, che guidò
Céline smentendone nei fatti il proclamato
fiuto nello snidare l'elemento ebraico manovratore, tra le quinte, della scena francese.
Tanto agitarsi, nei pamphlets e nei romanzi successivi a Morte a credito, lo
portò, secondo l'ex redattore dei “Cahiers du Cinéma, a travisare il senso del film nella fretta di una sentenza, accecamento
da cui si astenne il più titolato
Rebatet il quale prese le difese di Renoir trovandone l'opera esente dalla mentalità
giudaico-parigina. Forse
Celine pretese troppo dalle sue auscultazioni, supposte infallibili, o forse la guida del
medico etnorazzialista George Montandon
(che andava raccogliendo materiali per il suo “Come riconoscere
l'ebreo”) per quanto spacciata come scientifica, più che bisognosa
di una messa a punto mostrava di non resistere alle “falsificazioni”. Una puntigliosità, quella céliniana, che esibisce smagliature e vuoti se viene a mancare quando si tratta di arieggiare
i propri armadi; Narboni ricorda che nel
cognome della
signora Céline, Almansor, a
seguire l'onomastica razziale dell' altrettanto stravagante Bernardini, risuonerebbe un poco tranquillizzante, per nulla ariano, Al-Mansur. Ma esempi di fallace expertise o invalida sagacità si rinvengono
in tutta la cèliniana lettura de La Grande Illusion. Anni
di scrutini ed
esercizi di sospetto andati in fumo davanti al gioco superiore di Von Stroheim che nel film impersona il conte von Rauffenstein
e creduto da Céline aristocratico
ariano. Uno Stroheim impostore
che ben più di lui, Céline, amava farsi odiare,
come da motto hollywoodiano. Livore
razzista, “hallucinante
intuition” a detta dello stesso, freddo, Montandon, che non
risparmia niente e nessuno. In attesa che il mito
ariano (alla cui creazione Celine invita persino Cocteau) rinvigorisca
i francesi (quelli a nord della
Loira, perché gli altri, i
mediterranei, sono già arabizzati) ce n'è sia
per Racine (nella cui radice
risuonerebbe un sospetto
“Rosen”) sia per Maurras
(da “marrano”?). Da un'esagerazione
all'altra, cui non sfuggono
né Eichmann né Riefensthal, il cerchio magico del Fuhrer risulterà con gli anni giudeizzato,
fino alla pantomima complottista che vorrebbe Hitler morto già dal 1944 e sostituito da un ebreo (e dunque mimando il gesto di Chaplin). Fa bene Narboni a ricordare quanto occorse a Praga allorché Heydrich chiese di rimuovere dal teatro, tra le tante statue che lo decoravano, quella di Mendelssohn; al che gli operai incaricati,
ignoranti di musica e biologia razzista, pressati dalle SS, rimossero quella di Wagner che a loro sembrava
dotato del naso più grosso.